Dibattito sul femminismo

da Liberazione

Il femminismo è ancora in silenzio

I movimenti "rivoluzionari", quando sembrano essersi eclissati dalla scena storica o spariti del tutto, si lasciano generalmente dietro un alone di mistero, un residuo fantasmatico che può risultare persino più inquietante della loro presenza. Il femminismo, inspiegabilmente silenzioso su questioni che lo interpellano direttamente, come la legge sulla fecondazione assistita, l'aumento della violenza sulle donne nel mondo, la mercificazione dei corpi, della sessualità e delle storie personali,
continua a essere evocato da voci diverse e contrastanti della cultura maschile: chi lo rimpiange, chi lo vede dissolto in un generale processo di "femminilizzazione" della società, chi lo sospetta insidiosamente presente nel "disordine" sessuale che minaccia la famiglia. Nessuno sembra davvero interessato a sapere che cosa si agita dentro la fitta rete dell'associazionismo femminile, nella produzione di studi, convegni, iniziative politiche che oggi vedono impegnate molte più donne che negli anni '70, sia pure con uno strano effetto carsico dovuto alla grande diversificazione e in molti casi a una dichiarata autoreferenzialità.

Tenendo conto di questa ambigua presenza/assenza, la domanda potrebbe essere allora formulata in un altro modo, più consono alla anomalia di un movimento che ha inteso portare la sua sfida politica fin dentro i territori oscuri della "persona", della memoria del corpo e delle formazioni inconsce: il femminismo è ancora una pratica di modificazione di sé e del mondo?

Anche in passato il movimento delle donne ha avuto anime diverse, ma erano, per così dire, passionalmente in contrasto, spinte a incontrarsi dal bisogno di trovare un "punto di vista", un'angolatura da cui analizzare il rapporto tra i sessi, e produrre effettivi cambiamenti al riguardo.

Rileggendo il libro appena ristampato, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni '60 agli anni '80 (a cura di Annarita Calabrò e Laura Grasso, edito dalla Fondazione Badaracco e da Franco Angeli), appare chiaro che la differenziazione ricalcava allora i poli opposti e complementari di una dialettica nota: sfera personale e sfera sociale, sessualità e politica, psicanalisi e marxismo.

A tenere insieme le donne in convegni nazionali affollatissimi si può pensare che fosse il bisogno di interezza: non si poteva dividere il corpo dal pensiero, il privato dal pubblico, l'amore dal lavoro, la famiglia dallo Stato, il conflitto tra i sessi dal conflitto di classe, e così via. Ci si muoveva, in altre parole, dentro una complementarietà rivisitata criticamente, che rendeva necessarie le une alle altre. C'era un corpo a corpo fatto di frequentazioni quotidiane, di scontri violentissimi, di prese di posizione diversificate, di avvicinamenti e allontanamenti. Tutto fuorché l'indifferenza. La possibilità di contrastarsi, non era solo tollerata, ma ritenuta indispensabile per intaccare ragioni inconsapevoli di consenso, adattamento a modelli imposti e interiorizzati come propri.

Oggi le differenze, all'interno del femminismo, si sono moltiplicate ma stanno sullo stesso piano di realtà, hanno un denominatore comune che è la vita pubblica, i suoi saperi, i suoi linguaggi, le sue professioni, le sue gerarchie. Ad omologarle è una cultura che ha integrato nuovi contenuti ma che conserva in parte il suo impianto tradizionale, le sue cancellazioni, le sue cesure, rispetto alla soggettività incarnata. Si ha l'impressione che, pur mantenendo ferma la presunta neutralità del loro pensiero, gli uomini siano andati molto più avanti nell'analisi del rapporto natura-storia, individuo-collettività. I diversi "femminismi" oggi non confliggono tra loro, né sentono il bisogno di confrontarsi, perché riproducono nel loro insieme quel mosaico o quella babele che è la società attuale, con le sue molteplici funzioni. Ci sono gruppi, centri, associazioni della più varia specie - la Società delle storiche, delle letterate, delle giuriste, delle scienziate, ecc. - che lavorano bene in ambiti specifici, ma mostrano tutta la loro debolezza quando sono costrette a incontrarsi intorno a un fenomeno che le implica tutte, come ad esempio la legge sulla fecondazione assistita.

La mia impressione è che, nonostante si continui a scrivere, parlare e incontrarsi, ci sia comunque un grande silenzio: per tutto ciò che delle vite, dei rapporti con l'uomo e con le altre donne, non si riesce più a nominare, per paura di ulteriori divisioni, o per paura di perdere anche le persone più vicine. Per un movimento che è partito dalle problematiche del corpo e della sessualità, non riuscire a parlare dell'invecchiamento, della malattia, della morte, dei problemi legati alla cura (di un figlio, un marito, un genitore anziano), del rapporto con le donne straniere che vivono nelle nostre case, è senza dubbio una resa, una sconfitta. Lo stesso si può dire della difficoltà a esprimersi su un fenomeno drammatico e vistoso come la riduzione delle persone a nuda corporeità (i corpi devastati dalla fame, dalla guerra, dalle malattie, dalle migrazioni), a pornografia, a sommatoria di organi.

Il fatto che ci siano tanti temi, tante problematiche di ordine privato e pubblico all'attenzione del femminismo oggi, non significa maggiori capacità modificative di se stesse e dell'esistente. Invece di uno slogan ormai svuotato di contenuti, come il "partire da sé", dovremmo forse provare a chiederci se e quali cambiamenti produce la relazione con le altre donne (divenuta più solida, più continuativa, direi quasi "istituzionalizzata"), se ci sono ancora interrogativi, desideri di conoscenza e di cambiamento legati alle nostre vite, che lì, nella riflessione collettiva, possono trovare risposte, se il separatismo è diventato solo una rassicurazione - di appartenenza, identità, storia comune - o se è ancora il luogo di modificazioni effettive, riguardo al modo di pensarsi, sentirsi e agire nel mondo.

Una delle novità più interessanti dei Seminari sull'eredità del femminismo, che si sono tenuti in questi ultimi anni tra Milano e Roma, è stata la presenza attiva di generazioni diverse, che ha permesso di confrontare esperienze, ma anche di capire che cosa è passato di quell'intreccio originale di teoria e pratica che ha caratterizzato il movimento delle donne ai suoi inizi. Un tema ricorrente, proposto dalle più giovani è stato il rapporto tra femminismo e femminile. Il riferimento era in particolare ai modelli di femminilità che compaiono nella pubblicità, nei media, nei consumi, ma lo si potrebbe estendere a quella parte di esperienza personale che, per la generazione degli anni '70, è tornata ad essere un "privato" indicibile e che, per le più giovani, non è mai stata al centro di una pratica politica.

Lea Melandri, 12 gennaio 2005




Il femminismo e le Lecciso, per esempio

Dove è finito il femminismo? Se lo domanda su questo giornale Lea Melandri. Aggiunge subito dopo: "Per un movimento che è partito dalle problematiche del corpo e della sessualità, non riuscire a parlare dell'invecchiamento, della malattia della morte, dei problemi legati alla cura (di un figlio, un marito, un genitore anziano), del rapporto con le donne straniere che vivono nelle nostre case, è senza dubbio una resa, una sconfitta".

