Zygmunt Bauman: il teorico della società liquida

Intervista di Luciano Minerva - RaiNews24 - 2003, Mantova

Siamo nel centro di Mantova, una città che nel Rinascimento è stata costruita guardando a quell'ideale di perfezione che lei ricorda più volte nei suoi libri. Che impressione le fa stare una città con queste forme che ancora ci parlano?

Non ho avuto modo di esplorare Mantova nei particolari, ma la mia impressione è di vedere un documento vivo, molto potente dell'ideale dialettico di perfezione. L'ideale di perfezione è sempre davanti, di pollici o di miglia, di centimetri o chilometri. Avere davanti a noi questa prospettiva è una benedizione, è il sogno di una possibilità di riconciliare le contraddizioni, di avere una perfetta coesione, una perfetta coerenza, una totalità, una condizione in cui, diceva Leon Battista Alberti, ogni ulteriore cambiamento non può che andare verso il peggio. Si raggiunge una sorta di beata tranquillità. D'altra parte la vista di questa città mostra anche quanto è relativo, provvisorio ogni ideale di perfezione, perché è sempre in avanti, perché non puoi mai afferrarlo, è un concetto superato. Mantova è una raccolta di diverse idee di perfezione, in tempi diversi.
Quando si realizza un'opera, è subito osservata criticamente e sostituita da qualcos'altro che guarda al di là dello stato raggiunto. Così c'è una contraddizione interna nell'idea di perfezione, è quella che Sigmund Freud chiamava "l'azione di Thanathos", l'istinto di morte. Vuoi finire il movimento, vuoi arrivare al punto finale, e questa sarebbe la fine della storia. D’altra parte, avere questa idea è un fattore illuminante che porta a muoverti perché sei costantemente alla ricerca. Questa è la dialettica della nostra civiltà occidentale: avere un'idea in contraddizione con il progresso, sperimentare l'abilità di cambiare, di criticare, per porre fine al cambiamento e alla critica. Usare la libertà per rendere la libertà superflua è l'aspetto mortale della nostra civiltà, mentre l'aspetto vitale, la sua forza, è che questo obiettivo per fortuna non si può mai raggiungere.

Nei suoi libri si trovano molti riferimenti alla letteratura e alle arti figurative. Come ci aiutano le opere degli artisti, degli scrittori a capire un mondo che cambia così rapidamente?

La mia professione di sociologo è una continua conversazione con le esperienze umane, è un dialogo che crea risposte: noi suggeriamo varie interpretazioni, visioni più ampie che riguardano altri aspetti non visibili dalla semplice prospettiva dell'esperienza individuale, e diamo una risposta. La nostra conversazione secondo me avviene con il senso comune: gli uomini e le donne che vivono in questo tipo di società hanno bisogno di trovare se stessi, di trovare il senso della propria esperienza in quello che noi diciamo. Altrimenti è uno sforzo inutile, i sociologi che parlano con i sociologi perdono tempo. Se la sociologia si prende così, si capisce che noi sociologi professionisti non siamo sfortunatamente grandi poeti, grandi scrittori, non abbiamo il monopolio dell'accesso all'esperienza umana. Gli scrittori si prefiggono gli stessi nostri scopi. Hanno perfino alcuni vantaggi sui sociologi, perché non sono chiusi nelle restrizioni accademiche, non devono attenersi alle regole, sono liberi di sperimentare questi significati, di cui qualcuno può essere sbagliato, qualcuno può essere vero, ma è come essere ostaggi della fede. Alcune idee sono completamente dimenticate, abortiscono, non colgono nel segno, altre dimostrano di avere una lunga durata e questo vale ad esempio per Calvino. Gli sviluppi di quella che io chiamo la "modernità liquida" rendono le sue osservazioni sempre più rilevanti; prendiamo ad esempio la sua immagine del barone rampante che non toccava mai terra e poteva raggiungere così la tranquillità. Questa è l'anticipazione dell'elite contemporanea globale. È esattamente quello che sta accadendo ora. Con immagini molto potenti e semplici si possono cogliere quel qualcosa, quel processo che un normale artigiano della sociologia può riuscire ad esprimere solo in parecchi volumi. Io penso che un buon consiglio per chi è impegnato in conversazioni sull'esperienza umana sia quello di essere aperti, disponibili a questi sguardi, alle interpretazioni sperimentali. Prenda ad esempio le descrizioni di Italo Calvino delle città invisibili: Aglaura è una città delle due esistenze. Una è quella che sta sulla terra, l'altra è nella testa della gente: due realtà differenti che si scontrano ma nello stesso tempo si influenzano.
È uno sguardo molto acuto, che dà un'idea del modo in cui la nostra esperienza si espande nella rete mondiale di Internet, della televisione, dell'informazione da un lato e dall’altro nella realtà quotidiana, che non assomiglia molto a ciò che è lì. O prendiamo la città di Leonia, dove il benessere non viene misurato dalla produzione di beni che si consumano, come essi credono, ma dal volume dello spreco, da ciò di cui si disfano, da ciò che lasciano senza nostalgia, senza rimpianto, quanto più sono ricchi e potenti. È di nuovo uno sguardo sul rovescio della civiltà, in cui in ogni fabbrica ci sono alcuni camion che portano i prodotti ai centri commerciali, e altri che vanno alla discarica. Noi di solito notiamo i primi, non i secondi. Scriviamo le nostre storie sul primo genere di camion, ma dimentichiamo i secondi. Tutte queste sono scoperte molto potenti, sono colpi di genio e per questo sono molto grato al lavoro fatto dai grandi scrittori.

