Piergiorgio Odifreddi

Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)

Longanesi, 2007, € 14,50

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Cristo è la traslitterazione del termine greco christos, «unto», scelto dalla Bibbia dei Settanta per tradurre il termine ebraico mashiah, «messia», col quale l'Antico Testamento indicava colui che doveva venire a restaurare il regno di Israele.
Fra i tanti sedicenti Cristi o Messia della storia, i Vangeli canonici identificano il loro con Gesù: a sua volta la traslitterazione di Ye(ho)shua, «Dio salva» o «Dio aiuta», un nome comune ebraico che secondo Matteo fu suggerito in sogno a Giuseppe da un angelo perché il figlio di Maria «avrebbe salvato il suo popolo dai suoi peccati».
Cristiano, che ovviamente significa «seguace di Cristo», nella tradizione evangelica sta dunque a indicare «seguace di Gesù», secondo un uso che gli Atti degli Apostoli fanno risalire alla comunità di Antiochia.
Col passare del tempo l'espressione è poi passata a indicare dapprima una persona qualunque, come nell'inglese christened, «nominato» o «chiamato», e poi un poveraccio, come nel nostro povero cristo. Addirittura, lo stesso termine cretino deriva da «cristiano» (attraverso il francese cretin, da chrétien), con un uso già attestato dall'Enciclopedia nel 1754: secondo il Pianigiani, «perché totali individui erano considerati come persone semplici e innocenti, ovvero perché, stupidi e insensati quali sono, sembrano quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti».
L'accostamento tra Cristianesimo e cretinismo, apparentemente irriguardoso, è in realtà corroborato dall'interpretazione autentica di Cristo stesso, che nel Discorso della Montagna iniziò l'elenco delle beatitudini con: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli», usando una formula che ricorre tipicamente anche in ebraico (anawim ruach).
In fondo, la critica al Cristianesimo potrebbe dunque ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo. Tale critica, di passaggio, spiegherebbe anche in parte la fortuna del Cristianesimo: perché, come insegna la statistica, metà della popolazione mondiale ha un'intelligenza inferiore alla media(na), ed è dunque nella disposizione di spirito adatta a questa e altre beatitudini.
Benché perfettamente soddisfacente nelle sue conclusioni, la critica etimologica sarebbe però facilmente rimuovibile da coloro che trovassero la sua argomentazione troppo debole: in fondo, in quanto Europei (dal greco eurys ops, «faccia larga») siamo anche letteralmente dei «faccioni», ma questo non ci basta per dedurre che allora abbiamo tutti un'espressione cretina e dunque come Europei non possiamo non dirci Cristiani (anche se qualcuno l'ha fatto, con argomenti non molto più articolati).
Se vogliamo arrivare in maniera convincente alle stesse conclusioni, e cioè che il Cristianesimo è indegno della razionalità e dell'intelligenza dell'uomo, dovremo allora caricarci sulle spalle la Bibbia (dal greco biblia, «libri») e percorrere la via crucis di una sua esegesi: non soltanto dei Vangeli (dal greco eu angelion, «buon messaggio» o «buona novella») , ma anche di ciò à cui essi si sono ispirati in precedenza, e che hanno a loro volta ispirato in seguito, dal Genesi al Catechismo.
Così come, se volessimo dimostrare che il Cristianesimo ha costituito non la molla o le radici del pensiero democratico e scientifico europeo, bensì il freno o le erbacce che ne hanno consistentemente soffocato lo sviluppo, dovremmo turarci il naso e ripercorrere la storia maleodorante del sangue delle vittime delle Crociate e dei fumi dei roghi dell'Inquisizione.
E per evitare che quella storia si potesse troppo facilmente dismettere come «cosa d'altri tempi», dovremmo ricordare che anche la nostra epoca ha le sue crociate e le sue inquisizioni: perché conquistare i pozzi di petrolio dei Musulmani, o fare referendum contro le biotecnologie, non è troppo diverso dal liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli, o processare l'eliocentrismo. Soprattutto quando il Dio che «lo vuole» o «è con noi» è lo stesso il cui nome, oltre a essere invocato nelle chiese, si incide sulle fibbie naziste e si stampa sui dollari statunitensi.