Vero che questo movimento ha ragionato intorno alla sessualità. Non mi pare tuttavia che si sia fermato a coltivare quella scoperta.

C'erano e ci sono gli uomini. Una volta che hanno perso alcuni dei (supposti) diritti o vantaggi o prerogative, bisognava fare i conti con le loro ferite narcisistiche. Ma anche con le modificazioni, le trasformazioni che nelle relazioni tra noi (donne) e loro (maschi) si determinano.

Mi obietterà Lea che lo scenario di guerre presenti (in Iraq) o dimenticate (nel Darfour), di una politica più tribale che razionale (come l'invito a cena con diossina del leader dell'opposizione ucraina, Yushchenko) non depongono a favore del "sesso forte". In uno dei suoi racconti, la scrittrice canadese Alice Munro riassume la questione con efficacia: "Gli uomini, mia cara, non sono persone normali. Te ne accorgerai quando ti sposi".

Però li sposiamo. E con loro abbiamo (o non abbiamo) dei figli. Anche se il femminismo tace sui rapporti con l'uomo. Poco sappiamo delle microguerre in corso; dei conflitti disordinati tra i due sessi.

Dobbiamo ringraziare la "nera" se ci arriva qualcosa degli scontri in corso. Dal delittaccio passionale a quello del marito, fidanzato, amante, che ha sterminato tutta la famiglia perché lei l'ha abbandonato. Tradito. Rinnegato.

A me interessa riflettere sulla cronaca. Offre spunti eccezionali. Anche sul desiderio di una coppia di avere un figlio. E sulle assurdità che mette in campo la legge 40 per rispondere a quel desiderio; per negare ai tanti Luca Coscioni del nostro Paese la possibilità di essere curati.

Intorno a questo nodo, molte femministe si sono impegnate. Ne hanno scritto (noi, nel sito DeA, www. donnealtri. it). Un gran numero di uomini e di donne (non necessariamente femministe, non necessariamente di sinistra) hanno firmato il referendum dei Radicali per l'abolizione della legge.

Non capisco dunque il pessimismo di Lea quando osserva che "ci sono gruppi, centri, associazioni della più varia specie che lavorano bene in ambiti specifici, ma mostrano tutta la loro debolezza quando sono costrette a incontrarsi intorno a un fenomeno che le implica tutte, come ad esempio la legge sulla fecondazione assistita".

Probabilmente manca l'energia del femminismo delle origini. Ma certe idee si sono messe in circolo. Tanto che io sarei più ottimista. Perlomeno, non insisterei sulla memoria e i confronti con il passato. Un passato troppo sacralizzato (mi pare sia un vizio che si ritrova pure a sinistra) serve solo a richiamare l'identità, immobilizzandola.

Tutto questo per dire a Lea che, forse, è più importante osservare l'eredità del femminismo. Nella cronaca, appunto. E nella televisione. Che offre spunti inattesi, nonostante la trivialità che serpeggia in alcuni messaggi.

Mi servo della trasmissione Porta a Porta di qualche giorno fa, incentrata sulle gemelle Lecciso. Quello che mi ha colpita era il parterre femminile (Mara Venier, Silvia Giacobini, direttrice di "Chi", Barbara Palombelli, Heather Parisi) e il rapporto, anzi, la relazione positiva (tranne una antipatizzante Antonella Boralevi) con la Lecciso Loredana.

Ognuna ha ripetuto (scegliete voi se per conformismo, per solidarietà reale o per obbedienza a un atteggiamento modello politicamente della solidarietà femminile): Vai avanti (anche se non sai ballare); difendi la tua autonomia. Non ti fare condizionare. Non rinunciare.

Che l'ambaradam della famiglia di Cellino San Marco sia una manfrina organizzata in accordo con Al Bano, marito della Loredana, non cambia il risultato. Anzi, rende il caso ancora più eccezionale. Il cantante dice di volere la moglie a casa ma che lei a casa non ci vuole tornare. Siamo di fronte a una scena sociale, se insieme l'hanno costruita, in cui il marito, il maschio, non può più essere padre-padrone. Dunque, il discorso del femminismo sembrerebbe entrato nelle pratiche di vita. È un risultato da poco?

Letizia Paolozzi, 12 gennaio 2005


Donne, uomini: ma chi siamo?

Nel suo articolo del 10 dicembre, Lea Melandri ha posto delle domande che provo a raccogliere. Il femminismo è ancora una pratica di modificazione di sé e del mondo? Che cosa è passato, alle giovani di oggi, di quell'intreccio originale di teoria e pratica che ha caratterizzato il movimento delle donne ai suoi inizi?

Il femminismo? È un modo di sentire, di essere, di agire e reagire. È una chiave per leggere il mondo senza le fette di salame davanti agli occhi. E' un nervo bruciante costantemente scoperto, che aiuta a riconoscere e svelare stereotipi potenti, a non assoggettarci a modelli che trasformano in merce corpi e desideri. Un modo di interagire con altri soggetti che può scardinare le facili certezze di chi - donna o uomo - rigetta o classifica comportamenti e idee che mettono in discussione i canoni pre-stampati su cui si edifica la retorica del femminile e del maschile. Se intendiamo questo, la risposta alla prima domanda di Lea è sì. Anche quando intendiamo il femminismo come continua messa in discussione di sé, come domanda aperta su come si costruisce la propria identità, su quali modelli. Con quale senso per sé e per il mondo.

Dandogli questo significato di trasformazione, è chiaro come il femminismo non si possa trasmettere in quanto tale. Si trasmettono i frutti di una lotta o di un impegno (la legge sul divorzio, quella sull'aborto) ma non il desiderio della lotta stessa. In un mondo popolato da spettatrici e spettatori, la partecipazione è un lusso, o una fatica, che poche sentono con urgenza, anche se la realtà ci passa addosso come uno schiacciasassi.

Se "partire da me" mi porta a non essere fra chi "ha preferito diventare egli stesso una merce piuttosto che subirne semplicemente la tirannia" (Tiqqun), allora la risposta alla domanda di Lea è: sì, il femminismo è ancora una pratica di trasformazione di sé e del mondo.

Eppure, la trasformazione è un percorso che segue solo molto parzialmente le vie già sperimentate. Credo che la differenza sessuale, in astratto, non esista; ogni codice che ne stabilisca i criteri è una trappola ideologica. Ma, dissolta la coperta calda dell'ideologia, siamo rimaste nude con i nostri tentativi appassionati di percorsi inediti, che, allo stato dell'arte, si diluiscono nei rivoli della società dello spettacolo.

Oggi più che mai, ogni aspetto della relazione e delle differenze fra i sessi è carico di ambivalenze. Prendiamo la riproduzione e la cura, ciò che è sempre stato considerato il perno della differenza sessuale, la base materiale e simbolica della divisione del lavoro tra produttivo e riproduttivo, l'elemento intorno a cui costruire la polarizzazione tra i ruoli e le identità. I comportamenti degli individui sono molteplici e sfuggono alle tipologie. Vanno dalla donna che non sente il desiderio di maternità a quella che è disposta a sottoporsi a tecniche invasive pur di realizzarlo. Sul fronte maschile, le cose sono altrettanto confuse: accanto alla figura tipica da tradizione familista, c'è chi esprime il desiderio di paternità e di cura come aspetto fondamentale della propria identità. Spesso sono proprio le loro compagne a non lasciare spazio a questo desiderio, avocando a sé il potere materno. I comportamenti sono variegati, i modelli vacillano, le identità si sformano. Di fronte a questo precipitare, si verifica il ricorso al già conosciuto. Ecco qua la legge sulla fecondazione assistita, le leggi in materia di famiglia, i richiami della Chiesa Cattolica al ruolo tradizionale di moglie e madre, l'aggrapparsi delle giovanissime a ciò che hanno di certo, che sia l'istinto materno o la forza-seduzione del corpo femminile.