La cultura, lei scrive, ha perso il suo ruolo critico e il "pensiero unico" neoliberale spinge molti ad accettare la realtà come immodificabile. Cosa ha permesso la diffusione del pensiero unico e perché non c'è stata una opposizione?

Per questo tipo di pensiero io uso la metafora di una profezia: questa casa brucierà. Allora prendi taniche di benzina, la versi sulla casa, le dai fuoco e la casa brucia davvero. Così lavora "la pensée unique". Da un lato si dice che il principio di base del pensiero unico è che non ci sono alternative: TINA, There Is No Alternative. Poi tutti gli strumenti, tutte le possibilità di creare un mondo davvero alternativo o di fare qualcosa per cambiare, tutte le regole del gioco, vengono distrutte. Così non c'è modo di cambiare e questa diventa una profezia che si autodetermina. La casa brucia, ma la sto bruciando io.
Cosa dice il pensiero unico? Che questo è il solo mondo possibile. Finchè c'è libera concorrenza, finchè c'è efficienza, redditività, e il valore economico è l'unica discriminante tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, finchè quando è così si distrugge la civiltà come noi la conosciamo, si distruggono le stesse condizioni della vita umana e poi, dato che uomini e donne, individui e gruppi, e così via, sono sottomessi senza eccezione a queste leggi di mercato spietate, intolleranti, per cui ciò che non ha senso economico va eliminato, si creano le condizioni che Pierre Bourdieau chiama "precarietà" e perfino le politiche della precarizzazione rendono più precario, incerto, vacillante, liquido. E quando le persone vivono in un mondo così liquido, non osano fare progetti a lungo termine, perdono la fiducia in se stessi. La civiltà moderna era basata sulla fiducia, prima di tutto nelle proprie capacità: "Posso fare questo. Se imparo a farlo, posso farlo". In secondo luogo c'era la fiducia negli altri, come esseri umani razionali: "Posso ragionare con loro, posso convincerli e loro faranno esattamente quello che si dovrebbe fare". E il terzo tipo di fiducia era quella nella stabilità delle istituzioni. Ciò che si considera valido oggi, lo sarà anche domani e dopodomani. Il confine tra comportamento corretto e non corretto resterà tale anche la prossima volta. Qualsiasi cosa rappresenti, un’abilità utile, creativa, che acquisisco oggi, rimarrà utile e creativa anche domani e dopodomani. Tutti questi tre tipi di fiducia sono scomparsi. E se perdi questa fiducia, credi semplicemente di non avere alcun controllo sul futuro e questa è un'idea paralizzante. Le persone che restano paralizzate, e che perciò vivono a breve termine e non capiscono cosa significa avere un impegno e dei progetti a lungo termine, non sono in grado di resistere al pensiero unico. E così il pensiero unico distrugge tutte le alternative a se stesso.



