Anna Bravo

Donne, guerra, memoria

2. Con le armi e senza le armi

La seconda guerra mondiale è un laboratorio di sentimenti e comportamenti contrastanti. Forse è particolarmente vero per l’Italia, dove il rovesciamento delle alleanze e la guerra civile investono tradizioni culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando uno scenario che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli uomini, che fra il ’43 e il ’45 danno vita a due eserciti, uno interamente l’altro in parte volontario, e nello stesso tempo ai più grandi fenomeni di sbandamento e diserzione della storia italiana. Ma tocca soprattutto le donne.

Nel ’40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o laica, prende posizione contro la guerra. L’8 settembre ’43, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel paese occupato dai tedeschi, a soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono soprattutto donne: per lo più donne cosiddette "comuni", che agiscono senza il sostegno di ideologie in senso stretto politiche, che non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero né probabilmente vorrebbero usarle. Ci si aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente, e non di rado con successo. "Pareva - scrive Luigi Meneghello - che volessero coprirci con le sottane" (17).

Nel frattempo altre entrano nell’esercito sui generis della resistenza, e sul fronte opposto nascono le ausiliarie di Salò, un corpo di volontarie militarizzate che non portano le armi.

Agli inizi del ’45, quando il governo Bonomi pretende di rendere operativo il reclutamento degli uomini dai venti ai trent’anni nel nuovo esercito da affiancare agli alleati, ancora le donne insieme con gli studenti tornano in piazza contro la guerra. È la ri volta dei "non si parte", che si estende in tutto il centro-sud con scontri a fuoco, morti e feriti. Nella città di Ragusa a prendere l’iniziativa è Maria Occhipinti, ventitre anni, incinta di cinque mesi, di idee comuniste, che il 5 gennaio si stende davanti a un camion carico di renitenti rastrellati, costringendo i carabinieri a rilasciarli. Scontera’ per questo carcere e confino (18).

Il senso comune dei contemporanei guarda senza stupore alle azioni di sostegno ai renitenti: cosa può fare una donna di più naturale che opporsi a chi le vuole portare via il marito, il figlio, e per estensione gli altri uomini? Cosa può importarle che l’esercito in questione sia fascista o antifascista?

Colpiscono di più le partigiane e le ausiliarie, donne che si "snaturano" entrando negli spazi della politica e della guerra, eccezioni che rompono la norma e nello stesso tempo la confermano.

Riprodurre nella ricerca gli orientamenti di allora identificando le "donne comuni" con la ripetitivita’ e la condizione di vittima, e le partigiane e le ausiliarie con l’innovazione, il protagonismo, l’avventura, sarebbe una fatica inutile, oltre che una doppia ingiustizia. Peggio ancora ragionare in termini di "pacifiche" e "guerriere", "impolitiche" e "politiche". Con il nostro lavoro vorremmo contribuire a renderlo chiaro.

Questo libro racconta storie di donne a Torino e nel Piemonte del ’40-’45; qualcuna di loro era partigiana; alcune sono state perseguitate e deportate perche’ ebree, altre per motivi politici; la maggior parte non ha avuto particolari ruoli politici o militari, e secondo un vecchio stereotipo storiografico rientrerebbe nella "zona grigia" di quelle e quelli che non hanno scelto.

Racconta anche di donne rinchiuse in ospedale psichiatrico, di donne condannate per aborto: nonostante lo sfascio istituzionale, l’ordinefa scista non dimentica i comportamenti femminili.

Di molte abbiamo sollecitato il racconto sotto forma di storia di vita o di tranche autobiografica e qualcuna ci ha offerto anche lettere, documenti personali e scritti di memoria; di altre abbiamo trovato traccia in carte d’archivio. Su alcune esperienze, per esempio la prostituzione, c’è ancora una tale autocensura che è stato impossibile ottenere anche una sola narrazione diretta. Così sulle condanne per aborto e per reati comuni. Difficoltà di natura diversa hanno accompagnato la ricerca di donne ex ausiliarie di Salò, e solo in fase di conclusione siamo arrivate a una presa di contatto.