Gli stereotipi rassicurano ma, imbrogliando le carte, non aiutano a comprendere le molte contraddizioni che si manifestano nel rapporto tra i sessi e nel rapporto di ciascuno con se stesso in relazione al proprio genere. Non ci aiutano neppure quando sarebbe utile fare massa critica, come nel caso della già citata legge sulla procreazione assisita.

Il rischio costante è l'etichettamento. Provate, una sera al bar, a intavolare una discussione su sessualità, sentimenti, oppure sul ruolo che gli individui assumono in base al sesso in relazione alla cura dei figli (e dei genitori), o sulla scarsa presenza femminile nei ruoli decisionali, o sui dati dell'ultimo rapporto di Amnesty sulla violenza. Avrete la conferma che avere ottenuto l'accesso delle donne ai Diritti non le mette al riparo dal sentirsi dire che "per le donne la maternità è un destino"; che la prostituzione è l'unico settore in crescita perché "sai, gli uomini, è una questione di ormoni…". Gli stereotipi visibili in queste comunicazioni sono la traccia parcellizzata di conflitti non risolti, solo insabbiati sotto la retorica della neutralità del mondo. Se qualcuna più sensibile sobbalza, vorrebbe reagire, a volte ci riesce e ribatte, ecco eretta la barricata difensiva: "Ah, ma allora tu sei femminista! ". Cioè: ti annullo, definendoti in base a ciò che io penso tu sia o debba essere.

La faccia femminile della stessa medaglia: "io non sono femminista, lo dico subito. Però devo dire che mi da molto fastidio che in tribunale i miei colleghi siano chiamati ‘avvocato', invece io ‘signora'", "non sono femminista… ma è allucinante che quando ho fatto richiesta per quel lavoro mi hanno risposto di no perché donna". Tra le esperienze che le donne vivono e i modi in cui sembrano abituate a pensarle e raccontarle c'è uno spazio opaco, inabitato: è lo spazio del politico; tutto, anche la denuncia, accade in forma privatistica e individuale. I media traboccano di discorsi sul "privato": fino a quando si tratta di fare e dare spettacolo, se ne parli. Ma quando in gioco è la propria vita reale, il privato diventa tabù. Al primo sentore di conflitto, si erge la barricata: per carità, non buttiamola in politica!

Dove spostarsi, allora, per creare rotture, eventi? Dobbiamo forse scomparire e riapparire, ma dove, come, con chi? Come rappresentarci, donne e uomini scomodi nel ruolo tradizionale dell'Uomo e della Donna? E gli uomini? Come dire delle scelte di cambiamento che gli individui di sesso maschile fanno entro ed oltre il proprio genere? E le donne migranti? Come intrecciare il nostro percorso di donne che hanno assaggiato l'emancipazione (la libertà è ancora un orizzonte utopico) a quello di donne portatrici di altre forme di emancipazione, di altre culture e di altri percorsi?

Non ho risposto alle domande di Lea, le ho solo articolate da un altro punto di vista: né vecchia né giovane, andavo all'asilo quando il femminismo era un movimento di massa. È, forse, il punto di vista di un tipo di soggettività più diffusa di quel che appare nella scena mediatica: un essere umano che cerca nello spazio e nell'agire politico il proprio orizzonte di senso, e che in questo spazio non può muoversi che a partire dalla propria corporeità, sospinta da elementi, ancora prima che femminili, umani: desiderio, responsabilità, curiosità, condivisione, amore. Rabbia, senso di impotenza. Molte domande.

Eleonora Cirant, 12 gennaio 2005




Un femminismo non udente

Il femminismo italiano è silenzioso o loquace? Forse bisognerebbe osservare, prima di ogni altra cosa, che il femminismo nostrano è soprattutto non udente. E che anche fuor di metafora il non parlare è legato al non udire. Poco udente, quindi poco parlante. Paradossalmente ciò che il femminismo non ascolta sono proprio le donne. Da alcuni anni, diciamo cinque o sei, le nuove generazioni parlano, ma le vecchie generazioni non ascoltano. Avvertono certamente un brusio, ma poiché di quelle voci non conoscono i linguaggi, non distinguono le parole, le frasi e le domande.

Alcuni episodi hanno avuto dell'incredibile. Dopo il Social Forum europeo di Firenze, dove aveva avuto luogo un'assemblea affollatissima e appassionata con numerose donne giovani, comparvero qua e là (in modo particolare sul Manifesto) articoli sul silenzio del femminismo e delle donne. Eppure tra le relatrici di quell'assemblea c'era Christine Delphy, di cui tutte per anni abbiamo continuato a rimasticare le brillanti analisi sul nesso produzione - riproduzione. E, se è vero che alcuni interventi rivendicarono contro il femminismo la "lotta di classe", è anche vero che alla sdegnata replica di Delphy rispose il caloroso applauso di quasi tutte.

Dopo la giornata delle donne alla vigilia del Sf di Parigi, in cui ci siamo incontrate in tremila, in gran parte giovani o giovanissime, la musica non è cambiata. All'incontro europeo della Marcia mondiale delle donne che si è svolto in Galizia nella primavera di quest'anno, a cui hanno partecipato diecimila delegate (molte delle quali ancora una volta di giovane età) quotidiani e riviste hanno dedicato altrove talvolta pagine intere o lunghi articoli.

In Italia non ne ha parlato nessuno, perché è mancata la mediazione che consente l'accesso a quel che resta della stampa delle sinistre. È mancata cioè la mediazione non delle donne che hanno una prosa pubblicabile (che di questi tempi non sono poi poche), ma di donne capaci di trovare brecce in un sistema di comunicazione interno protetto da recinti spesso impenetrabili.

Nei limiti delle mie conoscenze e possibilità vorrei offrirmi come interprete, scusandomi di errori eventuali di ortografia e di lessico.

In primo luogo le giovani generazioni in questi ultimi anni hanno parlato soprattutto il linguaggio del movimento dei movimenti, cioè una mescolanza di dialetti diversi, legati a culture, a percorsi politici, a esperienze e a bisogni tra loro diversi. Tuttavia, pur nella molteplicità delle lingue, alcune parole hanno radice comune e significato comune. Femminismo per esempio significa agire delle donne, come si diceva una volta "in quanto donne", per se stesse e per altri/e.

Il legame con l'agire o almeno la forte aspirazione ad agire è legata strettamente alla composizione sociale della maggioranza delle nuove generazioni e alla dimensione globale in cui hanno cominciato a muoversi e a sperare. Le manifestazioni mondiali del 2000, a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di donne di quasi tutti i paesi del mondo, hanno visto insieme gruppi di base latinoamericani, associazioni di difesa di diritti violati, intellettuali e contadine indiane, giovani vite precarie dell'Europa occidentale, migranti da Sud a Nord e da Est a Ovest.

