Il secondo sesso

Simone de Beauvoir nacque a Parigi nel 1908, in una famiglia dell'alta borghesia.

Laureatasi in Lettere alla Sorbona, nel 1929 conobbe Jean-Paul Sartre, suo professore, che la introdusse nell'ambiente degli esistenzialisti. Il loro fu un rapporto "aperto", mai formalizzato col matrimonio, ma molto duraturo e fecondo di amicizia ed affetto.
Fece l'nsegnante di filosofia a Marsiglia, a Rouen e infine a Parigi.

Negli anni trenta compì insieme a Sartre lunghi viaggi in Europa ed in Africa settentrionale, e nel 1943 pubblicò il suo primo romanzo, L'invitata, nel quale affrontò alcuni temi che erano al centro del dibattito esistenzialista, in particolare la libertà e la responsabilità individuali dell'intellettuale all'interno della società.
Per lei l’esistenzialismo è una filosofia della libertà, il portatore di una nuova etica tanto nella sfera pubblica che in quella individuale; è una filosofia dell'engagement, dell’impegno, che vede uniti mondo e individuo: la liberazione dell'uomo non può essere trovata nell'individualismo o nell'egoismo, ma solo affrontando e sciogliendo il nodo del rapporto Io-mondo, Io-altri. Oggi noi "siamo liberi e oggi dobbiamo salvare la nostra esistenza…non rinviare la soluzione dei problemi e dei conflitti dell’umanità a un Paradiso di là da venire… in cui tutti sarebbero riconciliati nella morte."

Nel 1949 pubblicò Il secondo sesso. Nel 1954 ottenne il premio Goncourt. Nel 1958 con Memorie di una ragazza perbene, iniziò a pubblicare un ciclo autobiografico che comprende anche L'età forte (1960) e La forza delle cose (1963) e che si conclude con A conti fatti (1972).

Negli anni '70 Simone de Beauvoir entrò a far parte del femminismo militante, il Mouvement de libération des femmes: partecipava alle manifestazioni, firmava il manifesto delle 343 "salopes" (donnacce) che dichiaravano di aver abortito, apriva le colonne di Les Temps Modernes, di cui era co-fondatrice, alle cronache dell'"ordinario sessismo". Partecipò inoltre alla fondazione di varie associazioni e riviste, quali la Ligue des Droits des Femmes, Choisir e Questions Féministes.

Morì nel 1986, cinque anni dopo Sartre.

Il secondo sesso è diviso in quattro parti:

1. l’essere-donna dal punto di vista naturalistico, delle scienze. La scienza ci può rivelare la realtà materiale della donna ma non ci dice cosa deve essere una donna né che cosa può essere una donna. La verità esistenziale della donna non può venire dedotta dalle scienze, pena il riduzionismo o il biologismo.

2. l’essere donna dal punto di vista della storia: su base storica, la donna è stata una "presenza-assenza", una presenza reale assente alla storia che è storia scritta e fatta dagli uomini, dal sesso maschile. Tranne alcune importanti eccezioni, la donna è stata ciò che l’uomo ha voluto che fosse.

3. lo studio della immagine della donna proposta dai miti più antichi fino all’immagine femminile creata dalla letteratura.

4. l'analisi del "vissuto" femminile, descritto in forma evolutiva attraverso le varie età della vita, dall’infanzia alla vecchiaia. La condizione femminile del presente è quella di una astratta eguaglianza contrapposta ad una concreta ineguaglianza. Le donne hanno di fatto raggiunto il pieno inserimento nella società: non è quindi più il momento delle rivendicazioni generali o delle battaglie di principio, ma bisogna che la donna scenda nell’individuale e approfondisca la conoscenza di se stessa. Conoscere se stessa è per una donna una prassi difficile: tutte le identità che le vengono proposte dalla cultura ufficiale sono identità alienanti, che la mortificano, che registrano il suo stato di assenza culturale, di minorità sociale. La donna deve rifiutare di essere l’Altro dell’identità maschile e pagare il prezzo che questa scelta comporta.
Nella storia della specie umana, la preminenza è stata accordata non al sesso che genera ma al sesso che uccide. L’uomo ha il "coraggio" di uccidere e di farsi uccidere, ha la spinta ad utilizzare attrezzi e a lavorare, a trascendere se stesso e la natura, e fonda così il complesso dei valori della civiltà. Di fronte ad essi la donna non ha mai opposto dei "valori femminili". Si è limitata a modificare la propria posizione in seno alla coppia e alla famiglia. Ma la donna oggi può provare a cercare la strada per la sua libertà: una libertà che la pone in questione come individualità, una libertà difficile.
Il binomio lavoro + diritto di voto non è la formula per la libertà: infatti solo per un ristretto numero di privilegiate l’attività lavorativa porta con sé l’autonomia economica e sociale.
La sintesi fra femminilità e libertà, fra femminilità e soggettività è ancora un problema aperto. In conclusione, la verità della donna non si può ancora fissare in un concetto o cogliere in forma definitiva ma solo "raccontare": è alla donna tocca decidere che cos’è la donna. La donna, dopo aver svelato la realtà della propria condizione, deve adesso viverla, ridefinirla. Un momento importante in questa ricerca di identità sarà costituito dai rapporti con l’altro sesso. Ma sul futuro dell’identità femminile e sul rapporto fra i sessi de Beauvoir non intende azzardare pronostici.

Maria Vittoria Vittori

Vita e opere di una donna "engagée"


L'incontro con Sartre

Anticonformista per istinto naturale prima ancora che per scelta ideologica, fornita di una buona dose di ironia nei confronti degli altri e di se stessa, al punto da definirsi "grande sartreuse", Simone de Beauvoir ha provveduto da sola al proprio ritratto: «Avevo sempre avuto il gusto dell'immediato. Amavo tutti i piaceri del corpo, i colori del tempo, le passeggiate, le amicizie, le conversazioni, conoscere, vedere» scrive in "La forza delle cose", terzo volume delle sue memorie. Questo ritratto si colloca nel '45, l'anno della Liberazione che è anche uno dei momenti più belli della sua vita; a quell'epoca lei ha trentasette anni e diverse esistenze alle spalle. Nata il 9 gennaio 1908 a Parigi, è stata la "jeune fille rangée"; la quindicenne misticheggiante che si accorge di non credere più; la brillante studentessa di lettere e filosofia alla Sorbona; la luminosa ragazza che nel luglio del 1929 ha conosciuto Jean Paul Sartre, un punto fermo della sua vita, l'insegnante di filosofia di moltissimi adolescenti marsigliesi e parigini. Inizia così la sua biografia affidata a "Memorie di una ragazza perbene" (1958): «Sono nata il 9 gennaio del 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail. Nelle foto di famiglia fatte l'estate successiva si vedono alcune giovani signore con lunghe gonne e cappelli impennacchiati di piume di struzzo, e dei signori in panama, che sorridono a un neonato: sono io». Iniziano gli studi, le delusioni, le nuove amicizie. L'amore. Quello con Sartre in particolare, un legame attraversato anche da altri amori ma che resiste fino alla fine, forte di un'intesa intellettuale che li vede, pur non senza conflitti, affianco in molti momenti della loro vita.
Ora che Simone ha realizzato le sue esigenze primarie di conoscere, di scrivere, di impegnarsi, è più che mai innamorata della vita. Le sue foto ce la restituiscono con uno sguardo sempre intenso, vigile, spesso appassionato. Un inganno dell'immagine? No, capacità di esserci, di guardare gli altri. Questa capacità di abitare con pienezza il proprio presente non l'abbandonerà mai, nemmeno in vecchiaia: non stupisce quindi che abbia deciso di scriverne, sfidando numerosi tabù, in un saggio che suscitò scalpore.