Da questo lavoro è nata una mole di documenti e testimonianze inedite (19) che ci sembra importante per capire quel periodo. Ci chiediamo allora quale rapporto si possa costruire tra le riflessioni in atto su resistenza e guerra e quelle sull’opera delle donne nelle sue molte forme.

Un punto di partenza può essere il vocabolario della storia, che per indicare l’azione delle partigiane ha fatto ricorso per decenni a due termini, contributo e partecipazione. Sono concetti deboli rispetto alla ricchezza dell’esperienza, ma indicatori forti degli orientamenti storiografici. Contribuire o partecipare non equivalgono a fare e a far parte, anzi marcano il divario fra appartenenza e convergenza momentanea, fra l’azione creativa e il suo contorno o supporto, che restano vaghi. Tanto vaghi che le medesime parole sono state usate estensivamente per abbracciare l’insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla resistenza.

Forse è così, le donne contribuiscono e partecipano, non fondano. Ma dipende in primo luogo dai confini e dai contenuti che si danno al termine resistenza.

Nel campo d’azione sia delle donne "comuni", sia delle partigiane e delle militanti dei Gruppi di difesa della donna, ci sono molti comportamenti tipici della resistenza civile, il concetto messo a punto dallo storico francese Jacques Semelin (20) per indicare una pratica di lotta caratterizzata nei suoi soggetti (appunto i civili), nei suoi mezzi (non le armi, ma strumenti come il coraggio morale, la duttilità, la capacità di manipolare i rapporti, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico), nei suoi obiettivi. Questi possono essere tanto l’appoggio alla resistenza armata, quanto finalità autonome che esprimono il rifiuto in prima persona della società contro la pretesa nazista di dominio sulla sua vita e sulle sue strutture. È resistenza civile quando si sciopera o si manifesta per migliori condizioni materiali, per ostacolare lo sfruttamento delle risorse locali da parte degli occupanti, per testimoniare la propria identità nazionale; quando si agisce per isolare moralmente nazisti e collaborazionisti; quando si tenta di mantenere una certa indipendenza di gruppi sociali e istituzioni (21), di impedire la distruzione di beni essenziali, di contenere la violenza magari offrendosi come intermediari; quando ci si fa carico di qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra. A distinguere queste e altre pratiche dalle strategie di emergenza messe in atto soprattutto dalle donne per far continuare la vita quotidiana, sono l’intenzione e la funzione antinazista, anche se fra le due aree di comportamenti possono esserci affinita’ e sovrapposizioni.

A volte collettivi, più spesso individuali, frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte sono per lo piu’ non violente, ma non sempre: per l’Italia, ricordiamo gli assalti a magazzini viveri e a treni carichi di derrate o combustibili - l’altra guerra, la definisce Miriam Mafai (22) - e non da ultimo le violenze collettive, spesso a! mplifica te nell’immaginario sociale, contro esponenti e favoreggiatori di Salò. Anche l’assenza di armi non e’ sempre una scelta, in certi casi è semplicemente impossibile procurarsele.

Per molti protagonisti/e valgono ragioni politiche in senso stretto. Per moltissimi/e altri si tratta piuttosto di compassione verso chi è in pericolo, stanchezza della guerra, spirito di ribellione per il continuo peggioramento delle condizioni materiali; a volte di orgoglio nazionale o dignità del proprio mestiere. Ma nessuna di queste spinte basterebbe, senza un preventivo disconoscimento della legalità fascista e senza l’identificazione, per quanto embrionale e sotterranea, di una legittimità altra.
È forse il principale punto di convergenza fra protagonisti/e così eterogenei che a accomunarli è quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso paese. Ma e’ un punto forte: gia’ negli scioperi del marzo ’43, la scintilla era nata dal rifiuto della legalità vigente, che pretendeva di imporre l’unione sacra in nome della patria, e si fondava su un’altra idea di legittimità, secondo la quale è ’ immorale far pagare alle popolazioni prezzi cosi’ alti in termini di fame, freddo, fatica, rischio.