In questa situazione così liquida, in questo mondo così cambiato, che cosa si considera ingiusto? Lei dice che l'ingiustizia è una cosa sempre più visibile, e che fin qui questa coscienza ha portato alle grandi ribellioni, alle grandi rivoluzioni. Oggi che cosa non è accettabile come "ingiusto" sul piano universale?


Quello che si dice attualmente è che il sentimento dell'ingiustizia è primario e la definizione di giustizia secondaria. Ne consegue che noi abbiamo l'esperienza di qualcosa che è ingiusto. Una delle caratteristiche della modernità liquida è questa: ogni aspetto della vita umana che i nostri genitori e i nostri antenati consideravano naturale, un verdetto della natura, un verdetto di Dio, e che era stabilito una volte per tutte, viene rimodellato come una costruzione artificiale che può essere cambiata. E per questo è ingiusta e dovrebbe essere sostituita da qualcos'altro. Il rapporto tra i sessi è un esempio davvero lampante: la subordinazione delle donne agli uomini era considerata un verdetto di Dio, si considerava parte della natura umana, dei geni, non si poteva cambiare. Adesso c'è una ridefinizione dei ruoli, si considera ingiusto che le donne siano pagate meno degli uomini, che le mogli si occupino dagli affari domestici e i mariti del ruolo pubblico. È un esempio ma vale per tutto e porta a un senso di instabilità. Questo anche perché c'è la percezione di un livello crescente di violenza nella nostra società, perché il comportamento di routine è stato sostituito da quelle che io chiamerei le "battaglie di ricognizione". Le parti in conflitto cercano di capire quanto possono spingere indietro l'altro, quanto possono spostare il proprio confine, il proprio ruolo. Questo rende tutte le relazioni plastiche, le rende adatte per il tempo presente, e così mette in crisi i legami, le relazioni. C'è una contraddizione interna: da un lato ne hai bisogno perché in un mondo liquido hai bisogno di un sostegno, di amici su cui contare; ma dall'altra parte hai paura che, una volta fissati questi confini, una relazione, un'amicizia ti possa ingabbiare, e tu vuoi essere sempre libero di cercare soluzioni migliori e vuoi restare sempre nella fluidità. Per dirla in modo grezzo e semplificato, se ogni aspetto della condizione umana è da agguantare, da rinegoziare, se nulla si considera acquisito una volta per tutte, l’esperienza dell’ingiustizia da rimodellare, la percezione del comportamento, della routine familiare come ingiusto, sbagliato, diventa un'importante forza dinamica della vita contemporanea, ed è quello che facciamo sempre. È un processo senza fine, ciò che oggi sembra stabile e non mutevole domani sarà probabilmente molto molto diverso. Questo ha anche un impatto sullo stile della politica.
Il filosofo americano Richard Rorty distingue la politica dei movimenti dalla politica per campagne. La politica dei movimenti segue l'ideale di società perfetta di Leon Battista Alberti. Sulla strada di questa società perfetta si sono commesse molte ingiustizie e crudeltà, perché si giustificavano con lo scopo di raggiungere questa perfezione. Se qualcosa ti porta un po' più vicino allo stato finale perfetto, tutto può essere giustificato, si può far soffrire molta gente: come si dice oggi, ci sono molti effetti collaterali sulla strada.
Diversa è la politica per campagne. Richard Rorty ci consiglia di combattere ogni singola ingiustizia che incontriamo: per esempio che gli emigranti messicani in California non abbiano diritti sindacali e lavorino in condizioni di schiavitù nelle piantagioni di arance, come lottare per i loro diritti, o come salvare le foreste svizzere dall'inquinamento impedendo alle auto il transito per le montagne, come sia possibile ottenere il riconoscimento legale delle unioni gay, e così via. Consideriamo queste azioni una ad una, senza necessariamente pensare se questo porta o no a una società perfetta. Non vogliamo costruire un mondo perfetto, ma dobbiamo renderlo meno insopportabile e crudele di come è oggi.