Non si tratta, naturalmente, di fare di ogni erba un fascio, benché la Chiesa Cattolica sia riuscita nel Novecento a fare con ogni fascio un concordato. Terremo dunque distinte le posizioni delle varie denominazioni del Cristianesimo, ma ci concentreremo naturalmente sul Cattolicesimo: non certo per le sue immaginarie pretese di costituire la varietà autentica della religiosità cristiana, bensì per le sue reali capacità di condizionare la vita politica, economica e sociale delle nazioni del Sud Europa e el Sud America (non a caso, le più arretrate dei loro conntinenti).
In fondo, è proprio perché il Cristianesimo in generale, e il Cattolicesimo in particolare, non sono (soltanto) fenomeni spirituali, e interferiscono pesantemente nello svolgimento della vita civile di intere nazioni, che i non credenti possono sempre rivendicare il diritto, e devono a volte accollarsi il dovere, di arginare le loro influenze: soprattutto quando, come oggi, l'anticlericalimo costituisce più una difesa della laicità dello Stato che un attacco alla religione della Chiesa.
In condizioni normali, una tale difesa sarebbe naturalmente compito delle istituzioni e dei rappresentanti del popolo.
Purtroppo, però, questi sono invece tempi anormali e anomali, in cui presidenti, ministri e parlamentari fanno a gara per genuflettersi di fronte a papi, cardinali e vescovi, e ricevono man forte dagli apostati non solo del Comunismo e del Socialismo, ma addirittura del Risorgimento, i cui padri avevano doverosamente separato le faccende dello Stato da quelle della Chiesa.
A testImonianza basterà ricordare, a parte i reciproci salamelecchi tra presidenti e papi, da un lato le invocazioni alla Madonna nei discorsi di insediamento di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale il 28 maggio 1992 e di Pier Ferdinando Casini a Montecitorio il 31 maggio 2001, dall'altro la presenza di Massimo D'Alema e Walter Veltroni in piazza San Pietro il 6 ottobre 2002, alla cerimonia di beatificazione di Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore della famigerata Opus Dei.
Tocca dunque ai cittadini comuni doversi far carico della difesa del laicismo (da laos, «popolo», e laikos, «popolare»), per ovviare alle deficienze dei loro rappresentanti. E, nella fattispecie, tocca a un matematico farsene carico, per ovviare questa volta alle deficienze dei filosofi. Soprattutto di quelli che a parole si dichiarano laici, ma nei fatti risultano essere più papisti del papa: un'impresa olimpica, tra l'altro, visti i papi che corrono.
E naturalmente un matematico non poteva non fare omaggio, almeno nel titolo, al più illustre dei suoi predecessori: il Bertrand Russell di Perché non sono cristiano (1957) che fece il contro canto al Perché non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce (1943).
Ovvero, ogni epoca ha non solo i suoi filosofi collaborazionisti, ma anche i suoi matematici resistenti.
L'assonanza col motto di Søren Kierkegaard non possiamo essere cristiani è invece soltanto pura omofonia: sta infatti a indicare non la supposta inadeguatezza del fedele, che gli impedirebbe di raggiungere un autentico rapporto personale con Cristo, ma la dimostranda assurdità della fede cristiana stessa, che pretende di continuare a propinare all'uomo occidentale contemporaneo stantii miti mediorientali e infantili superstizioni medioevali.
Andiamo dunque insieme alla scoperta di questi miti e di queste superstizioni, per mostrare candidamente che non tutto va per il meglio nella (sedicente) migliore delle fedi possibili. Se poi i panglossiani «credini» e «iddioti» manterranno ottimisticamente il loro Credo e il loro Iddio, saremo tutti felici: in fondo, e anche per principio, l'ateismo non è una fede, e non fa opera di sconversione. Rivendica soltanto, cristianamente, di poter dare alla Ragione ciò che è della Ragione. E non dimentica, volterrianamente, che bisogna coltivare anche il proprio giardino, e non soltanto quello dell'Eden.