La rivoluzione vien di maggio

Ma prima dei tabù della vecchiaia, altri chiedevano di essere sfidati e Simone vi si applica, osservando spregiudicatamente prima di tutto se stessa e poi le altre. "Donne non si nasce lo si diventa" è la parola d'ordine del suo libro "Il secondo sesso" pubblicato nel 1949. Innumerevoli falsi miti, creati dalla cultura e dalla società, si erano cristallizzati attorno ai corpi e alle intelligenze delle donne: e certo anche attorno a lei. «Capii, per la prima volta, che io stessa vivevo una vita falsa o meglio che, senza nemmeno rendermene conto, approfittavo di una società costruita per gli uomini» dichiara Simone a venticinque anni di distanza dal "Secondo sesso".
Innegabile che fosse una privilegiata: la filosofa e scrittrice esistenzialista, la collaboratrice di "Les Temps Modernes", la conferenziera di successo, non è certo assimilabile alle altre donne francesi. «Ero diventata una collaborazionista della classe privilegiata - aggiunge infatti Simone -. Attraverso "Il secondo sesso", mi resi conto che la lotta era necessaria». Se già non godeva di buona reputazione agli occhi dei benpensanti, l'uscita del libro le attira un imponente supplemento di attacchi, spesso volgari, quasi sempre feroci. Con la sua abituale ironia commenta: «Che sfoggio di oscenità con la scusa di fustigare la mia! (…) Mauriac scrisse a uno dei collaboratori di "Temps Modernes": Adesso so tutto sulla vagina della vostra padrona». Aggredita sulle pagine dei giornali, additata nei caffè, processata perfino da amici di lunga data come Camus, Simone non si perde d'animo. Anzi, lavora alla stesura del romanzo "I mandarini" che le vale nel 1954 il premio Goncourt : un complesso affresco della società e della cultura contemporanee attraverso il dipanarsi di vicende parallele in cui è possibile riconoscere, trasposte, la relazione con Sartre e quella con Algren, i suoi due grandi amori. Storie di esperienza vissuta e rappresentazione di un clima sociale e culturale trovano sempre il loro naturale punto di fusione nella sua opera: perché l'engagement non è altro che «la presenza totale dello scrittore alla scrittura».

 

La cerimonia degli addii

Per una come lei, che non sa concepire l'esistenza se non come significativa immersione nella propria individualità e nel proprio presente storico, l'impegno non sarà distinguibile dal desiderio di partecipare, di raccontare e di rendere conto di tutto. Ben prima del '68, è stata lei ad infrangere con la più grande naturalezza la barriera tra il pubblico e il privato. Alle "Memorie di una ragazza perbene" seguono gli altri tre capitoli della sua autobiografia, "L'età forte" (1960); "La forza delle cose" (1963); "A conti fatti" (1972). Sono anni particolarmente attivi e fecondi, contrassegnati dalla scrittura non solo delle memorie ma anche di altri libri come "Le belle immagini" e "Una donna spezzata"; dai numerosi viaggi compiuti in Tunisia, in Italia, in Urss, a Cuba, in Cina e negli Stati Uniti; da un impegno politico che si approfondisce e si diversifica: contro la repressione del 1956 in Ungheria, contro gli orrori della guerra in Algeria; a favore delle battaglie abortiste, dei ribelli cecoslovacchi e del movimento studentesco. Gli anni '70 si inaugurano con un doppio impegno: Simone, già a capo dell'associazione femminista "Choisir" accetta di dirigere "La lega dei diritti della donna" e intanto pubblica "La terza età" documentato e appassionato saggio che è anche un duro atto di accusa alla società che «prefabbrica la condizione mutilata e miserabile» dei vecchi. Scrivere a partire da sé, dalle proprie consapevolezze, per arrivare a toccare gli altri: questa l'esigenza espressiva ma anche etica a cui non si è mai sottratta Simone de Beauvoir. Fino all'ultimo: fino a quando, nel 1981, conclude con queste parole la rievocazione della sua vita con Sartre, scomparso il 13 aprile dell'anno precedente «La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà; è già tanto che le nostre vite abbiamo potuto accordarsi così a lungo»: un'intima, dolorosa intuizione che è anche consapevolezza esistenziale, di tutti. Anche lei morirà ad aprile, il più crudele dei mesi come voleva Eliot: il 14 aprile 1986.

Maria Rosa Cutruffelli

"Il secondo sesso": pubblicato la prima volta nel '49 è un libro che fa scandalo anche nel duemila


Quando Simone ci disse: «Donne infrangete il sogno degli uomini»