Nella resistenza civile italiana, la mobilitazione dell’8 settembre spicca come un momento forte, esemplarmente pericoloso (23), con caratteristiche di massa e esteso a tutto il territorio occupato. Alle sue radici, non tanto una pietà indifferenziata, quanto la disponibilità femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si rivolge in quanto tale alla donna come a una figura forte e protettrice, vale a dire a una madre. Per questo parleremmo qui di maternage di massa (24) come forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile.

Nei venti mesi! successivi, si contano piccoli e grandi fallimenti, piccoli e grandi risultati. Si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio ’44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri (25). Si strappano miglioramenti delle condizioni di vita. Si delegittimano le istituzioni di Salò. Si salvano persone, come fanno i contadini toscani che ospitano per mesi i prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizié (26).

Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti, e che ha alti livelli di rischio, dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salò del 9 ottobre 1943, dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Del resto, nell’ordine senza diritto imposto dall’occupazione, basta un rifiuto occasionale di obbedienza a provocare conseguenze gravi. L’impegno nella resistenza civile puo’ contare e costare quanto quello nella resistenza armata.

Partiti, Cln e forze partigiane guardano con grande attenzione agli orientamenti popolari. È così in tutta Europa, dove già alla vigilia dell’occupazione cominciano a circolare testi che suggeriscono regole di condotta nei confronti dei tedeschi. In qualche caso sono opera di ignoti o di militanti isolati, in altri vengono da organizzazioni della resistenza. I Dieci Comandamenti di un Danese propongono la linea della "spalla fredda", che sollecita a rifiutarsi di andare a lavorare in Germania, a sabotare macchinari e produzione, a proteggere chiunque sia ricercato, a trattare "i traditori secondo quel che si meritano". In Italia nel dicembre 1943 un opuscolo del partito d’azione chiede ai dipendenti pubblici rimasti in servizio di ostacolare con ogni mezzo il funzionamento dell’amministrazione fascista (27).

Al di la della loro ricaduta operativa, materiali come questi contribuiscono a mettere in luce una delle caratteristiche piu’ interessanti della resistenza civile: il suo essere intessuta di iniziative ora solitarie ora di gruppo ora di massa, e nutrita sia di elementi di organizzazione politica sia di "spontaneità’", o, più precisamente, di forme diverse di concertazione fondate su rapporti di paese, di quartiere, di caseggiato, su reti parentali, di colleganza, di amicizia. In Italia, dove il fascismo ha frantumato l’opposizione e infiltrato le strutture sociali e dove i già deboli sentimenti civici sono sbriciolati, la funzione dei reticoli informali e’ dominante.

Ma nelle rappresentazioni ufficiali e nell’immaginario d’epoca, resistente è chi ha combattuto in montagna, e nei giorni della liberazione, ha sfilato nelle città incarnando anche visivamente l’irrompere del nuovo. In seconda istanza viene l’esponente dei partiti del Cln. Figure inermi e debolmente organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo, e i criteri per l’attribuzione delle qualifiche partigiane rispecchiano questa gerarchia. In Italia - stabilisce il decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945 - è dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata "regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della libertà", e ha preso parte a almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A chi è stato in carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene riconosciuta solo se la prigionia ha oltrepassato i tre mesi! ; almeno sei sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche. A chi, dall’esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente rilevanti viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito. Parametri simili vigono negli altri paesi europei, mentre solo il Belgio introduce per pochissimi casi lo statuto di resistente civile.

Con questa consacrazione dell’iniziativa in armi e del legame politico - di partito, di gruppo, di organismo di massa - si sancisce una strettoia che penalizza molte forme di opposizione e moltissimi uomini e donne, comprese le partigiane, che in vari casi non sono state inserite negli organici, e le miltanti dei Gruppi di Difesa della donna.

Partigiana deportata a Ravensbrueck e coautrice di un libro di memoria e di analisi sulla prigionia femminile (28), Lidia Beccaria Rolfi ricorda l’atteggiamento con cui i compagni la accolgono al suo ritorno dal lager: "Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l’atto eroico: ’... però noi!’. I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi eravamo prigionieri..." (29). Dove l’ironia prende di mira, insieme all’autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in armi (30).