New York e San Mauro, 11 febbraio - 20 settembre 2006

LAICI E LOICI

Terminata la nostra arringa di letture bibliche e ricapitolazioni storiche, è finalmente giunta l'ora di emettere un verdetto sul Cristianesimo. Che, ovviamente, è la condanna capitale già annunciata e riassunta nel titolo: e cioè che non possiamo essere Cristiani, e meno che mai Cattolici, se vogliamo allo stesso tempo essere razionali e onesti. La ragione e l'etica sono infatti incompatibili con la teoria e la pratica del Cristianesimo, come il nostro pur incompleto rosario di citazioni della prima, e di fatti della seconda, dovrebbe aver mostrato a sufficienza.
Per concludere il discorso, soffermiamoci però ancora un momento sull'assurda lista di dottrine che la Chiesa impone tuttora ai suoi fedeli di credere, affinche essi possano dirsi Cattolici.
Benché pochi l'abbiano mai vista per intero, un'esemplificazione autentica è stata fatta nel 1998 dal cardinale Ratzinger, pur «senza alcuna intenzione di esaustività o completezza»:

"I diversi dogmi cristologici e mariani; la dottrina dell'istituzione dei sacramenti da parte di Cristo e la loro efficacia quanto alla grazia; la dottrina della presenza reale e sostanziale di Cristo nell'Eucarestia e la natura sacrificale della celebrazione eucaristica; la fondazione della Chiesa per volontà di Cristo; la dottrina sul primato e sull'infallibilità del Romano Pontefice; la dottrina sull'esistenza del peccato originale; la dottrina sull'immortalità dell'anima spirituale e sulla retribuzione immediata dopo la morte; l'assenza di errore nei testi sacri ispirati; la dottrina circa la grave immoralità dell'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente."
A parte l'ultimo punto, sul quale naturalmente la pratica del Cristianesimo ha ben poco da insegnare, la lista brilla per il suo totale e assoluto anacronismo. In un mondo tecnologico e in un'era scientifica, in cui una comunità transnazionale di ricercatori seri e colti si danna l'anima per cercare risposte concrete e precise a domande sensate e profonde sull'universo, sulla vita e sull'uomo, la Chiesa non trova infatti di meglio che riproporre in maniera immutata e immutabile le sue favole mediorientali e le sue formule scolastiche, ottusamente chiuse a tutto ciò che il pensiero ha prodotto di buono tra i giubilei del 1600 e del 2000: cioè tra il rogo di Giordano Bruno e la sequenziazione del Genoma Umano.
E quanto di buono il pensiero ha prodotto, esprimendosi nel linguaggio universale e atemporale della matematica, sono i risultati della fisica, della chimica, della biologia e della medicina, che mostrano concretamente e in dettaglio come i Pitagorici e gli Stoici avessero astrattamente ragione: e cioè, come il Logos permei l'universo e si rifletta nell'uomo, nel senso che «tutto è razionale», e la razionalità umana è in grado di comprendere, almeno parzialmente, la razionalità cosmica.
Volendo riformulare la cosa in linguaggio teologico, niente impedisce di estendere il motto di Spinoza Deus, sive Natura, «Dio, cioè la Natura», arrivando a dire in maniera metaforica che l'universo è il corpo di Dio, e le leggi dell'universo i pensieri della sua mente o, appunto, il suo Logos. Ma non si può voler quadrare il cerchio, e pretendere di tracciare un impossibile legame tra questo astratto e matematico Logos e il concreto e umano Cristo, solo perché Giovanni ha annesso un inno ebraico-ellenistico che inizia con il famoso versetto: «In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio», e l'ha fatto continuare dicendo: «E il Logos si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi».
Anche perché il Logos era per i Greci ciò che per noi è la Ragione. Ad esempio, Pitagora chiamava logon un rapporto tra grandezze misurabili attraverso una stessa unità di misura, o «commensurabili», e alogon un rapporto come quello tra la diagonale e il lato del quadrato, che erano invece «incommensurabili»: puntualmente, noi usiamo gli aggettivi razionale nel primo caso, e irrazionale nel secondo. Dire dunque che «In principio era la Ragione» significa semplicemente che le leggi dell'universo sono necessarie e precedono anche la sua esistenza, così come dire che «la Ragione si è incarnata» significa soltanto che l'uomo è razionale: senza nessun riferimento a Cristo, il cui insegnamento è stato invece considerato irrazionale fin dagli inizi, a partire dallo stesso Paolo.
Paradossalmente, dunque, avrebbe più senso identificare il Logos dei Greci con lo Spirito Santo dei Cristiani, l'AlI ah dei Musulmani o il Vishnu degli lnduisti, per i loro paralleli ruoli di sostentatori dell'universo. Ma abbiamo imparato che alla Chiesa il senso fa senso, e puntualmente nel 2000 il cardinale Ratzinger, nella sua controversa Dichiarazione Dominus Iesus «Il Signore Gesù»), ammoniva: «C'è anche chi prospetta l'ipotesi di un'economia dello Spirito Santo con un carattere più universale di quella del Verbo incarnato, crocifisso e risorto. Anche questa affermazione è contraria alla fede cattolica».
Per inciso, la controversia sulla Dichiarazione derivò dal fatto che, pur manifestando a parole «la stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell'uomo e allo sviluppo della civiltà», essa sosteneva nei fatti fin dal titolo «l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa». Ovvero il Vaticano rivendicava ancora una volta un duplice monopolio della verità: anzitutto, del Cristianesimo sulle altre religioni, e poi, del Cattolicesimo sulle altre sette cristiane.
Poiché però, naturalmente, le altre religioni e le altre sette non solo non accettano questo monopoli, ma spesso lo rivendicano invece per sé, è chiaro che su questa strada non si va lontano nel dialogo fra le fedi e nel cammino verso la pace religiosa. Anzi, ci si pone su una rotta di collisione che prima o poi avviene, com'è infatti avvenuto il 12 settembre 2006 a seguito dell'avventato discorso a Ratisbona dello stesso Ratzinger, ormai Benedetto XVI, che è riuscito a far infuriare i Maomettani del mondo intero con quest'improvvida citazione dell'imperatore bizantino Manuele iI Paleologo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane ».