 
Il secondo sesso
uscì in Francia nel 1949. E fu subito scandalo. Si scandalizzò la destra. Si scandalizzò la sinistra. Fioccarono le ingiurie (e, naturalmente, le "accuse" di lesbismo). Albert Camus scrisse: «De Beauvoir ha ridicolizzato il maschio francese». Il Vaticano mise il libro all'Indice. I librai organizzarono un boicottaggio (nonostante il successo commerciale). L'autrice fu sommersa da insulti pubblici e lettere anonime. Ma fu confortata, anche, da un grande e appassionato interesse femminile. Che cambiò la sua vita. Così come il suo libro contribuì (e non in modo marginale) a cambiare la vita di tante donne, in quegli anni e in quelli successivi.
Poco dopo venne il femminismo. Anzi, il neo-femminismo. Con le sue battaglie politiche. E le sue teorie. Complesse, sofisticate. A volte contrapposte (femminismo post-coloniale versus femminismo occidentale, e così via). E dunque oggi, dopo tanto scrivere, confrontarsi, lottare, cosa resta di quel grande testo che secondo Juliette Mitchell fu, per tutte, una specie di "linea di partenza"? Quale analisi illuminante, quale spunto di riflessione politica possono ancora trovare, là dentro, le giovani generazioni?
Renate Siebert, nella sua bella premessa a una nuova edizione italiana del 1999, analizza le obiezioni e le critiche mosse in anni recenti: l'importanza data all'emancipazione attraverso il lavoro, ad esempio. Eccessiva, secondo alcune. Di "vecchio" stampo marxista. E, poi, quella visione così poco elegiaca della maternità e del suo dubbio "potere"! «Non in quanto madri - dice de Beauvoir - le donne hanno conquistato la scheda del voto». Eppure, a distanza di tanto tempo, nelle sue pagine risuonano delle verità tutt'altro che superate dalla Storia. Perfino quello che lei scriveva sull'aborto (più di mezzo secolo fa) sta tornando di moda, per così dire. Dopo aver ascoltato in tv le ultime notizie attorno alla "moratoria sull'aborto" lanciata da Ferrara, fa un certo effetto aprire Il secondo sesso e leggere: «La società, così accanita nel difendere i diritti degli embrioni, si disinteressa dei bambini dal momento in cui sono nati... e, mentre rifiuta di ammettere che il feto appartenga alla madre che lo porta, permette che il bambino sia proprietà dei genitori... bisogna poi aggiungere che gli uomini più rispettosi della vita embrionale sono gli stessi che dimostrano la maggiore sollecitudine quando si tratta di condannare degli adulti alla morte in guerra...». E via discorrendo.
A conti fatti, io credo che Il secondo sesso sia in realtà ancora un libro scandaloso. E che il suo scandalo sia ben compendiato in quella piccola, famosa frase che costituisce l'incipit della seconda parte: «Donna non si nasce, lo si diventa».
In parole povere: non siamo inchiodate alla nostra anatomia, non c'è un destino biologico a cui dobbiamo necessariamente piegarci: «L'umanità è una cosa diversa da una specie: è un divenire storico...». Il concetto, per la verità non era nuovo nemmeno ai tempi di de Beauvoir ma lei lo fece diventare un'affermazione politica. Una vera e propria bomba a orologeria innescata per scardinare la gabbia dei ruoli. E sappiamo quanto fosse stretta allora, quella gabbia. Ci volevano idee e gesta molto potenti per farla scricchiolare almeno un poco... Oggi forse è un po' più comoda, più larga, magari, ma è sempre lì, basta scorrere un qualsiasi testo delle elementari con i suoi immutati stereotipi di genere per rendersene conto. E per capire che purtroppo il rapporto tra i sessi non cambia alla stessa velocità con cui cambia lo stato del mondo. Tanto che l'affermazione di Jules Laforgue, citato da de Beauvoir nelle sue conclusioni suona fin troppo familiare alle nostre orecchie. «No - scrive Laforgue - la donna non è un nostro fratello: ne abbiamo fatto una creatura diversa da noi sconosciuta, che ha per unica arma il proprio sesso».
Ma è proprio sulla relazione tra uomini e donne che de Beauvoir scrive le sue pagine più originali e, per molti versi, ancora nuove (mai analizzate davvero, fino in fondo).
Proverò a riassumere e perdonatemi se sono costretta a schematizzare. Dunque. Secondo la filosofa francese la donna non è semplicemente l'Altro, come nella dinamica servo-padrone. Lì ci sono due soggetti che entrano in relazione e, nel conflitto, si vedono . Si riconoscono in quanto soggetti, per l'appunto. Formano una coppia in cui ciascuno ha "una coscienza separata". Si limitano e si negano l'uno con l'altro, ma è proprio di questo che hanno bisogno per affermarsi: «Il soggetto non si realizza che attraverso questa realtà estranea» che gli sta di fronte.
La donna, invece, è l'Altro assoluto. Non c'è riconoscimento reciproco fra lei e l'uomo. La donna non è una "realtà estranea", ma "un sogno incarnato". Grazie a lei, che si fa specchio dei suoi desideri, l'uomo sogna infatti di sfuggire al silenzio della natura e «all'implacabile dialettica del padrone e dello schiavo, che ha origine nella reciprocità delle libertà». La donna, in sostanza, è storicamente esclusa dalla dialettica della relazione tra soggetti, e questo spiega la natura specifica della sua condizione. E anche il paradosso millenario in cui è costretta a vivere: dentro il mondo maschile, ma nello stesso tempo «in una sfera in cui questo mondo è confutato». Ecco perché sotto la docilità femminile si nasconde un rifiuto. Ma dentro questo rifiuto si nasconde anche un'accettazione. «Gli uomini - osserva la filosofa - trovano nella loro compagna più complicità di quanta non ne trovi normalmente l'oppressore nell'oppresso, e così si sentono autorizzati, in malafede, a dichiarare che essa ha voluto il destino che loro le hanno imposto...».
La struggente attualità di questo libro, come dice Renate Siebert, in definitiva sta proprio qui, in questo «impietoso dispiegare il processo di formazione del femminile, le complicità intime con il maschile, le fughe in avanti e il nascondersi dietro le apparenze».
Ma Il secondo sesso non è soltanto un libro filosofico. O sociologico. O antropologico... È, come ho detto, un testo politico. Che perciò dà spazio a possibili itinerari di riscatto. O meglio di salvezza. Per tutti. Il primo passo in questa direzione sarebbe proprio l'affrancamento della donna dal suo ruolo di Altro assoluto. Il suo ingresso nella dialettica di un reciproco riconoscimento con l'uomo. Che, da parte sua, dovrebbe rinunciare al sogno mitico (e ingannevole) di un femminile che, rendendosi oggetto, assicuri a lui la trascendenza. Ma purtroppo, secondo de Beauvoir, «questo sacrificio risulta agli uomini stranamente gravoso».


