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Alberto Burgos

La generazione perduta

"Generazione perduta" è un'espressione un po' patetica, perché utilizzata in tempi diversi per definire sbrigativamente fasce più o meno giovanili particolarmente sfigate in varie circostanze: dai terroristi degli anni piombo ai ragazzi del Vietnam (i boys, si capisce, dei viet chissenefrega), dai disperati cultori della "spada" (l'ago della siringa piena di eroina) ai componenti delle multiformi bande di strada, e via dicendo.
E chissà dove, o quando, è da collocare la prima "vera" generazione perduta.



Anche se, comunemente, così si definisce quell'ambito di scrittori che crebbe negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale e che ebbe Fiesta di Hemingway come manifesto.

L'America esce dalla Grande Guerra con un atteggiamento confuso e contraddittorio: sfugge al ricordo degli orrori di trincea godendosi il benessere e il divertimento, e/o si scopre puritana e proibizionista, aggiungendo alla tristezza del conflitto quella procurata dal materialismo-edonismo dilagante; riscopre le proprie origini rurali e/o fugge a Paris, France.



Roaring Twenty”, anni ruggenti, perché non divertirsi era impossibile, e i dollari giravano vorticosamente. Dappertutto. Almeno fra i bianchi delle città e i neri di élite. E tutto si può comprare a rate, dalla radio alla fenomenale Ford T ai nuovissimi elettrodomestici. E se il Proibizionismo rassicurava i benpensanti, si moltiplicavano i club, protetti dalla polizia corrotta, dove l'alcool era l'amico di tutti: "speak easy", bastava dire le parole giuste e la porta con lo spioncino si apriva in un locale ebbro di fumi, liquore e sesso.
E le feste erano oscillazioni oltre confine, splendide come quelle del Grande Gatsby.
Proprio lì, paradossalmente, si emanciparono molte donne, vestendosi con spregiudicatezza e giocando a poker con più lucidità di tanti duri. E quanto alle operaie morte pochi anni prima a New York, o alle vedove che per pochi dollari offrivano una sveltina in qualche vicolo, che sfortuna, poverine, ma la vita è così, e in America sì che si può ancora sognare.
Al Capone regnava, ma che importa? Il futuro era dorato come il bourbon e davvero quello era il migliore degl'immondi possibili.
Era “l’età del jazz”, però, e se spesso questa musica (dei neri) accompagnava le serate (dei bianchi) all'insegna dell'eccesso, era pur sempre la creazione di una cultura subalterna, un'espressione artistica che rompeva le strutture formali della melodia e del ritmo "facile", consolatorio. Un cuneo ambiguo che irrompeva con ferocia dissimulata nei salotti impregnati di profumo della borghesia (o sedicente tale).

In questo intreccio di contraddizioni si forma la "generazione perduta": intellettuali - scrittori, soprattutto - che si staccano con repulsione dai sogni dorati (e nel 1929 il crollo di Wall Street s'incaricherà di distruggere a livello di massa, e non per pochi anni, questo mito), usano cinicamente, e talvolta in modo opportunistico, il benessere diffuso e in apparenza inarrestabile, si alienano selvaticamente dai luoghi comuni hollywoodiani, sparano con violenza su quello che intorno al '68 verrà definito "sistema" (e molti anni dopo un folle ingegnere parigino, Boris Vian, riprenderà fino all'esasperazione estrema queste atmosfere allucinate e mortali, in quel torbido e al tempo stesso sublime Sputerò sulle vostre tombe).
È una rivolta, naturalmente, che per definizione è pre-politica, e comunque lontanissima da qualsiasi progetto rivoluzionario.
Ma ne escono dei capolavori straordinari, tanto che l'establishment culturale europeo - così legato ai propri fari intellettuali - sembra cedere le armi a questa orda impazzita e rabbiosa, fino al punto di aprirle il tempio dei Nobel: dopo l'insulso Sinclair Lewis, seguono Pearl caramella Buck, William Faulkner, Ernest Hemingway.
E anche se non ottengono questa consacrazione, tanti altri nomi irrompono come un selvaggio assolo di sax in mezzo a un quartetto d'archi: Sherwood Anderson, Francis Scott Fitzgerald, John Dos Passos, Nathan West, Eugene O'Neill, William Carlos Williams, Robert Frost, e gli espatriati T.S. Eliot ed Ezra Pound.

In realtà non vi era molto in comune fra questi talenti così difformi e anche antagonisti, ed è significativo che la maggior celebrità l'ottenne quell'Hemingway che forse era il meno talentuoso, e certo il più sopravvalutato, e il più imitato.
Faulkner, col suo L'urlo e il furore fece giustizia della paccottiglia sudista tipo Via col vento (da cui uno dei film più idioti e amati di tutti tempi, perché "domani è un altro giorno", oh yeah), e parlò con sontuosa crudeltà dell'odio e del sangue; e dopo il terribile "occhio fotografico" di Dos Passos (in particolare la trilogia USA) diventa oltraggioso sorbirsi le vagonate zuccherose di La vita è una cosa meravigliosa; le metafore scomposte de Il giorno della locusta di N. West e la raffinata freddezza di O'Neill spiazzano irrimediabilmente il lettore; la solitudine senza fine di Eliot e il mito rincorso vanamente da quel gigante di Pound (anche se un po' nazista, non facciamo finta di niente) bruciano crudelmente le frivolezze poetiche di tanti mandarini europei.
L'autodafè dello speculatore, il medioevo senza luce del bracciante, le città piene di promesse infernali, ricchi che sbranano e dissipano, il sud che rivela se stesso e suicida la propria epica, anime senz'anima.

Ma Fiesta rimane il manifesto della generazione perduta...
Sembra una qualche invenzione ironica di Salinger.