È una critica che va alle radici, e non è un caso che a farla sia una donna. Nella resistenza e nello Stato che ne nasce, la spinta al rinnovamento tocca aspetti decisivi dell’assetto politico e istituzionale. Ma resta saldo, sul piano simbolico se non a livello giuridico, uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli inermi per necessità o per scelta figure minori, cittadini in seconda. È il modello consegnato alla modernita’ dalla rivoluzione francese e dalle sue! leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/Stato (31).

All’attualizzazione di quel primato contribuisce un intarsio di modelli irriducibile a una posizione politica o di partito: dalla tradizione marxista di appoggio alle guerre di liberazione alla figura del ribelle risorgimentale, dalla memoria del combattente di Spagna al sogno del proletario armato come avanguardia del movimento patriottico. A imporlo e a farlo apparire naturale è la stessa realtà: quella di resistenza è una guerra. Che la guerra non si combatta solo con le armi e che la politica non sia solo quella organizzata, è un’idea lontana dall’Italia di allora. Per le donne, si aggiunge il peso delle costruzioni simboliche sul femminile da cui, a dispetto dei suoi sogni di cambiamento, il movimento resistenziale non è affatto immune. Perdura l’ideologia dell’inconciliabilita’ fra donne e politica, in omaggio alla quale azioni simili hanno uno statuto diverso a seconda di chi le compie: di una donna che cucina per i partigiani, cura i feriti o segnala la presenza di tedeschi, si dice che da un aiuto; dell’addetto alla sussistenza di una formazione, del cuoco, dell’infermiere, dell’informatore, si dice che sono partigiani. Lo stesso maternage dell’8 settembre, che salva fra l’altro la "materia prima" della resistenza armata, viene dato quasi per scontato: le donne avrebbero agito come madri e spose, ed e’ come madri e spose che si cerca di guadagnarle alla causa - e che nello stesso tempo se ne diffida per il loro "egoismo" familistico.

Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla "naturale" divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di rilievo in qualcuno dei territori provvisoriamente liberati dai partigiani, è un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l’elezione degli organismi di autogoverno.

Perdura - ed e’ stupefacente se si pensa ai pericoli per i civili, alla fame, all’imprevedibilita’ del domani - l’assimilazione fra vita quotidiana e routine, con quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassismo. Se la Chiesa rimprovera alle donne di sfuggire la domesticità con il pretesto della guerra e di non saper più educare cristianamente le figlie, in una lettera della XL brigata Matteotti (32) si arriva a invitare le compagne a impegnarsi per procurare quanto necessario alla formazione, "abbandonando la vita metodica e casalinga" (sic).

Nonostante il coraggio con cui una parte della dirigenza partigiana stigmatizza i pregiudizi maschili, perdura anche l’ideologia dell’incompatibilità fra donne e armi, mentre in banda la divisione dei compiti si modella sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. È così in tutta la resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva al grottesco: una donna italiana si vede attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano che lei stessa aveva messo a capo di una formazione quando esercitava in via provvisoria il comando della piazza di Torino (33).

Lo stereotipo forse più imbarazzante per la sensibilità dell’oggi è l’associazione tra femminilità e impurità, contaminazione, disordine sessuale, che nella resistenza solo piccole minoranze si propongono di smontare. Mentre i rapporti di genere re! stano as sociati al privato, e il privato viene temuto come luogo del cedimento e della perdizione (34), si esaltano madri e sorelle putative, si guarda con diffidenza alla femminilità di ogni altra, comprese le partigiane. Un caso limite - rimasto isolato, ma inizialmente proposto a modello dal comando generale del Corpo volontari della libertà - è quello della piemontese XIX brigata Garibaldi, dove le 38 donne del distaccamento femminile non solo lavorano di cucito al chiuso sotto il controllo di un’anziana, non solo sono diffidate dall’avere rapporti con i civili, ma vengono sottoposte a visita medica settimanale per evitare casi "di malattie più o meno contagiose" (35). La partigiana ideale è la protagonista dell’Agnese va a morire (36), il romanzo modello sulla resistenza femminile: informe, materna, in età non sospetta.