La levata di scudi musulmani e di scimitarre islamiche, che ha evangelicamente ricordato al papa di badare piuttosto alla trave nell'occhio della sua religione, e lo ha inauditamente costretto a pubbliche e ripetute scuse, ha attirato più attenzione del fatto che quello stesso discorso fosse in realtà indirizzato agli scienziati e dedicato al rapporto tra fede e ragione, a partire dall'osservazione dello stesso imperatore bizantino che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».
Nel suo discorso il papa riconosceva che la pretesa del cattolicesimo di collegare il Logos greco al Cristo palestinese non è condivisa dagli altri Cristiani. Non dai Protestanti, per i quali attraverso questo legame «la fede non appare più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico». E neppure dai teologi liberali dell'Ottocento e del Novecento, che predicano un «ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazione».
E meno che mai dagli scienziati, il cui «metodo come tale esclude il problema di Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o prescientifico». Ma, dice il papa, «se la scienza è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del da dove e del verso dove, gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla 'scienza' intesa in questo modo e devono. essere spostati nel soggettivo».
Ma questa, lungi dall'essere una riduzione all'assurdo del metodo scientifico, lo è del metodo religioso, perché è precisamente nel soggettivo che le religioni riportano le risposte agli interrogativi sul «da dove» e sul «verso dove», pur pretendendo ciascuna di elevare il proprio personale soggettivo a un impersonale oggettivo! Gli equilibrismi verbali del papa non possono dunque nascondere le realtà dei fatti, che sono: primo, che di religioni son pieni lo spazio e il tempo, cioè il mondo e la storia; e, secondo, che tutte pretndono di avere il monopolio della verità per sé, a scapito delle altre.
Dunque, finché ci saranno religioni ci saranno guerre di religione, Come ci sono sempre state e ci sono. Mentre invece non ci sono guerre di scienza, né ci sono mai state, perché la scienza è una sola: magari non santa, ma certo katholika, nel senso leterale di «universale». Ed è solo alle sue affermazioni, non certo ai dogmi cattolici, che si può sensatamente applicare il motto quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditur: cioè di essere e dover essere credute «sempre, dovunque e da tutti».
Diversamente dalle religioni, la scienza non ha dunque bisogno di rivendicare nessun monopolio della verità: semplicenente, ce l'ha. E allora, accettiamo una buona volta di dare a Pitagora ciò che è di Pitagora, cioè l'unica oggettività scientifica, e a Cristo ciò che è di Cristo, cioè una delle tante soggettività religiose, evitando comunque di mescolare sacro e profano: cioè le profondità logiche con le superficialità teologiche.
E se proprio vogliamo pregare, diciamo pure: «Padre Nostro che sei nei cieli, sia fatta la tua volontà», come ci ha insegnato il profeta Gesù, ma ricordiamo che Dio Padre non è altro che Padre Cielo. Tanto vale, allora, lasciar cadere le metafore e pregare come ci ha insegnato invece lo stoico Marco Aurelio: Tutto ciò che è in armonia con te, o Universo, lo è pure con me.

Benedicat vos omnipotens Logos: Pater Pythagoras,
Filius Archimedes, et Spiritus Sanctus Newtonius.

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