Alessandro Cavalli

Un'agenda per la scuola

Nei mesi della sua permanenza al ministero di viale Trastevere, Tullio De Mauro aveva ripetutamente richiamato i risultati di una ricerca comparativa internazionale, condotta per l'Italia da Vittoria Gallina del Cede di Frascati. Tra i ventitre paesi dell'indagine, l'Italia si colloca al quintultimo posto nella scala di alfabetismo funzionale, una scala che misura la capacita di comprensione di testi in prosa, di interpretazione di semplici grafici e di elaborazione di calcoli di livello poco più che elementare. Detto più brutalmente, due italiani su tre sono tagliati fuori dall'accesso al consumo di prodotti culturali che richiedono un minimo di competenze logico-linguistiche (giornali, libri, conferenze, mostre, musei, ecc.). La stessa indagine, inoltre, ci dice che mentre il 25% superiore della popolazione ha un livello di competenza funzionale medio non lontano da quello dei paesi meglio piazzati, il 25% inferiore è a livelli medi bassissimi: si tratta praticamente di analfabeti funzionali: sanno fare la propria firma e magari leggere le indicazioni stradali, ma poco più.
È vero che nella fascia più bassa troviamo soprattutto persone anziane, ma è vero anche che, considerando la popolazione giovanile, il divario con i paesi più "istruiti" si riduce ma non si annulla. Ci si chiede che posto potrà trovare nell'economia della conoscenza una massa così consistente di analfabeti.

Ridurre l'analfabetismo funzionale

Il nuovo ministro della Pubblica istruzione farà bene a non dimenticare questi dati, perché indicano il primo obiettivo che la politica scolastica dovrà perseguire nei prossimi anni: ridurre la distanza tra la parte più istruita e la parte meno istruita della popolazione del Paese.
Questo obiettivo potrà essere perseguito in vari modi: sostenendo l'educazione degli adulti, combattendo la dispersione nella fascia dell'obbligo, riqualificando nell'impianto della riforma dei cicli quelli che attualmente sono i canali degli istituti tecnici e professionali e, soprattutto, il settore dell'istruzione professionale, onde evitare che sia alimentato, come attualmente succede, pressoché esclusivamente da coloro che vengono espulsi dalle scuole secondarie, vale a dire gli "scarti" del sistema scolastico.
A rigor di logica, l'obiettivo di ridurre le distanze tra i vari canali della scuola secondaria potrebbe essere raggiunto facendo scendere chi sta più in alto, piuttosto che facendo salire chi sta più in basso. Non è questo, ovviamente il suggerimento che vorremmo dare. Questo è stato ed è il timore di coloro, e sono ancora tanti, che hanno visto con un certo sospetto l'avvento della scuola di massa. Il timore, cioè, che per elevare il livello di cultura delle masse si finisse per trascurare l'eccellenza e la formazione delle élite. Il timore non è del tutto ingiustificato, ma è sbagliato porre il problema in termini di alternativa. Dietro il timore di vedere "scadere" di livello i settori più prestigiosi delle istituzioni educative (cioè, immancabilmente, il liceo classico) si nasconde spesso una concezione aristocratica della cultura per la quale l'innalzamento del livello medio di istruzione della popolazione e la riduzione della distanza tra alto e basso non può significare altro che decadimento e perdita.

Valorizzare i talenti

Resta, comunque, l'esigenza di non abbassare le punte più alte, ma anzi di creare le condizioni più favorevoli affinché chi ha talento possa sviluppare appieno le sue potenzialità. È quindi necessario predisporre percorsi di eccellenza, soprattutto nei vari indirizzi della secondaria superiore (e non solo nell'indirizzo che ereditera la tradizione delliceo classico). Detto altrimenti, e giusto preoccuparsi di chi incontra difficolta e deve quindi essere aiutato a superarle, ma e altrettanto importante fare in modo che chi dispone di risorse intellettuali in abbondanza non sia costretto a sprecarle. Varie indagini lasciano sospettare che lo spreco di talenti sia effettivamente di dimensioni notevoli. n sostegno ai capaci e meritevoli affinché possano proseguire gli studi ai livelli più alti anche se provengono da condizioni svantaggiate e un principio sancito dalla Costituzione repubblicana, ma solo parzialmente realizzato. Come rivelano i dati delle rivelazioni periodiche dell'OCSE, l'Italia è uno dei paesi che spendono meno per il diritto allo studio. Non sarebbe meglio far pagare (nella scuola secondaria) tasse scolastiche più consistenti a chi può permetterselo e finanziare coi i proventi un programma consistente di borse di studio?
Accanto al diritto allo studio è auspicabile, come dicevamo, organizzare percorsi di eccellenza. Come realizzarli concretamente dovrà essere lasciato all'autonomia delle singole scuole.