Le altre, come è risaputo, inquietano. Giovani, uscite non episodicamente dal privato e mischiate ai maschi nelle formazioni, sfidano troppe costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e uomini devono avere spazi separati; e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo antipartigiano che, in ossequio alla mentalità diffusa, vengono non di rado messe ai margini a emergenza finita. Che il "racconto" della resistenza come nuova epopea nazionale nasca su questa rimozione del femminile non ha mai occupato i pensieri degli storici.

Eppure affrontare quel vuoto aiuterebe a capire da dove veniamo, in particolare per quanto riguarda modelli e politiche di genere, su cui forse non esiste un rivelatore potente quanto il tempo della guerra. Basta pensare, per esempio, all’impegno di tanti dirigenti politici e militari italiani nell’evitare un’immagine promiscua della resistenza. Per lo più lo si è letto come un adeguamento all’arretratezza sociale e culturale del paese e un residuo interno all’orizzonte nord-occidentale, come se l’Italia non fosse invece fortemente legata alla tradizione del bacino mediterraneo. Senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci separano dai paesi della riva sud, sarebbe utile una riflessione centrata sia sulla pretesa delle religioni a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la morale privata, sia sul riconoscimento che le forze politiche sono costrette, avvezze, spesso interessate, a dare a quella intromissione.

La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della liberazione come versione evoluta del velo? Sarebbe un’ironia, se si pensa che nella guerra appena conclusa a garantire la vita sono state donne visibili a livello di massa nella sfera pubblica come mai prima (37); ma darebbe un elemento in piu’ per comprendere alcuni aspetti che ci sta a cuore sottolineare, innanzitutto l’enorme legittimazione accordata al materno in quei momenti e la sua poca resa in termini di libertà e visibilità femminili a emergenza finita.

Interpretazioni

Questi orientamente hanno modellato per decenni i modi e tempi della ricerca, che, come in tutta Europa, ha quasi ignorato la resistenza delle donne e le lotte non armate.

Per quanto riguarda la prima, la sua marginalizzazione era evidentissima nel disinteresse per il nodo donne/politica. Un problema lungamente dibattuto a proposito degli scioperi del marzo 1943 - il rapporto fra organizzazione politica e concertazione informale - è stato del tutto trascurato per le donne. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno, venivano eluse a favore di un’immagine di quieto unanimismo. Già a partire dagli anni settanta alcune studiose denunciavano queste cecità (38); ma in quella fase, e per vario tempo ancora, nella comunità delle storiche domina! va la di ffidenza verso i binomi che accostano le donne agli eventi della cosiddetta grande storia (gli intrecci donne/guerra, donne/resistenza e così via), quasi fossero un cedimento alle sue gerarchie di rilevanze. Anche per questo la storiografia reistenziale poteva continuare indisturbata a "spiegare" l’opera delle donne in termini di rapida politicizzazione (senza però verificarla), o di naturale oblatività femminile e di umanitarismo (seducenti parole tuttofare che andrebbero a loro volta spiegate, perche’ quei sentimenti non scattano sempre né per chiunque).

In termini simili, e con la stessa distrazione, si guardava alle lotte senza armi. Pochissime le ricerche, assolutamente imparagonabili alla mole di studi sulla resistenza armata e sui gruppi politici, e dovute quasi soltanto a esponenti e gruppi della nonviolenza.

Lo scarto era ancora maggiore per la sistemazione storico-teorica. Sul nodo guerra di liberazione / guerra civile sono state scritte cose decisive e probabilmente definitive (39), su quello lotta armata / lotta non armata e sul modello di cittadinanza uscito dalla resistenza si è pensato e detto poco. A tutt’oggi manca del tutto, per esempio, una riflessione su quanto, e se, abbiano influito su quel modello il carattere volontario dell’arruolamento, la struttura meno gerarchica delle formazioni militari, gli obiettivi di pace. Non in modo decisivo, a giudicare dall’indicatore rappresentato dal linguaggio, che continua a fare del caduto la personificazione eroica e virile del morto.