Angela Azzaro

Memorie di una ragazza che è andata ovunque


Nei suo romanzi, l'autobiografia di una vita speciale. Non è un madre, ma una sorella che ci stimola a andare lontano

Simone non è mai stata una madre. Una di quelle che ti dicono che cosa fare o non fare nella vita, dove andare, cosa dire. Non è stata una madre femminista proprio lei che ne Il secondo sesso ci ha spiegato che siamo soggetti a tutto tondo e che la maternità non è un destino dovuto, ma imposto da una storia e da una cultura di uomini.
Non è stata una madre, ma è stata una sorella. Una sorella speciale che ti cambia la vita, ti fa da specchio e ti dà la forza di andare avanti nella tua ricerca.
È stato questo per me la lettura di Memorie di una ragazza perbene , la scoperta di non essere sola, uno squarcio dirompente su una realtà dove i ruoli, che ci vengono appiccicati fin dalla nascita, non sono un dogma. È leggendo la storia dell'infanzia e dell'adolescenza, fino all'università, di de Beauvoir che - ancora al liceo - ho capito la cosa più importante: che ero femminista e che essere femminista è prima di tutto e soprattutto ricerca di libertà. Solo un altro libro in quegli anni ha avuto la stessa forza, Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti. La mia inquietudine non era un malessere esistenziale, era la voglia di uscire dagli schemi che sentivo stretti, le ragazze lo fanno così, i ragazzi lo fanno così, devi stare nel posto che ti è stato dato. Altrimenti sei diversa, troppo diversa. E invece no, perché molti anni prima, in Francia, una ragazza sperimentava le stesse inquietudini, la stessa voglia di politica, di relazioni fuori dai cliché. Lei ce l'ha fatta, anche io posso farcela, hanno pensato in tante mentre leggevano Memorie di una ragazza perbene : un libro che insegna, per paradosso rispetto al titolo, ad essere cattive, cattive ragazze, quelle che vanno dappertutto.
E lei, Simone, dappertutto c'è andata. A piedi e in bicicletta come ha raccontato negli altri tre libri della sua lunga biografia, L'età forte, La forza delle cose, A conti fatti. C'è andata con la testa, nella sue incursioni filosofiche e letterarie, nel suo impegno politico accanto agli algerini e alle algerine che si battevano per l'indipendenza. C'è andata nelle relazioni amorose con Nelson Algren e soprattutto con Jean Paul Sartre con il quale riesce ad avere un unione fortissima, fino alla morte, ma che non ha niente a che fare con le coppie (eterosessuali) che oggi ci vengono proposte come esempi da seguire.
Simone de Beauvoir è una donna libera. E per me è sempre stata il simbolo di quella libertà. Nel vivo del dibattito femminista degli anni '90 ho scoperto che lei è fuori moda, io sono fuori moda. De Beauvoir è diventata una emancipazionista, Il secondo sesso roba superata. Bisogna essere differenti. Ma non lo siamo già? Non lo è anche Simone? Sì, ma non lo è dal punto di vista filosofico, lei che è anti-essenzialista per eccellenza.
È stata Rosi Braidotti che l'ha ripresa e l'ha riproposta rimettendola al centro della teoria e del conflitto. Spiega Braidotti a metà degli anni Novanta, mentre sta elaborando il suo libro forse più bello e importante Il soggetto nomade, che tra uguaglianza e differenza, tra emancipazione e libertà c'è una tensione che non può mai essere superata. Con un colpo di coda mette al centro il soggetto, un soggetto nomade anche dal punto di vista politico e filosofico. Cioè un soggetto incarnato capace di posizionarsi a seconda delle esigenze, della storia, delle relazioni, del conflitto che si intende agire.
Le pratiche politiche possono essere le stesse in Italia e in India, negli Usa o in Iran? Braidotti, con Simone, risponde di no e in qualche modo anticipa un punto centrale delle teorie e delle politiche del femminismo postcoloniale, sicuramente oggi tra i più vivi e più importanti per interpretare e agire il nostro tempo: nessun femminismo, nessuna donna può insegnare alle altre come e quando conquistare la propria libertà. Non è relativismo. È il riconoscimento della complessità e di quell'attraversamento delle identità teorizzato ne Il soggetto nomade .
Oggi di de Beauvoir risuona soprattutto «donne non si nasce, lo si diventa». Se ne danno molte letture, se ne possono individuare molto sfumature. Ma, senza timore di forzarla, ci leggo l'eco anticipata delle teorie sul genere prima e queer dopo che stanno rivoluzionando il discorso sul soggetto, sull'essere donna o uomo, etero, lesbiche, trans o gay.
Il ragionamento di de Beauvoir - che non dimentichiamo scrive Il secondo sesso nel '49 - non prescinde dai corpi o dalla sessualità. Uno dei primi capitoli è dedicato alla lettura critica di Freud. Ciò che contesta è che la donna è sempre e comunque "natura", schiacciata su una biologia che - come ci spiega oggi Judith Butler - è ben poco naturale. È lì lo strappo, l'irruzione della storia ma anche la costruzione di un orizzonte possibile di libertà. Donne lo si diventa come costrizione, condizionamento, ruoli, ma volendo anche come scelte, come spiazzamento, come ribaltamento. È la teoria sul gender come costrutto e come intreccio di identità, ma ancora di più sono le teorie e le pratiche queer che, senza cancellare la complessità della sessualità, dei processi di identificazione e subordinazione alla norma eterosessuale e patriarcale, si pongono il problema di reinventare il soggetto interrogandone desideri e bisogni.
Siamo andate troppo lontane da de Beauvoir? Sì. Ma non la abbiamo tradita. Andate a rileggere Il secondo sesso, ritroverete una complessità e una ricchezza di spunti che offrono ancora molti altri stimoli. Ma è forse un'altra la cosa più importante che resta pensando a lei. È la sua vita, la sua immagine di donna diversa, il suo invito alla lotta e al cambiamento. La sua laicità non piegata neanche davanti alla morte dell'uomo che ha amato di più...

«La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà...»

Non adoriamola come gli uomini di sinistra adorano Marx, non facciamone appunto una madre, non veneriamola come altri fanno con Sartre. Ma leggiamola, non dimentichiamola. Sarebbe una grave perdita per tutte noi.


Beatrice Busi

Una rilettura queer: il soggetto tra corpo e libertà

"Donna non si nasce, lo si diventa": l'intuizione della filosofa alla luce delle teorie femministe della postmodernità