Prima di diventare sociologo lei studiò fisica. Oggi usa metafore tratte dalla fisica per descrivere la società, come accade in modernità liquida. Oggi come può essere letta la rete, sia quella del potere che del contropotere?

Ho usato la metafora della liquidità per una caratteristica di base dei liquidi fluidi: non possono mantenere una forma da soli, hanno una coesione interna, un'integrazione, un'attrazione davvero minima. Così finchè non li metti in contenitori, in forme esterne, non conservano la stessa forma per molto tempo. E questa è esattamente la caratteristica della nostra vita. Non puoi affidarti a qualcosa che conservi la propria forma finchè non le metti qualcosa intorno. Ricordavo prima la contraddizione interna nell'idea delle relazioni umane, e questo si collega agli attuali problemi della rete. Noi parliamo sempre meno di quella che era la miglior metafora per pensare alla società quando ero giovane: la struttura. La struttura suggerisce qualcosa di solido, di rigido, qualcosa che limita. Devi combattere con forza per romperla, per uscirne. La struttura ti rende immobile, è un'immagine rigida in cui resti chiuso. La rete è qualcosa di diverso. La rete è la combinazione di due processi, la connessione e la disconnessione: è questa la differenza tra rete e struttura. Nella struttura entri e ci resti e così finisce la storia. Nella rete hai una facilità relativa a collegarti a luoghi distanti, ad altri punti della rete, ma allo stesso tempo, ed è la cosa più importante, hai la facilità di disconnetterti, puoi spegnere. Molte informazioni interessanti provengono da ricerche sul metodo dei giovani di attivare relazioni. Gli appuntamenti via Internet sono oggi la forma predominante per entrare in relazione con persone del proprio sesso o dell’altro. Una volta, non molto tempo fa, c'erano i bar per persone sole, dove si andava per conoscere, per parlare con gli altri, per stabilire relazioni. Oggi preferiscono le forme di Internet. Perché? Questa era la domanda che sarebbe necessario porsi.
L’altra cosa da rilevare è la facilità di digitare "cancella". Questa è la rete. Il vantaggio della rete è la facilità di tirarsi indietro: se trovi che è sconveniente, se sei annoiato, se pensi che l'erba del vicino è più verde della tua, se pensi che lì ci siano più opportunità, che non potresti cogliere perché sei stanco e perché sei legato alla scelta precedente. Questo è il vantaggio della rete. Due grandi amici, sociologi acuti e originali, Boltanski e Chiapello, hanno scritto uno studio davvero importante sul nuovo spirito del capitalismo. Hanno scoperto che nei colloqui per le assunzioni quello che i dirigenti valutano è la "connettibilità", il disporre di una rete. Questo non è il simbolo di una struttura, non è la riduzione, la costrizione delle scelte, ma al contrario l'ampiezza delle scelte. Tutto è incompleto, tutto può essere superato da altro, tutto esiste finchè non cambi idea.

Non si trova spesso nei suoi scritti la parola "armonia" che era nelle prime utopie. Non le piace particolarmente?

Sono un po' sospettoso e preoccupato sul concetto di armonia, sul consenso universale, per esempio Juergen Habermas parlava di comunicazione non falsata perché gli piaceva e perché secondo lui portava al consenso universale. Non credo a questo ideale, non credo che la gente sia felice di questa unanimità, penso che la cosa più eccitante, creativa e fiduciosa nell'azione umana sia precisamente il disaccordo, lo scontro tra diverse opinioni, tra diverse visioni del giusto, dell'ingiusto, e così via. Nell'idea dell'armonia e del consenso universale, c’è un odore davvero spiacevole di tendenze totalitarie, rendere tutti uniformi, rendere tutti uguali. Alla fine questa è un'idea mortale, perché se davvero ci fosse armonia e consenso, che bisogno ci sarebbe di tante persone sulla terra? Ne basterebbe una: lui o lei avrebbe tutta la saggezza, tutto ciò che è necessario, il bello, il buono, il saggio, la verità. Penso che si debba essere sia realisti che morali. Probabilmente dobbiamo riconsiderare come incurabile la diversità del modo di essere umani, si può essere davvero persone in tanti tanti modi e questa è una benedizione.