Certo la nostra realta’ e’ imparagonabile alle grandi mobilitazioni popolari e istituzionali di altri paesi, e sovradimensionarla avvalorerebbe il mito nazionale degli "italiani brava gente". Per quanto riguarda l’aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile europea, non si hanno da noi prese di posizione uffici! ali ne’ da parte di personalita’ della cultura, né di istituzioni religiose e civili o di ordini professionali; dissociazione dalla politica razzista e sostegno concreto si realizzano in gran parte a livello individuale o nelle reti di rapporti di piccolo raggio. Quanto basta, però, a rifiutare lo stereotipo speculare di un popolo geneticamente afflitto da opportunismo e inclinazioni fascistoidi - la categoria di carattere nazionale e’ cosi’ volatile che la si puo’ tirare in qualsiasi direzione.

Comunque si valuti la dimensione quantitativa, non perdono la loro vitalità i significati che l’area dei comportamenti conflittuali inermi offre, e che né la cultura di sinistra né quella cattolica hanno colto e accolto. La prima li ha trattati quasi come una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani. La seconda ha puntato a valorizzare sia l’azione disarmata sia la pietas che si sforza di salvaguardare beni e persone, ma identificandole come espressioni della coscienza cristiana e forme proprie della partecipazione cattolica alla resistenza (40); a volte rivendicandole in esclusiva (41). Quasi che atti e sentimenti simili non appartenessero anche all’esperienza del combattente, o non potessero avere altra matrice che quella religiosa (42). Si può dire, schematizzando, che questi orientamenti si sono riprodotti per decenni, con le due parti che rivendicavano l’una il primato della lotta armata nella guerra antifascista e nella fondazione democratica, l’altra quello della resistenza senza armi. Restava così irrisolto il problema di una concettualizzazione della lotta civile che non ne facesse un puro complemento di quella armata (43), né un fenomeno indistinto buono a legittimare qualsiasi condotta, né il blasone dello schieramento cattolico; e nell’opinione pubblica si tramandava la vecchia e settaria divisione dei ruoli che assegna alle sinistre, in particolare ai comunisti, l’organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneità e la pietas. Il risultato e’ che un intero universo di comportamenti rimaneva fuso e confuso nello scenario della guerra civile, mentre il senso comune storiografico recalcitrava di fronte alla prospettiva di riconoscergli il titolo di resistenza. In qualche caso - per esempio i 600.000 militari internati in Germania che rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò - si parlava di "resistenza passiva", un termine già in uso all’epoca, che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero stonato. Come si fa a definire "passivo" un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia?

Ecco perché il concetto di resistenza civile risulta prezioso. Individuare nella società un luogo di antagonismo anziché uno scenario, nei cittadini e nei gruppi sociali i protagonisti anziché le comparse, equivale a mettere in questione automatismi fra i piu’ radicati: non solo la polarità fra un maschile associato alla guerra e un femminile associato alla pace, ma anche l’equiparazione fra comportamento attivo e presa delle armi, e l’identificazione altrettanto arbitraria della scelta non violenta con l’equidistanza dagli schieramenti. Se la resistenza civile può e spesso deve cercare la mediazione, lo fa a partire da una scelta di campo. Pensiamo dunque che meriti un posto a sé nel dibattito avviato in questi anni su "zona grigia" e attendismo. Un posto contiguo, perché spesso ne condivide il contesto sociale e una frazione di percorso, e nello stesso tempo lontanissimo, perche’ non ne è la faccia nascosta ma l’esatto contrario. Ci sembra che lo sia anche se si adottano letture nuove e sensibili degli atteggiamenti delle popolazioni, per esempio so! ttolinea ndo la fatica di sopravvivere e la sofferenza comuni, o rifiutando di assimilare esitazioni e sentimenti di estraneita’ a una palude opportunista (44). Sono modi di rendere giustizia a chi, pur non facendosi parte attiva della lotta, puo’ aver condiviso momenti di solidarieta’ o sforzi per limitare il peso dell’emergenza.