Pour parler, più volte mi sono sentita dire «è la madre del della seconda ondata del femminismo». Anche se, nutrita di femminismi della terza ondata, Simone de Beauvoir non l'avevo letta davvero. Soprattutto mi era stata trasmessa da altre, con attorno quella magica aura impenetrabile. Ed è proprio per questo (per ripicca, forse?) che ho tardato a compiere il salto dalla passività della ricezione all'appropriazione, anche critica, del suo pensiero.
La mistica delle genealogie non mi è mai piaciuta, ma arriva un momento nel quale, se si è rifiutata la madre come fondamento dell'ordine simbolico, ci si ritrova a non godere più nemmeno nel farla a pezzi per cannibalizzarla.
Perchè, dunque, leggere e rileggere Simone de Beauvoir oggi? Da un lato, per un'esigenza teorico-politica. I tempi sono finalmente maturi per oltrepassare il binarismo nel quale a lungo sono rimaste impigliate le domande che de Beauvoir ha saputo porre e che costituiscono ancora la trama di tutte le teorie femministe del soggetto. Oggi, non basta più definire chi o che cos'è una donna, che cosa può fare un corpo o qual è la natura della differenza sessuale, semplicemente collocandoci da un lato o dall'altro delle opposizioni uguaglianza/differenza, sè/altro, identità/performance, determinismo biologico/costruzionismo o natura/cultura. Solo ora che siamo uscite sia dagli essenzialismi che dall'euforia post-identitaria, si può ripensare serenamente all'agency del soggetto femminista, si può rimaneggiare la questione dell'identità individuale e collettiva delle donne guardando alla costruzione di una nuova teoria dell'azione politica. Dall'altro, per un'esigenza di crescita, personale e politica. A un certo punto, pensare alla madre come una donna più diversa delle altre non serve più a se stesse.
Spesso, i femminismi venuti dopo, hanno criticato la contraddittorietà delle risposte di de Beauvoir, come se si trattasse di un limite. La contraddizione, invece, è preziosa, è proprio l'apertura dalla quale passare per entrare in un sistema teorico, è ciò che lo rende flessibile, adatto al presente e al futuro. E il pensiero di de Beauvoir non sfugge. In particolare, la filosofa politica Susan Hekman le rimprovera di aver affermato contemporaneamente due cose molto diverse riguardo ai corpi e all'identità. «La divisione dei sessi è un dato biologico, non un momento della storia umana», scriveva Beauvoir nel Secondo sesso . Proprio laddove dice che l'identità sessuale non viene semplicemente imposta dai vincoli sociali, bensì è anche il frutto di una scelta individuale («donna non si nasce, lo si diventa»). Da un lato, dunque, quello che Braidotti ha definito "razionalismo emancipatorio" e Butler "volontarismo sartriano", dall'altro quello che è stato letto come una concessione all'idea maschile della dominazione femminile radicata in una presunta naturalità. Ma, per vedere cosa c'è dietro l'apparente contraddittorietà, come spiega la filosofa olandese Karen Vintges, studiosa anche di Foucault, bisogna rileggere Il secondo sesso alla luce di ciò che lo ha preceduto, in particolare della riflessione etica all'interno della quale de Beauvoir costruisce la propria teoria del soggetto.
In La morale dell'ambiguità del 1948, vediamo un soggetto che non si muove a partire da regole e valori astratti e generali, bensì che radica la propria responsabilità nella materialità del proprio corpo e delle proprie relazioni. La coscienza è solo un momento della vita vissuta, è necessario invece recuperare il sé senziente dalla marginalizzazione etica nel quale è stato relegato. Non c'è un sé fisso dal quale partire e al quale ritornare, è l'arte di vivere che costituisce i soggetti attraverso una progettualità aperta e continua. Quello di de Beauvoir è un "soggetto situato", azzarda la filosofa femminista olandese Sonia Kruks, aggiungendo che «il meglio del "femminismo postmoderno" è una serie di glosse radicali all'ormai classico punto di partenza di Simone de Beauvoir: "Donna non si nasce, lo si diventa"».
Certamente è questa la mossa filosofica che la smarca dal compagno Sartre per il quale era la coscienza pura a costituire l'esistenza autenticamente ed eminentemente umana, mentre per lei era esattamente quel fondo di ambiguità, quell'elemento spurio costituito dal corpo a essere costitutivo. Ed è proprio questa mossa che, secondo Vingtes, rappresenta la contemporaneità del pensiero di de Beauvoir. Perché quella tra corpo biologico e soggettività è soprattutto una contraddizione reale, vivente, che forse, nell'epoca del biopotere, è diventata "La" contraddizione. Possiamo risolvere il paradosso di un corpo che parla e di una mente incarnata o, piuttosto, lo dobbiamo accettare come opaco fondamento del divenire della natura umana? Come scriveva de Beauvoir, il corpo non è una cosa, è «una situazione», è la «nostra presa sul mondo», è «il centro e la periferia dei nostri progetti». Allora, per essere più libere, non è meglio fare i conti con i vincoli che i corpi e i loro desideri impongono ai soggetti, piuttosto che fingere di potercene sbarazzare con un colpo di spazzola?