Proprio perché i tempi e i luoghi fanno prevalere l'aspirazione ad affrontare problemi e risolverli, come la sua parte maschile, anche la parte femminile soffre di periodiche crisi depressive e battute d'arresto di fronte alle difficoltà estreme di tradurre le aspirazioni in risultati effettivi. Quando è riuscita ad agire e ha parlato quindi ad alta voce, questa parte ha evocato il bisogno di movimento, utilizzando preferibilmente le narrazioni femministe degli anni Settanta, quelle della denuncia dell'oppressione, della rivendicazione e dei diritti. Chi ha creduto di individuare in questo un elemento di arretratezza, ha idee discutibili su ciò che è vecchio e ciò che è nuovo. Le parole e i discorsi in politica hanno senso, se servono a orientare l'agire e l'agire risponde a una molteplicità di bisogni, ciascuno dei quali cerca e spesso anche trova il linguaggio più adatto per sé.

Per le giovani generazioni per altro, assai più che per la nostra, femminismo si declina preferibilmente al plurale, anche se il singolare è ammesso e serve a indicare il fenomeno nel suo complesso e in tutte le sue articolazioni. Tra i femminismi che in questi ultimi anni hanno parlato e hanno agito, attirando a sé donne giovani, c'è quello che potremmo chiamare femminismo sindacale, nelle sue interconnessioni con il movimento dei movimenti. In questo femminismo si sono manifestate due costanti storiche della politica delle donne. La prima è la tendenza del femminismo a nascere e ri-nascere al fianco del radicalismo politico e il sindacato, con tutti i suoi limiti, è restato in questi anni una delle poche istituzioni ancora in qualche modo vitali del vecchio movimento operaio. La seconda è la tendenza delle donne a irrompere sulla scena politica, strappando agli uomini l'iniziativa nei momenti in cui lo stato delle cose è troppo grave per lasciarla nelle loro mani. Nella vicina Confederazione elvetica, dove di rado accade qualcosa di esemplare dal punto di vista dei conflitti, la politica sociale di un governo fortemente inclinato a destra è naufragata quest'anno per l'iniziativa di Rouges de colère, una rete di una settantina di gruppi femministi e femminili, nata da donne del sindacato. Tre referendum di abrogazione di misure antisociali (soprattutto, ma non solo, contro le donne) hanno vinto in misura schiacciante quasi esclusivamente per l'attività della rete.

In Italia una parte almeno delle giovani generazioni femministe ha scelto di misurarsi con il tema della precarietà del lavoro e della vita, di costruire reti proprie e di partecipare a reti miste. Un meeting romano che ha avuto luogo il 23 ottobre ha dato il via a un processo di costruzione e radicamento, che ha già parlato di sé con le voci diverse di quante hanno già fatto o tentato esperienze. Certo la voce delle nuove generazioni femministe è ancora flebile. Certo i suoi discorsi spesso si interrompono a metà. Certo ancora siamo alla fase della citazione e della replica, perché speso i fenomeni nuovi parlano all'inizio con parole già dette.

Ma parla, eccome se parla! Per sentirne la voce basta togliersi dalle orecchie i batuffoli di una tradizione femminista ormai terribilmente autoreferenziale e ripetitiva.

Lidia Cirillo, 12 gennaio 2005



Femminismo, c'è bisogno di un ricambio

Il femminismo italiano è silenzioso o loquace? E se dice qualcosa, di che parla? Tre interventi pubblicati su Liberazione nei giorni scorsi hanno risposto in maniere differenti a queste domande, e vale la pena di raccogliere l'implicito invito a una discussione.

Per Lea Melandri, che ha aperto il dibattito, il problema è che si tace di quanto è veramente importante nelle vite di uomini e donne - della sessualità, della malattie, della morte, dei rapporti delle donne tra loro e con gli uomini. I diversi "femminismi" esistenti, per paura di suscitare inevitabili conflitti e collisioni, non si confrontano più, oppure si esprimono ciascuno in isolamento dall'altro, e in maniera episodica. Dal canto suo, Letizia Paolozzi è invece ottimista sulla avvenuta fermentazione del femminismo; "certe idee si sono messe in circolo", scrive - e trova segnali incoraggianti in alcuni episodi della cronaca nera e rosa (il caso Lecciso). La terza intervenuta, Eleonora Cirant, esprime un punto di vista ancora diverso, e sottolinea che una delle principali difficoltà è data dal fatto che "oggi più che mai, ogni aspetto della relazione e delle differenze fra i sessi è carico di ambivalenze".

Si tratta di posizioni che in qualche misura si possono condividere tutte e tre, non essendo in netta contrapposizione l'una con l'altra; ma personalmente è con Eleonora che sento maggiori elementi di condivisione, anche se non posso purtroppo scrivere, come lei, "andavo all'asilo quando il femminismo era un movimento di massa", visto che, anno più anno meno, appartengo alla stessa generazione di Lea e di Letizia. Il mio problema, tuttavia, non è soltanto quello di un eccessivo silenzio da lamentare, o di una disseminazione anche positiva di cui prendere atto. Ciò che mi preoccupa è invece qualcosa d'altro: la scarsa varietà e originalità delle voci che si ascoltano; l'esistenza di una situazione di squilibrio nella cacofonia generalizzata che circonda e invade le nostre vite.

Non è tanto il silenzio a disturbarmi, e neanche il cicaleccio di cronaca. Ciò che è veramente sconvolgente è lo scarso numero di coloro che si confrontano. Come negare che da molti anni le firme, i volti e i corpi nei media sono sempre gli stessi? Che sono quasi inesistenti le riviste su cui si può scrivere e discutere di femminismo a un livello che non sia quello della mera cronaca o degli specialismi disciplinari? Che sono solo alcune posizioni a prevalere, le quali nel corso degli anni hanno finito per creare un clima di monotonia e uniformità, dove o si è omologhe oppure si è fuori? Le poche voci che un tempo salutavamo come liberatorie e creative, ora sembrano diventate dogmatiche, autoritarie, e francamente assai poco condivisibili; ma ciò che è peggio, indifferenti ai bisogni di orientamento delle nuove generazioni, e quindi profondamente autoreferenziali.

Nel corso degli ultimi mesi ci sono state diverse questioni di cruciale importanza per chiunque (donne, uomini, giovani e meno giovani, legate al femminismo oppure no) cercasse di interpretare la realtà di un mondo ormai in guerra permanente, di "vite precarie" come le ha felicemente definite Judith Butler, di una realtà quotidiana dove le donne continuano a pagare prezzi di emarginazione e violenze troppo alti. Per nominare soltanto i temi principali, mi limito a ricordare: il problema del velo nelle scuole pubbliche; le sconvolgenti immagini sulle torture inflitte ai prigionieri di Abu Ghraib, tra gli altri, anche da parte di alcune soldatesse dell'esercito Usa; la lettera del cardinale Ratzinger sulla "Collaborazione dell'uomo e della donna" in cui si deprecava la nascita di "un modello nuovo di sessualità polimorfa"; last but not least, la legge sulla fecondazione assistita.