Rafforzare l'autonomia delle scuole e completare la riforma dei cicli

L'autonomia sembra ormai un fatto acquisito e, caso mai, da approfondire ulteriormente. Si è finalmente capito che non si può gestire centralisticamente un sistema complesso che ha grosso modo dieci milioni di utenti e un milione di addetti.
Gli esponenti del Polo hanno prima dichiarato che avrebbero azzerato le riforme varate dai governi dell'Ulivo; poi hanno manifestato l'intenzione di bloccarne l'attuazione per consentire una pausa di riflessione. Sull'autonomia, salvo forse qualche nostalgico del centralismo burocratico, non penso ci sia nessuna forza politica che proponga di tornare indietro. Sulla riforma dei cicli scolastici, invece, si può capire che certe soluzioni adottate suscitino perplessità, e tuttavia, dopo almeno un quarto di secolo di attesa della riforma, tornare al punto di partenza sarebbe come infliggere alla scuola un'ulteriore penalizzazione. C'è un accordo molto ampio sulla durata complessiva del corso di studi primario e secondario (12 anni), meno su come questi dodici anni debbano essere ripartiti. La soluzione proposta dalla legge sui cicli (7+2+3) non soddisfa molti che avrebbero preferito altre aritmetiche (4+4+4, oppure 5+4+3 ), o altre ancora. Ogni soluzione ha i suoi pro e i suoi contro e non è oggettivamente facile identificare la one best way. Viste le performance piuttosto lusinghiere nei confronti internazionali delle attuali scuola dell'infanzia e della scuola elementare, forse è il caso di dedicare la massima attenzione alla fase di passaggio tra istruzione primaria e istruzione secondaria che, oltre tutto, coincide con la fase normalmente difficile dell'adolescenza e dove incominciano a manifestarsi i fenomeni della dispersione scolastica.
I problemi di "architettura" non devono peraltro essere sottovalutati, ma neppure sopravvalutati. La forma delle botti è meno importante del vino che vi verrà versato dentro. La riflessione sui contenuti, iniziata dalla Commissione nominata dal ministro De Mauro, dovrà quindi essere portata a termine, tenendo conto che non si tratta più di redigere dei programmi ministeriali validi per tutti dalle Alpi alla Sicilia, ma di dare indicazioni alle scuole su come costruire i curricola previsti nella loro "offerta formativa".

Stimolare l'emulazione competitiva

Se gli spazi dell'autonomia verranno effettivamente utilizzati, il sistema scolastico risulterà alla fine assai più differenziato al suo interno di quanto non lo sia attualmente. Un certo grado di "confronto invidioso" (direbbe Veblen) tra scuole dello stesso tipo (soprattutto nelle grandi aree urbane) sarà non solo inevitabile, ma anche auspicabile. Più che sulla competizione tra pubblico e privato (che gli esponenti del Polo, a cominciare dal presidente della Lombardia, si ripromettono di realizzare), bisognerà puntare sull'emulazione competitiva all'interno della scuola pubblica. A meno di un cospicuo travaso di risorse pubbliche dalla scuola pubblica a quella privata (una misura sicuramente impopolare che anche un governo di destra incontrerebbe difficoltà a far passare), il nostro sistema resterà un sistema essenzialmente pubblico. Anche negli Stati Uniti, dove la scuola privata ha maggior peso e una lunga tradizione, il 90% degli alunni frequenta una scuola pubblica e anche l'amministrazione Bush - nonostante le intenzioni espresse in campagna elettorale - non modificherà di molto questa percentuale.