Federica Giardini

Differenza e uguaglianza: il confronto possibile


«Rispettare Simone de Beauvoir è proseguire l'opera teorica e pratica di giustizia sociale che ha condotto a modo suo, non è richiudere l'orizzonte di liberazione che ha aperto per molte donne, e uomini...». Sono parole scandite da Luce Irigaray in apertura a Io, tu, noi, raccolta di scritti della fine degli anni Ottanta, uscita in Italia nel 1990. L'iniziatrice del pensiero della differenza tra i sessi in Francia dedica pagine di pieno riconoscimento alla pensatrice dell'uguaglianza. Abituate come siamo, forse, a collocare una delle partizioni politiche e teoriche delle lotte femministe nell'opposizione tra uguaglianza e differenza, la presa di posizione di Irigaray è una mossa in contropiede. L'indicazione che ci viene data riguarda questioni sostanziali, politiche, sulla giustizia sociale e sulla liberazione di una parte dell'umanità. È una sottolineatura importante questa, che mette al riparo dal prevedibile gioco delle interpretazioni che si aprirà sui testi di de Beauvoir, perché sul terreno delle sole letture tutto può riconciliarsi o convivere con tutto. Per le pratiche del femminismo, dei femminismi, si sa invece che la politica non è confronto di opinioni, ma qualcosa di più materiale e consistente, che riguarda scelte di vita e le parole che le accompagnano.
Per Irigaray dunque, come per de Beauvoir, la giustizia sociale è legata alla questione del riconoscimento dei diritti ed è parte integrante del percorso di liberazione. L'una e l'altra offrono così una sponda per entrare nel dibattito recente che si è aperto in merito alla giustizia - si pensi al libro scritto da Nancy Fraser e Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? da poco tradotto in italiano (Meltemi, pp. 333, euro 24) - se vada cioè considerata secondo i criteri del riconoscimento di diritti o di una più materialistica redistribuzione dei beni. È vero, de Beauvoir e Irigaray qui si discostano: mentre per la prima i diritti sono strumento di uscita da una generale condizione di inferiorità, che accomuna le donne a tutti i gruppi oppressi (ricorrenti sono le analogie con i movimenti dei neri nordamericani, a cui si aggiungono gli ebrei, ad esempio), la seconda ha presente una diversa generazione dei diritti, quella che si diversifica, tiene conto delle differenze, per prima quella tra i sessi. Ma entrambe aggiungono un elemento non da poco conto, quello della libertà che considerano non uno stato, ma un processo - di liberazione, per l' appunto - un divenire. Troppo frettolosamente assimilata a una posizione emancipazionista - la libertà femminile consisterebbe nel godere degli stessi diritti civili del cittadino della modernità occidentale, quello della Dichiarazione del 1789 che oggi ritrova i suoi fasti come modello di democrazia esportabile in ogni angolo del mondo e di cui beneficerebbero innanzitutto le donne oppresse da sistemi incivili - de Beauvoir nelle ultime pagine del Secondo sesso consegna risorse politiche ben più avanzate. Afferma infatti che le libertà civili rimangono astratte se non sono accompagnate da un'autonomia economica e sociale, certo, ma va ben oltre: «Non bisogna credere che la semplice sovrapposizione del diritto di voto e di un mestiere sia una perfetta liberazione» (rimando alla lettura delle sue considerazioni ulteriori sulla "complessità del lavoro femminile" e sulla dissociazione che compie tra lavoro e libertà, sono pagine che, rilette oggi all'interno del dibattito sul lavoro e dell'emancipazione delle donne in altre parti del mondo, offrono piste dirimenti).
Riconoscimento dei diritti e divenire della libertà sono due tracciati di azione politica che, seppure legati, non coincidono. Tra i due si apre infatti uno spazio che è altrettanto consistente, quello di una produzione, meglio di una creazione, di cultura politica, di una cultura delle relazioni, della convivenza. È ancora de Beauvoir a invitare le donne a farsi creatrici di mondo, di cultura e a farlo lei stessa in prima persona quando attinge anche al registro narrativo - sono indimenticabili i personaggi femminili dei suoi romanzi, da Una donna spezzata alle cinque figure di Lo spirituale un tempo - ricostruendo "il reale mediante le parole", attraverso la libertà e la verità che la narrazione permette di tenere, accompagnando la realtà, l'esperienza, con tutte le ambiguità e gli intralci che presenta rispetto agli assunti solo teorici o ideologicamente corretti. Ed è su questo terreno che il pensiero della differenza ha continuato a lavorare, quella "politica del simbolico", secondo la formulazione che il pensiero della differenza ha preso in Italia per parte della Libreria delle donne di Milano, inaugurata da Carla Lonzi. In prima battuta però il lavoro politico di Lonzi sottolinea una distanza dal percorso di de Beauvoir, innanzitutto nella dissociazione che compie tra libertà e riconoscimento, tanto più da quello che avviene attraverso il diritto. Sputiamo su Hegel in questo caso non significa solo la presa di distanza dai modelli di lotta della tradizione maschile, significa soprattutto abbandonare quella relazione - che invece Irigaray mantiene, anche se radicalmente riformulata - tra uomo e donna, tra Soggetto e Altro, tra padrone e servo, su cui si fonda tutto il Secondo sesso . Guardando oltre però l'opera maggiore di de Beauvoir, si ritrova un filo che accomuna nella radicalità le due pensatrici: per l'una come per l'altra va compiuta una rottura dell'asservimento femminile nelle sue forme più insidiose, quello della «complicità», della «malafede», che riduce l'ambizione di una donna «a essere compagna di un uomo di genio», anziché pretenderlo per sé. Là dove genio va ritradotto come pretesa di libertà e di pensiero sul mondo intero: «Tra lei e l'universo non c'è più bisogno di un uomo mediatore» sono parole, non di Lonzi, ma della stessa de Beauvoir alla fine del Secondo sesso ... . È su questo lavoro di creazione di cultura, creazione che è politica perché luogo stesso della liberazione dall'oppressione, dall'assimilazione, che Irigaray insiste come su di una tappa necessaria, che non può essere saltata, contrariamente a quel «femminismo che rischia di lavorare per la distruzione delle donne». Quelle righe sono forse già una replica alla posizione di Judith Butler che, nel 1986, leggeva de Beauvoir nel verso di una separazione drastica tra il sesso come destino biologico e il genere come produzione culturalmente storicizzabile, tutti e due comunque strumenti di oppressione e che andavano superati abbandonando qualsiasi determinazione biologica o storica che fosse. La partita è ancora aperta per decidere se, politicamente, qualsiasi riferimento alla dimensione storica intacchi il divenire del presente, o se la creazione di genealogie femminili sia parte integrante di questo percorso di libertà.

Maria Vittoria Vittori

Invecchiare? Una rivoluzione

Il tempo che passa nel sentire di una protagonista del suo tempo. Una riflessione che ci riguarda