Zygmunt Bauman: sulla globalizzazione

Intervista di Lukasz Galeck - Rzeczpospolita, 31/10/2007
Traduzione di Manuel Antonini

Come possiamo definire i confini della globalizzazione?

La globalizzazione non è un processo che ha luogo da qualche parte lontana, in qualche spazio esotico. La globalizzazione sta avvenendo a Leeds così come a Varsavia, a New York e in ogni piccola città in Polonia. È proprio fuori dalle nostre finestre, ma anche dentro. È sufficiente camminare per le strade per vederla. Gli spazi globali e locali possono essere separati solo con un'astrazione, nella realtà essi sono interconnessi.

Il vero problema è che la globalizzazione che stiamo oggi affrontando è principalmente negativa. È basata sulla rottura delle barriere, per permettere la globalizzazione dei capitali, il trasferimento dei beni, dell'informazione, del crimine e del terrorismo, ma non delle istituzioni politiche e giuridiche, le cui basi risiedono sulla sovranità nazionale. Questo aspetto negativo della globalizzazione non è stato accompagnato da altrettanti aspetti positivi e gli strumenti per la regolazione dei processi eco­nomici e sociali non sono stati sufficientemente consolidati per affrontare le conseguenze della globalizzazione.

Esiste qualche precedente storico di questa situazione?

Due secoli fa, i nostri antenati erano spaventati dal caos che non riuscivano a controllare attraverso i deboli poteri delle comunità locali - villaggio, parrocchia e piccolo paese. In quei giorni, i grandi spazi di azione che si stavano costruendo dovevano sembrare preoccupanti e creare angoscia come le forze della globalizzazione stanno facendo oggi con gli stati nazione. Tuttavia i nostri antenati riuscirono a costruire gli strumenti della rappresentanza politica e i mezzi legislativi e giuridici per controllare il caos, per coordinare le regole e le procedure al fine di contenere questo caos e renderlo relativamente trasparente e più o meno prevedibile.

I pionieri del mondo moderno speravano che le società, governate dalla ragione e sostenute dai suoi mezzi tecnici, sarebbero divenute più prevedibili e controllabili rispetto ad un mondo soggetto meramente ai capricci dei disastri naturali. Questo sogno divenne presto un'illusione e oggi, in un mondo postmoderno, abbiamo di fronte la situazione che già una volta nel XIX secolo in Inghilterra si è dovuto affrontare, quando le comunità locali persero il controllo sulle forze dello sviluppo economico sebbene fossero le uniche ad avere i mezzi, seppur pochi, per governarle. Il mondo che piano piano andava industrializzandosi, estromettendo il controllo locale, si ritrovò in una terra di nessuno simile allo spazio globale di oggi, dove il successo è determinato dal potere, dall'astuzia e dalla mancanza di scrupoli e dove le forze che tentano di governare questi sviluppi sono chiaramente insufficienti.

Quanto tempo occorse prima che queste forze furono controllate?


Ci volle l'intero XIX secolo e una buona parte del XX, prima che lo stato moderno potesse gestire questa nuova realtà. Lo stato moderno dovette stabilire le leggi e le regole per affrontare questioni che le autorità precedenti non avevano mai affrontato, come ad esempio il lavoro minorile, l'abolizione della tratta degli schiavi, la regolamentazione del lavoro settimanale, la fornitura di acqua potabile, di un'igiene adeguata e di una assistenza sanitaria di base. Tutto questo, in generale, fu necessario per riparare al danno creato dalle forze del caos.