Introdurre incentivi e premiare il merito

La competizione (preferisco parlare di "emulazione competitiva"), ma anche la collaborazione tra istituti diversi, dovrà quindi realizzarsi all'interno del sistema della scuola pubblica, allargando lo spazio dell'autonomia e delle capacita decisionali dei dirigenti scolastici. Il meccanismo "virtuoso" dell' emulazione non potrà innestarsi senza la predisposizione di un sistema di incentivi che da un lato premino le scuole "migliori" e, al loro interno, gli insegnanti "migliori". Non bisogna fermarsi di fronte alle difficoltà oggettive di mettere in piedi modalità non arbitrarie di valutazione delle prestazioni delle scuole e degli insegnanti. Il terreno, come è noto, è assai scivoloso. Eppure la posta in gioco è troppo importante perché ci si possa arrendere alle difficoltà. Non c'è nulla di più deprimente per un insegnante, il quale impegni il meglio di sé, il suo tempo e le sue energie intellettuali nel miglioramento della scuola, che sapere che il suo impegno non atterra riconoscimento e che, alla fine del mese, il suo collega che si preoccupa di non fare niente di più del minimo indispensabile, troverà la stessa somma in busta paga. Nessuna organizzazione umana è in grado di funzionare al meglio delle capacita dei suoi membri, se è priva di un sistema di incentivi differenziali che stimolino a far meglio. Qualcuno dirà che le ricompense in questo mestiere sono di natura essenzialmente morale. Vero. Ma gli insegnanti non sono diversi da tutti gli altri membri di questa società e sarebbe grave se non fossero sensibili anche agli incentivi pecuniari. Vorrebbe dire che vivono fuori dal mondo e francamente non vorrei affidare l'educazione dei miei figli a persone che vivono fuori dal mondo. In altre parole, bisogna costruire un percorso di carriera che consenta di assegnare responsabilità maggiori e maggiori riconoscimenti materiali e simbolici a chi dimostra di meritarselo.
Sono convinto che la scuola italiana abbia un consistente patrimonio di risorse umane che non è capace di valorizzare. Vi sono tanti insegnanti e tanti dirigenti scolastici che, nonostante le difficili condizioni in cui spesso operano, riescono a produrre risultati notevolissimi e ottengono il riconoscimento e il rispetto degli allievi e delle loro famiglie. La prima parola d'ordine dovrebbe essere quindi valorizzare le risorse esistenti.