Ma perché la resistenza civile abbia a sua volta giustizia, il primo passo è proprio distinguerla da questo sfondo. Chi protegge un perseguitato non si mette in posizione di attesa, non delega la salvezza dell’altro alla fine vittoriosa della guerra, un evento che potrebbe arrivare troppo tardi. Sceglie, si espone, e con il suo comportamento esemplifica il rapporto semplice e cruciale che esiste fra il tema della resistenza civile e quello della responsabilità individuale. Se si indica come sola forma di opposizione qualificata quella in armi, come solo antagonista decisivo il partigiano, si finisce implicitamente per legittimare chi ha scelto di non agire, e può giustificarlo invocando principi e infinite ragioni pratiche. È vero che non tutti possono sparare, lasciare la famiglia e la casa, vivere in clandestinita’, reggere grandi fatiche. La lotta armata, soprattutto quella in montagna, chiede corpi giovani e sani.

Molto cambia se si afferma l’idea di una resistenza diversa, praticabile in molti più luoghi e forme, accessibile a molti più soggetti, dalla madre di famiglia al prete al nonviolento, ma anche a chi ha un’età anziana, o è infermo, magari fisicamente inetto. "Fai come me" è un invito che il resistente civile può estendere molto al di là di quanto possa fare il partigiano in armi. Il problema della colpa diventa così meno tranquillamente eludibile, sia sul piano individuale sia su quello collettivo (45).

Qualcosa può cambiare anche per quanto riguarda un altro crocevia stori! co e ideologico. Si discute da tempo in Italia sulle difficoltà della resistenza a porsi come matrice dei sentimenti di appartenenza, sui modi di affrontare le fratture politiche che segnano l’identità nazionale. Ma esistono divisioni legate al genere sessuale, alle fasce di età, alle diverse tradizioni, alla geografia, a cominciare da quella che giustappone un nord cuore della lotta armata, virilmente attivo, innovatore, a un sud "femminilmente" passivo, cooptato in un riscatto cui sarebbe rimasto estraneo. Sono problemi non solo italiani, visto che tutti gli stati europei hanno preso a simbolo della rinascita postbellica la figura minoritaria del giovane maschio combattente.

Dare valore alla resistenza civile rimette in discussione questo assetto politico e simbolico, fino a prospettare una ridefinizione di quel che si intende per contributo di un gruppo, di una categoria, di un paese, alla lotta antinazista. Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in combattimento; sarebbe giusto misurarlo anche sulla quantita’ di energie, di beni e soprattutto di vite strappate al III Reich.

Note

17. L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986, p. 27.

18. M. Occhipinti, Una donna di Ragusa (preceduto da Un altro dopoguerra, di E. Forcella), Feltrinelli, Milano 1976. Come scrive Forcella, della rivolta dei "non si parte" si e’ parlato e scritto poco, soprattutto perche’ all’epoca era stata unitariamente interpretata come frutto di rigurgiti fascisti e trame separatiste.

19. La ricerca e’ stata svolta, oltre che dalle autrici, da Eleonora Bisotti, Anna Gasco (che ha curato anche le videointerviste), Grazia Giaretto, che hanno condotto la maggior parte delle interviste, contribuito al lavoro di archivio, e costantemente partecipato alla riflessione sui materiali. Lettere, scritti autobiografici, documenti ! personal i, materiale fotografico, testi video e le piu’ di 8.000 pagine di trascrizione delle interviste sono depositati a Torino presso l’Istituto storico della Resistenza in Piemonte. Nelle note delle citazioni si fa riferimento alle pagine della trascizione.

20. J. Semelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa. 1939-1943, Sonda, Torino 1993, che propone la definizione sopra citata, riferendola alla mobilitazione sia delle popolazioni sia delle istituzioni o di entrambe.

21. Fra le lotte di questo tipo, ricordiamo il rifiuto dei magistrati torinesi di prestare giuramento alla repubblica di Salo’, e la resistenza di varie categorie di lavoratori e di sportivi contro l’iscrizione coatta a associazioni professionali nazificate in Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia (vedi rispettivamente A. Galante Garrone, Il mite giacobino, Donzelli, Roma 1994, pp. 89-90, e Semelin, Senz’armi cit.).

22. Numerosi esempi in M. Mafai, Pane nero, Mondadori, Milano 1987, pp. 246 sgg., e nel racconto di Nelia Benissone, in A. M. Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta, La Pietra, Milano 1976.