Sono tutti aspetti intorno ai quali sarebbe stato indispensabile poter contare su luoghi di confronto aperti, fornire argomentazioni a favore e contro le diverse posizioni; ma dal punto di vista che qui ci interessa - quello di coloro che si sono espresse anche implicitamente a nome del femminismo - era importante fornire almeno una piattaforma di considerazioni su cui era possibile far convergere interessi diversificati; in breve, offrire qualche strumento più raffinato di riflessione e di lettura della realtà. Come noto, su questi argomenti si sono avute opinioni sparse e, a proposito della lettera di Ratzinger, perfino una presa di posizione favorevole da parte del gruppo della Libreria di Milano, che ha gettato molte donne italiane nello sconforto, solo in parte corretto dagli ottimi articoli di Lea Melandri e di Rossana Rossanda sul manifesto di fine estate. E poi, di nuovo il silenzio; di nuovo il mormorio di sottofondo; di nuovo le ambivalenze… Le pagine dei quotidiani hanno ospitato le solite firme, in massima parte di cinquanta/sessantenni di ambo i sessi; e tra le giovani il disorientamento è stato totale. Per meglio dire; c'è stato un ulteriore senso di distacco ed estraneità, il nostro peggior nemico. Non si può dire infatti né che ci sia stato silenzio totale, né che si sia ascoltato un confortevole e incoraggiante brusio. Sui temi sopra elencati, in effetti, alcune femministe (e qualche uomo) sono intervenute in televisione, e hanno scritto su quotidiani e settimanali. Le domanda da sollevare a questo punto sono: quali donne? Come mai da tanti anni sono sempre e soltanto le stesse? Forse che sono poche quelle che pensano qualcosa, o che scrivono in una prosa pubblicabile?

Per chi insegna, come me, è una fatica da Sisifo riuscire a comunicare sul femminismo con donne giovani ansiose di chiarimenti, per sottolineare le coerenze nei luoghi in cui non si vedono, ed evidenziare le contraddizioni là dove rimangono nascoste, invitandole a essere autonome, non a seguire le mie idee.

Forse è arrivato il momento di scuotersi di dosso silenzi, luoghi comuni e disorientamenti; è ora di far ascoltare voci nuove e più giovani, di invitare non solo a un salutare cambio generazionale, ma ancor di più a un mutamento di stile nel confronto pubblico sulle questioni cruciali che il femminismo ha posto ormai da decenni e che continuano a essere al centro delle nostre vite - la sessualità, la violenza, la morte, le diseguaglianze, i diritti, il lavoro…e naturalmente il potere.

Paola Di Cori, 12 gennaio 2005


Femminismo, dove siamo e chi siamo

Che cosa resta del femminismo è una domanda su cui ci si sta interrogando da anni, almeno dieci, e a cui non è facile rispondere. Non tenterò l'ennesima risposta ma solo di puntualizzare un aspetto che mi sta a cuore, mettendo in guardia da un rischio che vedo ripresentarsi ogni volta che si affronta questo tema.

Più che la non omogeneità delle innumerevoli riflessioni che vengono da più parti, quello che mi colpisce, quello che balza agli occhi è il fatto che cimentandosi su questo complesso quesito le "femministe storiche", per la natura stessa del quesito, non possono non chiamare in causa le nuove generazioni di donne, cartina di tornasole senza la quale risulta evidentemente impossibile confermare o smentire qualsiasi tesi a riguardo. Ciò che resta del femminismo, così come di ogni altra rivoluzione, e non solo in termini di diritti acquisiti ma anche di consapevolezza e coscienza politica collettiva (di genere), va indagato in ultima analisi su chi la rivoluzione non l'ha fatta perché non c'era, ma l'ha raccolta recepita assunta oppure no.

Cosicché l'oggetto della discussione si sposta su "le giovani", da indagare interpretare decodificare accompagnare "lasciar fare" ascoltare, ed altro ancora, ad esempio sottilmente commiserare come minus habentes, piuttosto che continuare, da femministe, al di là dell'esperienza e dell'età anagrafica accumulata, a seguire ciascuna i propri desideri nel fare politica nei luoghi che si scelgono, partendo da sé che in questo caso sarebbe utilissimo davvero.

Lo dico un po' ad alta voce non contro qualcuna in particolare, né contro tutte in generale, ma per esprimere il disagio forte vissuto anche in prima persona e insieme ad altre giovani donne, quel disagio di sentir parlare altre per te seppur mosse dalle migliori intenzioni. Mi domando, se tante energie impiegammo per impedire, fin ricorrendo all'insulto pubblico (vi ricordate il caso Libertini?), che uomini pure autorevolissimi sparlassero paternalisticamente in nome delle donne, è possibile che il monito sia giunto agli uomini, oggi assai più cauti, e non alle orecchie e alla sensibilità di tante compagne femministe?

Ancora tocca alle più giovani di trovarsi a sperimentare, a seconda delle scuole di pensiero o se si preferisce dei femminismi incontrati sulla strada, o l'atteggiamento maternalista, tipico del femminismo autoreferenziale, o quello paternalista più tipico di un femminismo che si referenzia parlando non "di sé" ma delle altre: "le donne" "le giovani" le latinoamericane" "le immigrate" "le precarie". Due atteggiamenti questi non contrapposti, piuttosto due facce della stessa medaglia, che mettono distanza, segnano aprioristicamente una scissione che in entrambi i casi è tanto autoreferenziale quanto colonizzatrice e strumentale.

Appartengo alla generazione degli anni 80, quella che fu definita la generazione del riflusso, dunque per antonomasia la generazione di quelle/i venute/i dopo, quelle che la rivoluzione non solo non l'avevano vissuta, me della cui sconfitta si trovavano a subire tutte le conseguenza nefaste.

Fummo, noi, oggetto di studio e di analisi, sotto i riflettori come caso limite, prova schiacciante della fine non solo del femminismo ma della storia, immerse come eravamo nella nebulosa della smemoratezza e della condanna a vivere in un eterno presente.

Come se il filo della storia si fosse rotto, riuscimmo a balbettare per un periodo solo frasi mozze un po' sbilenche, ma il dato più evidente che caratterizzava un po' tutte noi che sentivano il bisogno di uscire da quella cappa di silenzio, era la nostalgia infantile verso qualcosa di grande vissuto da altri, miti non nostri, e la sensazione di non avere nulla di significativo da raccontare, nulla che fosse sgorgato direttamente da noi. Dunque lo stesso cammino di libertà femminile di cui avvertivamo il bisogno conquistandoci la memoria attraverso l'incontro con le generazioni del femminismo, restava spesso intrappolato anche dal vizio di fondo di una nostalgia paralizzante che rimarcava ogni volta una distanza incolmabile tra noi e le altre.

In questo senso la memoria è stato e continua ad essere un terreno problematico di incontro/scontro tra le donne del prima e quelle del dopo. Un incontro conflittuale, difficile, a volte percepito da entrambe le parti come deludente, frustrante, se non addirittura doloroso. La distanza allora era enorme, chiarissima, lampante sin nel linguaggio o forse nel linguaggio più che altrove: ancora una volta noi e loro.