Dare peso istituzionale alla formazione professionale iniziale

La seconda parola d'ordine riguarda la formazione dei futuri insegnanti. È la questione su cui si è scatenata di recente una vera e propria bagarre. Nessuno obietta più che tutti gli insegnanti, dalla scuola dell'infanzia alla secondaria, debbano avere una formazione di livello universitario. Questo è un punto fermo. La controversia è nata in relazione alla riforma dell'università che ha introdotto una laurea di primo livello (dopo tre anni e 180 crediti) e una laurea specialistica (dopo due anni ulteriori e altri 120 crediti). Alcuni ritengono che, per gli insegnanti della scuola secondaria, si debba richiedere una laurea specialistica (cinque anni e 300 crediti) seguita da un anno di tirocinio e formazione professionale (60 crediti). Altri ritengono sufficiente una laurea di primo livello seguita da due anni di formazione professionale nelle scienze dell'educazione, nelle didattiche disciplinari e, ovviamente, nel tirocinio (120 crediti). Sul primo fronte si sono schierati molti docenti della Facoltà di Lettere e filosofia, sul secondo molti esperti di scienze dell'educazione e la conferenza dei presidi delle Facoltà di Scienze matematiche e naturali. Chi scrive si colloca decisamente sul secondo fronte, con le seguenti motivazioni.
La proposta di fissare come requisito per l'ingresso nell'insegnamento una laurea disciplinare specialistica quinquennale con l'aggiunta di un anno di specializzazione comprensivo del tirocinio (sia pure con la previsione di dedicare spazio alla didattica e alle scienze dell'educazione) costituisce un passo indietro nella strada di una riqualificazione professionale del corpo docente. La proposta, non a caso sostenuta soprattutto da rappresentanti delle facoltà umanistiche è avversata da chi si occupa di didattica delle scienze naturali, riflette un modo di pensare ancora diffuso che nella formazione dell'insegnante vede in primo piano (se non in modo esclusivo) la preparazione disciplinare e solo come accessoria la formazione professionale nelle discipline socio-psico-pedagogiche e nelle didattiche disciplinari. La diffusione e la persistenza di questa convinzione ha qualche fondamento nel discredito (non del tutto immotivato) nel quale sono tenute in Italia le discipline pedagogiche. Non c'è dubbio. Si sconta qui un'arretratezza che ha radici lontane nel tardivo (e in larga misura mancato) sviluppo nel nostro Paese delle scienze dell'educazione intese in chiave moderna, cioè come scienze con un solido fondamento empirico, e nel perdurare di una tradizione pedagogica di derivazione ideologico-normativa, inconsistente sul piano scientifico, verbosa e tuttavia sempre pronta a rivendicare un'egemonia culturale nella formazione degli insegnanti. In effetti, l'idea di affidare una parte cospicua della formazione degli insegnanti alle inconcludenti elucubrazioni di certi pedagogisti fa venire qualche brivido. Da qui l'idea che la formazione degli insegnanti debba fondarsi su una solida preparazione disciplinare che solo una laurea specialistica è in grado di assicurare. In questo modo, però, non si fa altro che contribuire al perdurare dell' arretratezza.
Mario Pirani ha denunciato il problema reale della "disciplina" nelle scuole. Ma, pensare di risolvere il problema restaurando semplicemente il "sette in condotta", vuol dire non aver capito che cosa sta alla base della difficoltà da parte dei docenti di creare un clima favorevole all'ordinato sviluppo dei processi di apprendimento. Alla base vi è una vera e propria difficoltà degli insegnanti sul piano relazionale, l'incapacità di molti insegnanti di stimolare la curiosità e la motivazione ad apprendere, soprattutto in quegli allievi che non ricevono dalle famiglie uno stimolo culturale adeguato. L'insicurezza dei docenti sul piano relazionale deriva, tra l'altro, dalla loro scarsa preparazione professionale, dalla mancanza di strumenti culturali per leggere la soggettività di adolescenti e giovani. Se non sono in grado di tenere la disciplina, vuol dire che non riescono a innescare modi di partecipazione attiva alle attività di apprendimento. Una prolungata formazione disciplinare non serve ad affrontare il problema della motivazione che è oggi il vero problema di molti ragazzi e ragazze che si chiedono che senso ha stare trenta ore alla settimana seduti su un banco di scuola.
È vero che la formazione iniziale degli insegnanti è un problema in tutti i sistemi educativi; bisogna tuttavia riflettere sul fatto che laddove la formazione degli insegnanti si fonda su basi istituzionali consistenti (i dipartimenti di educazione, o le facoltà di Erziehungswissenschaften), lo sviluppo delle scienze dell'educazione in senso moderno è avvenuto prima e ha alla lunga scalzato la vecchia cultura pedagogica. Questo è il vero problema.
Come si fa a modernizzare la cultura pedagogica? Non certo svuotando di funzioni le scuole di specializzazione per insegnanti che hanno appena iniziato il loro stentato e faticoso cammino. Non si da infatti sviluppo di settori di ricerca senza un adeguato supporto istituzionale. Il percorso intrapreso con la creazione delle scuole di specializzazione è solo agli inizi ed è più una scommessa che una realtà sulla quale si possa fin d'ora fare affidamento. Ma il problema è di mettere in moto un processo che nel medio - lungo periodo porti alla accumulazione di esperienze e alla produzione di competenze nel campo della formazione professionale degli insegnanti, la cui carenza è uno dei fattori (se non il fattore) più importanti nella crisi della scuola italiana. Se abbiamo i tassi di dispersione più alti dell'Europa "avanzata", se una parte consistente della popolazione studentesca non riesce a darsi ragione del perché vale la pena studiare, se molti giovani abbandonano appena intravedono un'opportunità di guadagnare qualche soldo, se le indagini comparative segnalano gravi carenze nella formazione scientifica delle giovani generazioni, tutto ciò è in parte non trascurabile dovuto alla convinzione diffusa, ma profondamente sbagliata, che per poter insegnare basti conoscere la propria materia.
Del resto, è lo stesso corpo insegnante a denunciare l'insufficienza della propria preparazione in campo socio-psico-pedagogico, mentre nel complesso giudica adeguata la propria preparazione disciplinare. Se da un lato, quindi, è necessario sottrarre ai pedagogisti nostrani il monopolio sulla formazione degli insegnanti, dall'altro lato non si pensi che per migliorare la nostra scuola basti rafforzare la formazione disciplinare.