23. Sulla durezza della repressione nazista contro le popolazioni, vedi L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

24. A. Bravo, Simboli del materno, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991.

25. Commissione provinciale pari opportunita’ di Massa-Carrara, A Piazza delle Erbe!, Provincia di Massa-Carrara, 1994, in particolare G. Bonansea, Immagini e simboli nei racconti di partigiane carraresi. Le voci, il racconto.

26. R. Absalom, La strana alleanza: prigionieri alleati e contadini dopo l’8 settembre 1943, Olschki, Firenze 1991.

27. Citato in C. Pavone, Per una riflessione critica su rivolta e violenza nel Novecento, i! n "I via ggi di Erodoto", 28, 1996.

28. L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, Torino 1978.

29. Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa: storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Franco Angeli, Milano 1986, p. 383.

30. Per un’analisi critica dell’uso della violenza nella lotta antifascista e dei problemi politici ed etici connessi, vedi l’ampia trattazione di C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralita’ nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, cap. VII, La violenza.

31. Della riflessione femminile sul rapporto fra cittadinanza e diritto/dovere di portare le armi, un esempio importante e’ Elshtain, Donne e guerra cit., soprattutto la parte I, La virtu’ civica armata. Vedi anche G. Bonacchi, A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1993, in particolare V. Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell’89.

32. Citata in Archivio centrale Udi, I gruppi di Difesa della donna 1943-1945, Ed. Archivio centrale Udi, Roma 1995.

33. M. Alloisio, G. Beltrami, Volontarie della liberta’, Mazzotta, Milano 1981.

34. Pavone, Una guerra civile cit., pp. 521 sgg.

35. Il documento e’ in G. Rochat (a cura di), Atti del Comando generale del CVL, Franco Angeli, Milano 1972, pp. 187-188. Una ferma denuncia contro un trattamento che equipara le partigiane "alle puttane del reggimento" viene dal Comando G. L. (G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, Feltrinelli, Milano 1982, p. 297).

36. R. Vigano’, L’Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1949, moltissime volte ristampato.

37. Visibilita’, mobilita’ e politicizzazione delle donne sono fra gli elementi sottolineati nell’interpretazione di E. Galli Della Loggia,! Una guerra "femminile"?, in Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali cit.

38. Vedi, oltre a Bruzzone-Farina, La Resistenza taciuta cit., Guidetti Serra, Compagne cit, Alloisio-Beltrami, Volontarie della liberta’ cit, anche R. Rossanda, Le altre, Bompiani, Milano 1979.

39. Pensiamo naturalmente a Una guerra civile di Pavone, dove all’opposizione non armata e’ pero’ dedicato il solo paragrafo Lotta nella societa’ e lotta per la sopravvivenza.

40. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna 1991, p. 109, n. 48.

41. Vedi soprattutto la posizione di Rocco Buttiglione, in "Il Tempo", 19 settembre 1992, denunciata da Norberto Bobbio, in N. Bobbio, G. E. Rusconi, Lettere sull’azionismo, in "Il Mulino", a. XLI, 1992, n. 344. Sulla spinta all’amore e alla tutela dell’esistente nel combattente in armi vedi Elshtain, Donne e guerra cit., in particolare il VI capitolo.

42. Per esempio la tradizione pacifista anarchica, o il millenarismo contadino di cui parla Roger Absalom a proposito dei mezzadri toscani, vedi Id., La strana alleanza cit.

43. Il rischio non e’ solo italiano, come mostra la scelta di Semelin, nel citato Senz’armi di fronte a Hitler, di dedicare l’analisi ad anni in cui la resistenza armata era in Europa ancora inesistente o poco sviluppata. 44. Vedi rispettivamente P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, pp. 47-54, e G. E.Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna, 1995, cap.I.

45. Intendiamo per colpa collettiva, sulla scorta di Jean Amery, (Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 125) "la somma, divenuta oggettivamente manifesta, di comportamenti colpevoli individuali", per cui la colpa di ogni singolo nelle sue azioni e omissioni "diviene la colpa complessiva di un popolo".