Fu necessario un secolo per far sì che gli aspetti negativi di questa prima globalizzazione fossero bilanciati da quelli positivi, almeno all'interno di una singola nazione. Nel mondo di oggi, le possibilità per un'azione collettiva sono molto indietro rispetto a ciò che è necessario; tuttavia, quasi tutti concordano che almeno qualcosa deve essere fatto. La globalizzazione è andata avanti per tanto tempo, ma gli eventi più recenti, in un modo spettacolare e scioccante, ci hanno reso più consapevoli verso cose che, in precedenza, erano latenti e facilmente manipolate..

I mezzi a nostra disposizione per proteggere lo stato di diritto e difendere i cittadini sono chiaramente insufficienti per controllare queste forze globali, i quali sono essenzialmente extra-territoriali. Gli eventi dell'11 settembre 2001 e gli attacchi di Madrid (2004) e Londra (2005) hanno reso chiaro che gli strumenti tradizionali per mantenere la sicurezza e il rispetto della legge e dell'ordine hanno poco valore. Ciò ha sorpreso tutti noi.

Lei non crede, alla luce degli eventi in Iraq, che nel tentativo di curare un paziente con una leggera influenza, noi abbiamo invece deciso di eseguire un'operazione - esportando il fegato, un rene e metà cervello?

Sì. Tuttavia, dobbiamo considerare perché ciò è successo. Gli accidenti prodotti dagli individui nel corso della globalizzazione succedono ancora come fossero catastrofi naturali. Con ciò voglio dire che nessuno sa quando e da quale parte arriveranno. Come se noi stessimo camminando attraverso un campo minato. Si sa che un'esplosione ci sarà, tuttavia nessuno sa quando e dove. C'è una forte tentazione: credere che basti solamente bombardare il campo minato, distruggere le sue mine prima che esplodano. E questo stuzzica particolarmente se possiedi una quantità illimitata di bombe e difficilmente hai altri mezzi per risolvere il problema.

Questo è molto diverso dall'idea del mondo futuro immaginata all'inizio dell'età moderna. I filosofi illuministi sognavano un mondo ordinato e obbediente alla volontà umana: mite e ospitale. E gli uomini non sarebbero stati costretti ad affidarsi alla saggezza della creazione divina, ma sarebbero stati capaci loro stessi di realizzare questi sogni.

Questi pensatori avevano appena sperimentato lo shock del terremoto di Lisbona (1755), l'incendio e lo tsunami conseguenti, i quali arrivarono così inaspettati e inflissero una tale devastazione sia ai giusti che agli ingiusti. Jean-Jacques Rousseau condannò la civilizzazione per questa catastrofe naturale. Disse che se le persone avessero vissuto in armonia con la natura, non avessero sovraffollato le città, non avessero innalzato alti edifici e avessero provato a salvare se stessi piuttosto che i loro averi personali dal fuoco e dall'inondazione, allora non ci sarebbero state così tante vittime.

Voltaire, al contrario, trascurò lo stato di natura: lui aveva più fede nelle intenzioni e nelle azioni delle persone. Se la gente avesse agito in maniera abbastanza razionale, avrebbe creato una società civilizzata nella quale le persone si sarebbero sentite sicure. Entrambi i pensatori, sebbene su molti punti in costante contrasto, avevano fiducia negli uomini. In questo senso, entrambi hanno sbagliato i loro calcoli.

Quindi, l'inizio della modernità è la paura dello sconosciuto?

Il vero progetto della modernità è nato dal desiderio di un mondo senza sorpre­se, un mondo sicuro, un mondo senza paura. Il coronamento di questi due secoli di sforzi e il risultato del progetto-sogno-ambizione, fu lo stato sociale - che è sempre stato chiamato erroneamente “welfare state”. L'intero progetto non riguardava tanto il benessere quanto una società responsabile di ogni cittadino, capace di offrirgli una vita libera dalla paura e piena di significato e dignità.