Chiudendo il terzo volume di memorie autobiografiche La forza delle cose che racconta gli anni dalla Liberazione al 1963, Simone de Beauvoir scriveva: «Quel che di più importante, di più irreparabile mi è successo dal 1944, è che sono invecchiata. Questo significa molte cose. E prima di tutto che il mondo intorno a me è cambiato: si è rimpicciolito e assottigliato». Intorno ai cinquant'anni Simone scopre in sé il primo annuncio di vecchiaia, che coglie sempre di sorpresa. Una donna come lei che per i suoi libri ha sempre tratto linfa dagli stupori e dalle impennate, dalle scelte e dagli errori della sua vita, non può non interrogarsi anche su questa nuova fase che le si prospetta. Inizia proprio dalle pagine conclusive della Forza delle cose il suo apprendistato alla vecchiaia.
Così nel romanzo breve Le belle immagini (1966) mette in scena una sua coetanea, Dominique: ma questa donna raffinata, socialmente realizzata e ancora bella è vista attraverso lo sguardo di sua figlia Laurence che, pur educata sul modello materno, sta elaborando una nuova consapevolezza. Laurence avrebbe tutto per essere felice, ma tutto - lavoro, marito, casa, figlie - le sembra riducibile a una sequenza di immagini, le stesse che lei fabbrica nel suo lavoro di pubblicitaria. Vale la pena arrivare alla stagione della piena maturità senza un'autentica consapevolezza di sé? Domanda che si pone, con diversa intensità, la protagonista del racconto L'età della discrezione (in Una donna spezzata 1967). Qualcosa di Simone è sicuramente filtrato nell'io narrante, una donna che sta bene nella sua pelle e nel suo presente, insieme ad André, compagno di lunga data, a un lavoro che l'appaga e a un figlio su cui ha sempre esercitato una sorta di fascinazione intellettuale. Ma improvvisamente la fisionomia del suo mondo si sgretola: il figlio si distacca bruscamente e lei lo vive come un trauma; il marito le appare di colpo estraneo; il suo ultimo libro è deludente. Dunque la vecchiaia non è soltanto pienezza di relazioni e di passioni lungamente coltivate, come credeva; ma può essere, è anche disillusione: tanto più tossica proprio in quanto non c'è ampiezza di futuro a prospettare un risarcimento.
E nemmeno ci si può rifugiare nel passato, perché si è sbiadito e spopolato: il deserto del passato, come lo ha chiamato Chauteaubriand. E qui è interessante notare come la scrittrice faccia riferimento a quei nomi che diventeranno presenze significative nel saggio sulla vecchiaia a cui evidentemente sta già lavorando: troviamo infatti anche l'amara constatazione di Sainte Beuve: «In certi punti ci induriamo, in altri fracidiamo, non maturiamo mai». Che fare? La disillusione, la noia sono compagne mortali. Ma ecco che inaspettatamente compare un deus ex machina , anzi una dea ex machina : Manette, l'ottantacinquenne madre di Andrè. Una donna intelligente, vivace, ancora animata dall'esigenza di capire e di intervenire. Guardandola, la protagonista è indotta a interrogarsi sul valore e sulla durata delle passioni, e delle parole che quelle passioni possono esprimere ogni volta con rinnovata freschezza. Dunque può annidarsi proprio qui la possibilità di rinnovare il patto di fiducia con se stessi e con la vita.
Tre anni dopo la pubblicazione di questo racconto esce La vieillesse (La terza età, Einaudi 1971). La scrittrice ha sessantadue anni. È con quell'intima convinzione nata da un sentire del corpo che ammette: «Ci rifiutiamo di riconoscerci nel vecchio che noi stessi saremo»; è con quell'intima passione nata dall'impegno militante di una vita che dichiara: «Smettiamola di barare; nell'avvenire che ci aspetta è in gioco il senso della nostra vita; non sappiamo chi siamo, se ignoriamo chi saremo: dobbiamo riconoscerci in quel vecchio, in quella vecchia; è necessario, se vogliamo assumere nella sua totalità la nostra condizione umana». L'ultima sfida è diretta verso i tabù e gli interdetti che circondano la vecchiaia. È proprio in questa età, infatti, che vengono alla luce in modo crudo quanto irreparabile i danni che le persone subiscono nel corso della loro esistenza: «Se il pensionato è disperato per il non-senso della sua vita presente, ciò dipende dal fatto che in ogni epoca il senso della sua esistenza gli è stato sottratto». E il motivo per cui si seppellisce la questione sotto un grande silenzio è dovuto al fatto innegabile che «la vecchiaia denuncia il fallimento di tutta la nostra civiltà».
Allo stesso modo di quando scriveva Il secondo sesso, Simone de Beauvoir ha ben chiara la percezione di essere una privilegiata per cultura, condizione sociale, interessi e passioni. Quello che reclama con forza è che le passioni, gli interessi, gli impegni, la possibilità di una autentica realizzazione di se stessi siano accessibili a tutti, indipendentemente dal genere, dalla condizione sociale e dall'età. Perché poi, procedendo nella vita, questi fattori vengono a saldarsi in un abbraccio che può rivelarsi mortale. Non vive di sola teoria, Simone e sa benissimo quanto faccia male constatare di aver perso l'aspetto di un tempo: ammette di capire chi, come la contessa Castiglione, ha rotto tutti gli specchi. Sa benissimo, per esperienza diretta, quanto sia deprimente accorgersi che il paesaggio intellettuale, sentimentale e sociale conosciuto si va spopolando e quanto sia impegnativo mantenere vivo il desiderio di interrogarsi, di capire e d'intervenire. Ma per chi è vissuto di tensione etica e culturale, di passione civile, questa può essere l'ultima barricata. O come dice con un guizzo di autoironia Lidia Ravera nel libro Né giovani né vecchi (2000) «la penultima. Oppure la prima buona azione».
Anche in questo territorio costellato di trappole, Simone de Beauvoir ha tracciato una strada, offrendo preziosi spunti di riflessione e di approfondimento alle donne che sono venute dopo. Come a Luisa Passerini, nata nel 1941, autrice di La fontana della giovinezza (1990) intenso itinerario in quella misconosciuta e insidiosa terra di frontiera tra la maturità e la vecchiaia, e a Lidia Ravera nata nel 1950, che ha fatto delle stagioni e dei passaggi del tempo la struttura portante della sua narrativa. Non a caso, nella biblioteca dell'autobiografica protagonista della Fontana della giovinezza , accanto ad una raccolta di articoli di Natalia Ginzburg che contiene un saggio sulla vecchiaia, c'è anche il libro di Simone de Beauvoir. E se la scrittrice francese e Ginzburg concordano nell'ammettere la particolare difficoltà di riconoscersi vecchio o vecchia per chi è vissuto di passioni politiche - la loro è la generazione dell'antifascismo e della Liberazione - dal canto suo Luisa Passerini, giovane nel 1968, dichiara: «Salire alla ribalta e rompere la barriera tra il pubblico e il privato come avevano fatto gli studenti e le donne, aveva fermato il tempo». È da questa prospettiva di lettura generazionale che prende forma l'embrione di un progetto: lavorare al proprio invecchiamento e all'invecchiamento di tutte.
In che modo può rimodellarsi la percezione di questa età? Solo qualche esempio rintracciabile nei libri di queste scrittrici : rimanendo fedeli al nuovo e alle sue possibilità di apertura come suggerisce Luisa Passerini (in consonanza con la vasta gamma di possibilità cui fa riferimento Simone nelle pagine finali del suo saggio); radicandosi nella pienezza del presente, secondo Gina Lagorio; lavorando sull'età e sulla sua rappresentazione come sostiene Lidia Ravera. Tenendo presente, sempre, questa straordinaria riflessione che, già all'inizio degli anni '70, Goliarda Sapienza attribuiva alla sua Modesta, protagonista dell'Arte della gioia : «Pensa, Modesta, forse invecchiare diversamente non è che un ulteriore atto di rivoluzione».

Valentina Scopone, Angelita Castellani e Donatella Coppola *

Simone per noi, che eravamo in piazza il 24 novembre

Un omaggio non ufficiale per rilanciare quello che de Beauvoir ci ha insegnato: il femminismo è tutt'altro che superato