Avevamo tutte intorno a venti anni e scrivemmo una lettera non ricordo per quale uso, restata poi dentro un cassetto: "Le femministe, esigenti, troppo materne, didascaliche e protettive o severe e bacchettanti, incomprensibili nel loro lessico complicato, troppo indifferenti o troppo chiocce accoglienti, insopportabili quando dicono "le giovani" con quel sorriso benevolo. Chiuse nel loro mondo. Incapaci di comunicare secondo un rapporto alla pari. E noi? Noi con la perenne sensazione di un incolmabile vuoto a cui porre rimedio, di essere sempre troppo indietro rispetto a loro, rispetto a ciò che non abbiamo potuto vivere, così a disagio nei loro luoghi che non troviamo poi così diversi da quelli maschili, in cui non abbiamo il coraggio di prendere la parola; noi che possiamo fare senza di loro, o che al più rivendichiamo un rapporto alla pari, o che mentre affermiamo di non volere madri cerchiamo invece troppo spesso una donna madre maestra che ci indichi la strada, ci spieghi come districarci nel groviglio delle nostre vite frammentate così segnate dal maschile, per trovare il filo che ci porti finalmente a dire con orgoglio "io sono mia".

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti come si suol dire, il freddo e il gelo di quegli anni vanno sfumando anche se essi non sono passati invano, hanno lasciato segni profondi.

Ma oggi più che mai si avverte l'urgenza di fare il punto della situazione, capire dove siamo e chi siamo.

Ma per favore non commettiamo gli stessi errori che hanno contribuito a rafforzare muri e mettere distanze. Quando parliamo di femminismo non perdiamo di vista il soggetto politico collettivo multiforme e in divenire che siamo, che vogliamo essere, che vogliamo continuare ad essere. Dunque parliamo in prima persona, se vogliamo metterci in gioco.

Le giovani se scelgono di essere soggetto politico dentro un percorso femminista (è questo il punto su cui stiamo tentando di riflettere), qualsiasi esso sia, credo che sappiano trovare le parole per dirsi e comunicare e farsi ascoltare se lo desiderano, senza bisogno di interpreti.

Linda Santilli, 12 gennaio 2005


Chiedetevi: cosa è la maschilità?

Negli ultimi mesi sono usciti Rapporti, dati statistici, inchieste sulla violenza a donne e bambini, che avrebbero meritato maggiore attenzione (Eurispes, Amnesty International, Istat 2002). Elemento comune risulta il fatto che in entrambi i casi l'aggressione viene perlopiù da persone vicine alla vittima: padri, mariti, amanti, amici. A parte qualche doveroso grido di allarme o di indignazione morale quando si parla di sfruttamento e di violenza sui bambini, per il resto non si può non essere colpiti dall'indifferenza con cui generalmente vengono accolti questi dati, che parlano di una "guerra" quotidiana, molto vicina a noi, per non dire interna alle nostre case. La freddezza con cui si elencano atrocità date per scontate -stupri, omicidi, maltrattamenti fisici e psicologici, ecc. - risulta tanto più evidente e inspiegabile se confrontata con l'enfasi e l'eccitazione immaginaria con cui, spesso nella stessa pagina di giornale, viene raccontato un fatto di cronaca dal contenuto analogo: per esempio, l'omicidio di una giovane donna, con sospetto di violenza sessuale. La differenza nasce dal fatto che, in questi casi, la vittima ha un nome, un volto, una famiglia, un luogo, delle abitudini. Se ne possono ricostruire i movimenti, spiare i desideri, soprattutto quelli più inconfessabili, in cui si è tentati di rintracciare la ragione che li ha portati alla morte.

Ma la diversità maggiore, tra le due notizie, è che nelle inchieste l'elemento che balza per primo agli occhi è l'appartenenza di sesso della vittima e dell'aggressore - il fatto cioè che a uccidere, violentare, sfruttare le donne sono quasi esclusivamente uomini - mentre nel racconto di cronaca il sesso dei protagonisti resta in sottofondo, ragione nascosta dell'eccitazione e del voyeurismo, e dominante è invece la loro singolarità: quella particolare ragazza, quel presunto omicida. La dimensione generale del problema lascia cioè il posto a una casistica rassicurante di "ordinaria" delinquenza o di "ordinaria" patologia.

Non è difficile constatare tuttavia che, in entrambi i casi, finisce per scomparire l'interrogativo di fondo: perché gli uomini fanno violenza alle donne? Perché gli aggressori sono soprattutto figure della loro vita famigliare e sentimentale (mariti, figli, amanti)? Perché questa violenza aumenta? Nel primo caso è la genericità del dato quantitativo, numerico, a scoraggiare l'identificazione, e quindi l'assunzione di responsabilità; nel secondo, al contrario, è la particolarità del caso, il suo aspetto ogni volta "unico", "eccezionale".

Come venire allora a capo di una "evidenza" che continua a restare "invisibile", come far sì che una inspiegabile "guerra tra i sessi", fatta di amore e odio, vita e morte, tenerezza e violenza, venga portata non solo alla coscienza, ma alla storia e alla cultura, a cui ha sempre appartenuto?

Un modo, che può essere rivelatore, è quello degli accostamenti: cominciare, per esempio, a riflettere su due inchieste apparentemente estranee l'una all'altra, quella sulla violenza ai minori e quella sulla violenza alle donne, chiedendosi che cosa hanno in comune.

L'elemento che più immediatamente li avvicina è che si tratta, in tutti e due i casi, di una violenza che va a colpire i più "deboli", quegli stessi corpi che l'uomo (il maschio) ha pensato di dover proteggere, a garanzia della sua stessa sopravvivenza, e coi quali si può dire che è stato "tutt'uno": cioè il suo corpo-bambino e il corpo della madre. Ma, oltre che deboli, questi corpi sono anche carichi di quella seduzione sessuale che, conosciuta in una fase precoce della vita, è destinata a lasciare segni duraturi nelle fantasie, nei desideri e nelle paure della vita adulta, tanto più quanto più pesante è la maschera di "virilità" di cui l'uomo è chiamato a rispondere dalla comunità storica dei suoi simili. La "fuga dal femminile" è perciò presa di distanza non solo da un sesso diverso, ma anche da quella parte di sé - il bambino/figlio- che continua in qualche modo a farne parte, come rischio permanente di debolezza, dipendenza, effeminatezza, manipolabilità. La "pedofilia", in senso lato, fa parte della "preistoria" personale di tutti gli umani, così come i sentimenti contraddittori di attrazione e repulsione rispetto al corpo che ci ha generati.

Resta da spiegare perché, quello che dovrebbe essere un naturale distacco dall'infanzia e dalla madre, sia tutt'oggi vissuto come un taglio violento, un atto di guerra -morte tua/vita mia-, perché il rapporto intimo con una donna sia al medesimo tempo un legame che strangola e un legame di cui non si può fare a meno, perché non si riesca a immaginare l'uscita dal dominio maschile se non come capovolgimento di poteri.