Questo era il concetto di assicurazione collettiva contro le conseguenze delle avversità individuali. Se un individuo sperimentava un accidente, la società sarebbe stata lì per aiutarlo e la ridistribuzione delle risorse era un mezzo, non un fine. L'intero progetto era fondato sull'idea che solo i cittadini che si sarebbero sentiti sicuri avrebbero potuto camminare con le proprie gambe. William Beveridge, che formulò la versione britannica dello stato sociale, era un liberale e non un socialista e considerava il concetto di stato sociale come la realizzazione dell'idea liberale.

Ciò significa che lo stato sociale, dopo così tanti decenni, è riuscita a raggiungere l'obiettivo liberale dell'autodeterminazione?

Questo era quello che avrebbe voluto essere. Non c'è autodeterminazione individuale senza la solidarietà sociale. La libertà non basta, a meno che ci sia la garanzia che ognuno ha i mezzi e le uguali opportunità per utilizzarli. Se un individuo deve camminare su un filo sospeso, deve esserci una rete di sicurezza per afferrarlo quando cade.

La globalizzazione negativa ha reso quasi impossibile trovare un ragionevole equilibrio tra le responsabilità umane all'interno del contesto dello stato nazione. Essa infligge un duro colpo a questo concetto di coesistenza umana. Se si guarda in giro nel mondo - forse con la sola eccezione degli stati scandinavi - il concetto di stato sociale è in ritirata, ci diciamo che non possiamo permettercelo. Invece di rafforzare la responsabilità dello stato nel proteggere le persone contro l'insicurezza e la paura che ne nasce, i governi si stanno appellando ad una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e in tutte le altre aree di vita regolate dalle forze di mercato.

Ciò significa ancora più insicurezza. Quanto stanno facendo non riduce il rischio, al contrario lo accresce.

Una conseguenza della ritirata della responsabilità statale è la crisi della legittimità dell'autorità dello stato. Questa richiedeva obbedienza, disciplina e rispetto per la legge e prometteva ai cittadini sicurezza e una vita dignitosa. Ma queste promesse - che includevano educazione gratuita, l'assistenza sanitaria, la previdenza e la protezione sociale - sono state abbandonate, una ad una.

Lo stato ha le mani legate: ha consegnato se stesso nelle mani delle forze del mercato. Se osa opporsi alle forze del mercato, allora il capitale si volatilizza da un altra parte dove può più facilmente e comodamente prosperare. Così una nazione affronterà la piaga della disoccupazione e della povertà. Il capitale può essere mosso con un semplice bottone. La domanda è: cosa può sostituire i precedenti, tradizionali fondamenti della legittimità dello stato? Quale può essere la fonte della fiducia dei cittadini?

È triste, ma la più terribile conseguenza di questa globalizzazione negativa (per esempio l'11 settembre) ha aiutato le autorità statali a trovare un nuovo fondamento per la loro propria legit­timità.

Lo stato nazione sta combattendo una battaglia persa contro la globalizzazione?

In questa battaglia due processi stanno prendendo piede simultaneamente. Da una parte, noi stiamo provando a controllare questo nuovo elemento chiamato globalizzazione, i cui poteri sono al di là di quanto ogni stato può controllare; gli strumenti che abbiamo a nostra disposizione sono troppo deboli per resistere alle forze che li contrastano. Dall'altra, c'è una disperata ricerca per un surrogato politico, una surrogata legittimità, che potrebbero essere usati a dispetto del fatto che i poteri dello stato si siano ridotti.

Questa ricerca è diretta verso il ritrovamento di una sfera nella quale lo stato può dimostrare ai propri cittadini che è capace di fare qualcosa.

Sempre più spesso possiamo vedere sui nostri schermi scene molto spettacolari come un invasione di forze speciali, carri armati che presiedono un aeroporto, polizia che isola stazioni ferroviarie e metropolitane. Questa è la lezione che lo stato sta cercando di insegnarci: siamo al livello più alto di allerta - le cose forse vanno male, ma andrebbero peggio se non facessimo il nostro lavoro.

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