Forse sarebbe stato più semplice, nel centenario dalla sua nascita, parlare di Simone de Beauvoir e dell'indiscutibile centralità che ha avuto nella riflessione sulla condizione della donna e dell'importanza del suo pensiero nel nostro percorso politico e personale. Tuttavia non amiamo l'ufficialità delle commemorazioni ed è per questo che abbiamo pensato di farle omaggio in un altro modo, raccontando del qui ed ora e di come siano ancora attuali le sue parole pronunciate in una conferenza del 1966 in Giappone: «Il femminismo è tutt'altro che superato, e che bisogna anzi mantenerlo vivo; opporvisi, negarlo non significa superare qualcosa, significa regredire» (Quando tutte le donne del mondo... , p. 76).
Ha ancora senso dirsi femministe oggi? Le questioni affrontate negli anni '50 da Simone de Beauvoir (dal lavoro alla famiglia, dalla sessualità alla maternità) si possono considerare risolte, pacificate? È pensabile nel qui ed ora un'azione collettiva di donne quando la riflessione teorica tende a moltiplicare le identità oppresse? Crediamo di sì.
Crediamo di sì quando assistiamo agli attacchi alla 194 da parte di gerarchie ecclesiastiche e governative; crediamo di sì quando l'unico sistema di welfare che c'è offerto in Italia è la famiglia; crediamo di sì quando le istituzioni legiferano sul corpo delle donne approvando la legge quaranta; crediamo di sì per la diffusa precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita di tutte/i; crediamo di sì quando il nostro paese ha difficoltà ad approvare una legge sulle unioni civili in nome di un'unica famiglia legittimata, eterosessuale e patriarcale, conservativa del ruolo tradizionale della donna, solo moglie e soprattutto madre; crediamo di sì quando un governo che si professa di sinistra risponde a un episodio di violenza su una donna convocando un Consiglio dei Ministri straordinario che dà il via, attraverso un decreto votato da tutta la maggioranza compresa Rifondazione comunista, a un'operazione di polizia finalizzata al rimpatrio immediato di cittadini comunitari indesiderabili per la stabilità dell'ordine pubblico; crediamo di sì quando tutte le statistiche denunciano come prima causa di morte delle donne la violenza maschile all'interno delle mura domestiche.
Proprio grazie agli strumenti di analisi acquisiti attraverso la riflessione femminista è stato possibile tradurre in modo chiaro quello che effettivamente si nasconde dietro la retorica "del problema della violenza contro le donne": non di una generica violenza si deve discutere, quasi fosse senza colpe e responsabili, ma di un problema che origina in un sistema fondato sull'etero sessismo, in cui i termini maschile/femminile non sono posti sullo stesso piano, bensì strutturati secondo un ordine gerarchico di subordinazione ed esclusione. La condanna della donna all'oppressione sembra dunque quasi ineluttabile, poiché da sempre l'ordine patriarcale lavora per naturalizzare sia la contrapposizione di un genere all'altro sia il ruolo storico e socioeconomico che la donna assume all'interno di tale dicotomia.
Esplode così l'urgenza di un'azione collettiva, che ha portato femministe e lesbiche a costruire assieme, nonostante le molteplici differenze, una grande manifestazione che ha segnato il ritorno in piazza delle donne sul tema della violenza. Energia e lavoro collettivo che si sono concretizzati nel corteo nazionale del 24 novembre scorso.
Da subito abbiamo percepito la preziosa opportunità e ci siamo sentite genuinamente coinvolte in qualcosa che finalmente andava oltre la passerella di volti noti del femminismo e configurava la possibilità di un nuovo protagonismo per le giovani donne fino a oggi impensabile.
Questo è uno dei dati più interessanti ed entusiasmanti del percorso: la ritrovata centralità delle strutture di giovani donne che si conquistano un ruolo di primo piano nella determinazione dei passaggi, impegnandosi attivamente sia nell'elaborazione dei contenuti che nella costruzione pratica dell'iniziativa.
Durante le numerose assemblee nazionali, la discussione si concentra sui contenuti da veicolare attraverso la manifestazione, viene riconosciuto all'unanimità come la famiglia patriarcale ed eterosessista rappresenti il nucleo elementare in cui si sedimentano i rapporti di potere e di oppressione tra i generi e questa tesi diventa il baricentro di tutta l'articolazione del percorso.
Partendo quindi dal presupposto che il problema della violenza sul corpo delle donne non è da ricercarsi nelle strade ad opera di sconosciuti, emarginati, migranti, l'appello ha espresso con fermezza il rifiuto di una legislazione di impronta securitaria e si è contrapposto in maniera esplicita all'inserimento nel pacchetto sicurezza di provvedimenti in materia di violenza di genere.
La radicalità dei contenuti che hanno sostanziato l'appello è esplosa il giorno della manifestazione quando in 150.000, femministe e lesbiche di vecchie e nuovissime generazioni sono scese in piazza per denunciare sì la violenza, ma anche la necessità di rivoluzionare i rapporti tra i sessi e di rovesciare i ruoli nella società e nella cultura. Donne che hanno determinato il loro protagonismo anche attraverso la scelta di scendere in piazza in un corteo separato, perché convinte della necessità di agire una posizione politicamente conflittuale che rendesse ancora più evidente il nodo problematico individuato come insito nella relazione uomo-donna. Inoltre, per noi, questa scelta è stata coerente con la nostra elaborazione perché ha rappresentato un'articolazione della pratica del non misto, che fino ad oggi abbiamo utilizzato nel nostro spazio separato di discussione, e che il 24 novembre ha fatto irruzione nello spazio pubblico.
Quest'uso consapevolmente strategico del non misto nasce dalla convinzione che il risultato dell'elaborazione autonoma delle donne sia indispensabile per l'interazione con gli altri settori sociali, e che un avanzamento reale della società non avverrà se non si supera la natura patriarcale dei rapporti tra i generi e che la trasformazione complessiva della società avviene solo se la battaglia di tutti/e contiene da subito in sé i germi del femminismo. In quest'affermazione ci sentiamo quanto mai in sintonia con le tesi di de Beauvoir che nell' intervista Il Secondo sesso, venticinque anni dopo sosteneva: «Il socialismo, il vero socialismo, instaura la vera uguaglianza economica per tutti, allo stesso modo il femminismo ha imparato che bisogna instaurare l'uguaglianza dei sessi togliendo il potere alla classe dirigente all'interno del movimento, agli uomini. In altre parole, all'interno della lotta di classe, le donne hanno capito che la lotta di classe non eliminava la lotta dei sessi» (Quando tutte le donne del mondo... p.150). Crediamo infatti che la liberazione delle donne non può essere compiuta senza la nostra reale presenza all'interno dei processi di cambiamento: dunque non è sufficiente creare alleanze strategiche e temporanee con gli altri settori del movimento ma rivendicare la necessità di strutturare, declinare e orientare le lotte partendo dal nostro angolo di visuale e dalla valorizzazione dei nostri obiettivi.
Il 24 novembre le donne sono state artefici dell'apertura di uno spazio politico potenzialmente straordinario, la priorità ora è fare in modo che quel lavoro collettivo non si cristallizzi in quell'unica giornata di lotta, ma che diventi il motore per l'elaborazione di obiettivi concreti e per l'organizzazione di tutte coloro che di quella giornata sono state le protagoniste.
«Il femminismo è l'aspirazione permanente e tenace delle donne a non essere il secondo sesso» (Lidia Cirillo, Lettere alle romane, p.10): per questo vi aspettiamo tutte il 12 gennaio, a Roma, alla casa internazionale delle donne per un'assemblea in cui costruire insieme le prospettive.

*La mela di Eva


da QUEER, inserto domenicale di Liberazione del 6/1/2008