Il 18 dicembre 2004, su "Liberazione", un "giovane studente-lavoratore" ha scritto una lettera di protesta per la scelta del giornale di pubblicare articoli "ultrafemministi", e soprattutto per aver fatto una "vergognosa pagina" con la scritta "maschi assassini". Senza tener conto che con quel titolo si apriva un dettagliato resoconto sul Rapporto di Amnesty International sulla crescente violenza alle donne nel mondo, lo scenario immediatamente si ribalta: le donne non sono vittime, ma protagoniste di un "sessismo alla rovescia", aspiranti, per effetto di antiche "frustrazioni sessuali", a uno "strapotere" che si aggiunge ai "privilegi" che già hanno. L'espressione "maschi assassini" poteva effettivamente essere presa per un' "incriminazione" generalizzata del sesso maschile, ma mi chiedo anche perché non ha potuto essere considerata invece un modo provocatorio per spingere gli uomini a interrogarsi su come si è costruita storicamente la maschilità, che forme ha preso, che problemi pone il fatto che una percentuale così alta di persone del proprio sesso uccidono, sfruttano, violentano, accanendosi proprio sulle persone che più amano e desiderano. Lo "strapotere" femminile, che il lettore vede avanzare per effetto di un femminismo distorto dai suoi fini emancipatori, è sicuramente quello che la specie umana alla sua "origine" - e ogni bambini alla sua nascita - deve aver visto o attribuito al corpo che lo ha messo al mondo e in balìa del quale si è trovato a lungo "inerme". Ma non è certo la "storia" del rapporto tra i sessi, che ancora si configura come il più duraturo dei domini, perché "incorporato", come ha scritto Pierre Bourdieu (Il dominio maschile, Feltrinelli 1998), assorbito attraverso l'educazione, la divisione sessuale del lavoro, le istituzioni della vita pubblica, frutto di una "violenza simbolica" che impronta i pensieri e i sentimenti di uomini e donne, così che dominato e dominatore parlano la stessa lingua.

Il ribaltamento operato dal lettore ne è la prova, e dice anche quanto sia difficile uscire da una logica di guerra che parla allo stesso modo quando si tratta di "scontro di civiltà" o di conflitto tra i sessi: l'impianto è quello della specularità - il Bene e il Male, la vittima e l'aggressore -, poli che si fronteggiano e si ribaltano, secondo da che parte li si guarda. Uscirne vuol dire avere la forza di risalire alle cause, andare alla radice dei comportamenti, cercando dentro di sé prima di tutto, e insieme ragionando sulla cultura che, nostro malgrado e a nostra insaputa, abbiamo ereditato.

Lea Melandri, 12 gennaio 2005


Femminismi e movimenti delle donne



Le mie considerazioni provengono dalla prospettiva di quel "femminismo multicentrico", che si è costruito e reso visibile negli anni ‘90 attorno alle Conferenze Onu sullo sviluppo umano. È vero che verso di esso il femminismo italiano ha sempre mostrato un inquietante disinteresse, dovuto a una nostrana auto promozione ad avanguardia del pensiero umano, ad autoreferenzialità o forse a puro provincialismo. Sarebbe invece molto salutare, anche per il "nostro" femminismo, pensarsi al suo interno. Darebbe il senso della propria specificità, obbligherebbe a quella "traduzione" che fa ripensare a sé da altre prospettive. È proprio dall'interno di questo "movimento globale di donne" che oggi, consumata l'esperienza delle "politiche di genere", viene l'esigenza di un femminismo "simile a quello degli anni Settanta". Questo movimento, ben prima di Seattle, ha riunito insieme mondi diversissimi, dove il confine tra un movimento di donne "spontaneo" e un femminismo più esplicitamente dichiarato è difficile a tracciarsi.
Le conferenze Onu hanno fornito risorse, definito assi tematici, isolato terreni di discussione. Le femministe americane della "prima autocoscienza" si sono trovate con le militanti dei movimenti di liberazione anticoloniale, le accademiche con le contadine, le femministe istituzionali con le attiviste. Sono stati creati spazi per confrontarsi, discutere, confliggere, maturare analisi, prospettive, strategie, identificare comunanze e spazi/luoghi d'impossibili confronti. È cresciuta una rete di amicizie, gruppi, iniziative, alla ricerca di differenze e punti comuni, su temi come il controllo dei corpi femminili, le politiche di sviluppo, i diritti umani, sempre in un difficile equilibrio tra necessità di autonomia e i necessari rapporti con poteri e istituzioni. Non sarà un caso che sempre più, oggi, anche da parte delle più giovani, si richiede la ripresa del termine "femminista" e la capacità di articolare la stessa radicalità teorica e le stesse invenzioni politiche degli anni settanta. Questa radicalità è necessaria proprio oggi, poiché il "muoversi", questo sì, oramai inarrestabile, di quel secolare terreno che le donne rappresentano per gli uomini ha alzato il livello dello scontro, e in una congiuntura sfavorevole. Proprio nel momento in cui le donne hanno trovato un inizio di presenza autonoma, il ciclo economico degli aggiustamenti strutturali prima e i fondamentalismi religiosi poi, tentano di ricacciarle e riposizionarle nel ruolo di ammortizzatori, emotivi, economici e sociali, mentre l'aumento del livello della violenza privata in ogni angolo del mondo segnala l'insopportabilità maschile, a Nord e a Sud, verso ogni accenno di autonomia femminile.

Concluso il periodo che ha dato loro consistenza e visibilità, le componenti di questo movimento sanno di essere "abbandonate" alla propria autonomia, devono "fare da sé". Per volontà e per forza, poiché dopo la sorpresa della presenza femminile degli anni novanta, tutte le conferenze di revisione, in primis quelle legate alle questioni della salute riproduttiva e alla conferenza del Cairo, hanno visto l'invasione di "nuove Ong", create dal nulla, di donne fondamentaliste, cristiane e islamiche, mentre le commissioni create per l'implementazione dei piani di azione perdevano via via peso, e spesso per mano di una nuova burocrazia femminile.

Questo movimento, capace di conflitti feroci ma anche di fulminee alleanze, di pratiche di incontro trasversali ad inimicizie storiche ed etniche, è forse entrato in latenza, ma non è mai venuto meno. Continua una ricerca di spostamenti di paradigmi nelle visioni, è attivo nelle università e nella società civile, nelle politiche locali, e, certo, ha creduto di ritrovare un orizzonte più vasto nel nuovo movimento dei movimenti.

L'illusione è stata breve, poiché si è verificato qualcosa che noi italiane forse più di altre avevamo già vissuto agli inizi del femminismo, vale a dire la resistenza dei "compagni". Oggi tutte abbiamo, in vari luoghi del mondo, in comune un problema che è quello del rapporto con la sinistra, o quel che ne rimane, come l'avevamo noi negli anni '70, come l'avevano le donne dei movimenti di liberazione nel Sud. Esso si situa però a un livello diverso, più simile al "soffitto di vetro" che le donne dei paesi scandinavi incontrano proprio quando hanno raggiunto, sul piano dell'eguaglianza formale, livelli per noi impensabili. Il "soffitto" funziona per mano di uomini ma anche di altre donne, usate le une contro le altre. Funziona a tutti i livelli con quelle tecniche subdole e invisibili di esclusione, emarginazione, o leggera ridicolizzazione che sono state chiamate, in Norvegia, le "master suppression techniques".

Di fronte a questo, temo che "l'esserci in tante" non basti, che "agire in quanto donne" non basti, per essere riconosciute, ascoltate, per esistere e poter agire con diverse regole del gioco, secondo criteri, analisi o priorità autodefinite e con meccanismi di rappresentanza decenti. Ai Social forum ampio spazio è stato dato a donne singole ma non come portavoce di un movimento collettivo. Proprio quando alcune delle pratiche del femminismo venivano mutuate a piene mani, si è costrette a negoziare spazi, numeri di rappresentanze ridicoli, con un senso di vecchiaia delle "regole del gioco" di una tristezza infinita. Non sarà un caso che si moltiplicano oggi, tra le donne, gli spazi di un nuovo separatismo, che si stiano organizzando, di nuovo, come negli anni Settanta, luoghi di autonomia, e dalle grandi istituzioni internazionali e dai movimenti. È vero che i movimenti sono pieni di giovani donne. Saranno ricacciate, appena finita l'emergenza, negli spazi loro allocati, se non si consolida una prospettiva più complessa, capace di rendere visibili altri aspetti dei funzionamenti personali, sociali e politici, se non sono individuate le condizioni per la possibilità e il potere di portare avanti queste prospettive. Per questo, né le considerazioni di Letizia Paolozzi né quelle di Lidia Cirillo mi bastano per l'ottimismo. Infinite sono le pratiche di resistenza delle donne, tra l'altro sempre esistite, come per tutti "i popoli oppressi". Esse possono prendere molte direzioni possibili, anche le peggiori. Il femminismo, i vari femminismi, però hanno dato loro un significato e una prospettiva. Hanno coscientemente riportato in scena ciò che, all'interno di ogni sapere o pratica politica è sistematicamente occultato. È questo lavoro, teorico e pratico, quello capace di creare visioni diverse, di spostare paradigmi, quello che obbliga a ripensare le regole del gioco, e, in politica, fa cosi paura che infiniti modi di neutralizzazione vengono ogni giorno inventati. Esso chiama in causa la necessità di autocoscienza da parte dei compagni e una chiarezza nostra, "aggiornata" con le giovani, di cosa sia in gioco nel patriarcato.

Paola Melchiori, 12 gennaio 2005


Il movimento dei movimenti e "noi"



Ciò che in questa discussione risulta ancora poco chiaro è che il movimento dei movimenti ha cambiato l'orizzonte anche della politica delle donne. Comprendere i mutamenti non è facile perché, come sempre accade, i fatti precedono la loro sistemazione teorica. Succedono cose nuove, ma non esistono ancora parole nuove per dirle. Tra le cose nuove che si possono cominciare a dire o tentare di dire, ce n'è una che mi sembra la chiave per comprendere le differenze di angolo di visuale. In questo movimento il "noi" non si costruisce più secondo le linee di divisione del passato: le giovani, le quasi-giovani, le non più giovani, le lesbiche, le costruzioniste, le differenzialiste ecc. Il movimento dei movimenti fa e disfa dei "noi" secondo obiettivi, progetti e scadenze. Il "noi" non è determinato dall'identità e dall'ideologia, ma da ciò che si fa. Per questo, anche se appartengo alla generazione successiva a quella di Linda Santilli (che partecipato al dibattito su queste pagine) non trovo strano che donne non più giovani parlino di "noi", cioè insieme di me, di se stesse e del nostro fare comune.

Questo non vuol dire che i dati anagrafici o sociali non contino. Contano, ma costruiscono altre e diverse geometrie politiche.

Le giovani, quelle che come me hanno contribuito in prima persona ad animare, promuovere, sostenere le iniziative degli ultimi anni contro la globalizzazione neoliberista, hanno alle loro spalle un'esperienza certamente limitata. Non hanno conosciuto e sperimentato le fasi alterne di avanzamento e riflusso del movimento femminista in Italia. Tuttavia appartenere a una nuova generazione non significa solo avere meno (meno di età e meno di esperienza), ma anche possedere un bagaglio diverso di esperienze. Mi sono formata in quello che abbiamo chiamato "movimento dei movimenti"; insieme ad altre ragazze ho vissuto intensamente l'esperienza di Genova; ho inteso quel movimento come luogo in cui lavorare per lo sviluppo del conflitto sociale. Ho perciò considerato ovvio che, se il movimento simbolicamente partito da Seattle ha in questi anni cambiato alcune cose nel modo di fare politica, i cambiamenti avrebbero dovuto interessare anche il femminismo.

Non sempre però chi vive esperienze qualitativamente nuove ha l'esatta percezione delle novità.
Come ho già cercato di dire, non è facile vivere e nello stesso tempo commentare ciò che si vive, fare la didascalia a esperienze emozionanti, a conflitti e a speranze.

Il secondo commento che si può tentare, è strettamente legato a quello sul "noi", riguarda l'esigenza di agire di fronte alle drammatiche emergenze del nostro tempo.

Devo dire che è stata proprio quest'ultima esigenza ad avvicinare molte di noi alla Marcia mondiale delle donne; è stata l'impellenza di questo bisogno a farci propendere per una decisa internità ai luoghi di movimento che sono stati aperti in questi anni, dai Social Forum territoriali ai coordinamenti tematici, alle reti sociali. A un certo punto del nostro percorso abbiamo poi scelto il tema della precarietà quasi automaticamente e naturalmente e il nostro impegno ha visto una partecipazione crescente di collettivi e di singole donne.

L'esistenza e le pratiche di gruppi o collettivi di giovani donne, che sperimentano iniziative contro gli effetti nefasti del neoliberismo e della guerra, ci dice anche altro sulla nuova ondata di femminismo. Come la sua parte maschile (almeno nei momenti migliori) e nello stesso tempo in modo diverso dalla sua parte maschile, questo femminismo si sforza di creare connessioni, di valorizzare ciò che accomuna piuttosto che ciò in cui si differisce, nella convinzione che sia la messa in relazione a costituire la forza di questo movimento. Per questo abbiamo accettato la sfida di confrontarci con gli altri soggetti della politica che in questi anni sono scesi nelle piazze contro la guerra globale permanente, contro l'esistenza dei Centri di permanenza temporanea, contro l'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, contro il pacchetto Treu e la legge 30, senza rinunciare a difendere con forza le nostre ragioni all'interno del movimento stesso anche attraverso la polemica e il conflitto.


È forse un caso se proprio questa nuova ondata femminista ha compreso anche prima di molte femministe di grande esperienza e autorità l'importanza della battaglia contro la legge sulla fecondazione assistita (PMA). Collettivi di ragazze hanno avuto un ruolo determinante nella manifestazione che ha attraversato il centro di Roma nel luglio del 2002, e non solo perché c'erano, ma anche perché hanno provato (in quella e in altre occasioni) a coinvolgere il movimento tutto. Ma anche in questo caso non si è trattato di una questione di età, ma di posizione rispetto al movimento con cui l'età ha ovviamente qualcosa a che fare, visto che uno dei suoi effetti virtuosi è stato quello di coinvolgere persone giovani e di avvicinarle per la prima volta alla politica.

Un ultimo commento, infine. Contrariamente ad altre fasi della storia, in cui la politica delle donne ha fatto irruzione nelle brecce aperte dagli uomini, questa volta le donne hanno anticipato gli uomini, se è vero che in una qualche misura Hairou è stata un'anticipazione di Porto Alegre. Si è parlato anche di femminilizzazione dell'antagonismo. Bisognerebbe ora cominciare a chiedersi quali responsabilità questo comporti per il femminismo e per le donne.

*Collettivo femminista "La mela di Eva"

Michela Puritani, 12 gennaio 2005