Anna Barberi

La controriforma Moratti


La riforma viene definita dalla legge 53/2003, anche se in realtà la sua attuazione viene in toto demandata a successivi decreti attuativi che, in quanto tali, saltano completamente il passaggio legislativo in Parlamento.
La ministra Brichetto in Moratti fa risalire le sue scelte alla commissione Bertagna, commissione di “saggi” a cui era affidata un’analisi della scuola italiana e una definizione degli obiettivi irrinunciabili per gli alunni. In realtà la legge stravolge alcune delle risultanze della commissione (peraltro discutibili, visto che l’analisi della situazione esistente non è stata condotta con il concerto delle parti in causa, ma sulla base del parere di “esperti” scelti in modo unilaterale) per poter introdurre un modello scolastico coerente con le scelte politiche ed economiche di questo governo.
Di fatto si introducono alcune novità “vetrina” per stuzzicare il gradimento dei genitori, mentre le novità sostanziali (mantenute dal decreto 23/01/2004) sono volte alla distruzione del sistema formativo di base, soprattutto della scuola elementare, così come noi lo conosciamo (scuola elementare che, non dimentichiamolo, ha ottenuto risultati di eccellenza, insieme alla scuola materna, nelle classifiche europee e mondiali).
Inoltre, per la prima volta, su temi così rilevanti non c’è stato alcun confronto diretto con le parti in causa, contrariamente a quanto dicono gli spot televisivi.
In realtà anche le novità vetrina risultano creare non pochi problemi alla gestione didattica della scuola primaria e, di fatto, impoveriscono non poco l’offerta formativa della scuola; vediamole nel dettaglio:

1. l’anticipo della scuola materna ai due anni e mezzo, privo di qualsiasi giustificazione pedagogica, appare solamente un modo per offrire ai genitori un servizio sociale di custodia dei bambini, che in sé non sarebbe sbagliato, se non fosse che non sono previsti ampliamenti dell’organico (anzi, spariscono le compresenze), né servizi a supporto di bambini così piccoli, né ampliamento delle strutture per attrezzare, ad esempio, spazi adeguati per il riposo pomeridiano. La scelta, peraltro, è volontaria ed è significativo che solo il 29% dei genitori che ne avevano diritto abbia aderito a tale opportunità nell’anno scolastico 2003/2004. Inoltre l’anticipo è condizionato all’accordo con gli Enti Locali e alla disponibilità di posti. Si può immaginare, quindi, come sia una scelta “per modo di dire”.

2. nella scuola primaria si offre l’opportunità dell’insegnamento della lingua inglese e dell’informatica dalla prima elementare. Per quanto riguarda la lingua inglese, questo si ottiene ridistribuendo le risorse già esistenti in modo didatticamente poco proficuo proprio allo studio della lingua (si passa da un obbligo di tre ore per terza, quarta e quinta ad uno di un’ora in prima e due ore nelle restanti classi; totale 9 in entrambi i casi = nessun incremento dell’organico). Comunque l’inglese nel primo ciclo era già da anni avviato in molte scuole del territorio grazie a progetti come Lingue 2000. Per quanto riguarda l’informatica sembra che il ministero non si renda conto dell’esiguità delle risorse: esistono scuole elementari con tre o quattro macchine, spesso obsolete; si pensa di far lavorare classi di 20/25 alunni con questa dotazione?

3. un altro specchietto per le allodole è la cosiddetta “personalizzazione” del piano di studi, da concordare con le famiglie e, nella scuola secondaria, anche con gli studenti. In realtà la riforma riduce fortemente il tempo scuola obbligatorio, mentre alza enormemente la soglia di obiettivi prescrittivi (vedremo questi due punti nel dettaglio in seguito), quindi la “libera scelta” di famiglie e studenti si potrà attuare solo per quanto riguarda le non ben definite attività laboratoriali, facoltative, da realizzare solo con le risorse esistenti e che dovranno necessariamente svolgersi in due o tre pomeriggi alla settimana, per un totale di 3 o 6 ore.

ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI

Sulle questioni di metodo abbiamo già detto alcune cose. Non solo, però, non sono stati coinvolti gli operatori del settore nella definizione dei criteri generali; mancano totalmente un’analisi della situazione pregressa, una verifica dettagliata dei risultati raggiunti e una considerazione didattica e sociale di realtà quali il tempo pieno (diffuso nel 40% delle scuole elementari nazionali, seppur diversamente distribuito tra nord e sud).

Per quanto riguarda la formazione degli insegnanti, poi, pare che gli unici piani suggeriti confidino nella potenzialità e nell’economicità dei metodi e-learning, mentre scompare dal dettato di legge qualsiasi riferimento alla ricerca e alla formazione nella scuola autonoma. Di fatto pare che la formazione avverrà, con un discutibile approccio di marketing, su documenti preconfezionati dal MIUR, in cui, ovviamente, non ci sarà traccia di criticità e dialogo. Per ora sono state avviate la formazione sull’informatica e quella sull’inglese, ma mancano indicazioni sulla formazione sulla riforma (siamo alla fine di marzo 2004!), per cui gli Istituti si organizzano come possono e in modo assolutamente volontario.

Il documento è infarcito di neologismi ad effetto (ologramma, ad esempio), mentre non c’è alcuna chiarezza sul significato pedagogico e sull’interrelazione di termini quali “programmi”, “curricoli”, “competenze”, “personalizzazione”, “individualizzazione”, “unità di apprendimento”, “standard di apprendimento”, “standard di prestazione del servizio”, termini i cui significati dovrebbero essere riconosciuti e condivisi attraverso un confronto aperto con gli esperti e con le scuole. Ovviamente tutto ciò fa riferimento a generici “esperti”, senza un’esplicita indicazione delle fonti utilizzate e l’attribuzione dei referenti scientifici ai vari documenti elaborati. Inoltre l’uso improprio e confuso delle espressioni, ad una più attenta lettura, trasforma di fatto le “indicazioni e raccomandazioni” disciplinari in un corpus pesante ed altamente prescrittivo di obiettivi perlopiù contenutistici (peraltro non applicabili, visto che non hanno seguito l’iter previsto per l’approvazione dei nuovi programmi)
Il testo è infarcito di espressioni dalla forte connotazione ideologica; temi quali “progetto di vita”, “dimensioni esistenziali della persona”, “formazione morale della persona” e, infine, conoscenza e visione dell’uomo che emergono attraverso il principio della “sintesi e dell’ologramma” (sic!) risultano particolarmente dogmatiche quando si riferiscono a bambini della scuola materna ed elementare e, in generale, lasciano trasparire l’ipotesi di percorsi educativi che, partendo dai saperi e dalle discipline, approdino comunque ad una visione “religiosa” e “spirituale” della vita.
L’idea del piano personalizzato, poi, di cui s’è già detto il limite, sembra sottendere ad una visione della scuola come puro servizio alla persona, annullando il senso e la funzione del sistema educativo pubblico, per ridurlo ad una mera contrattazione tra le parti (parti forti otterranno ciò che desiderano, parti deboli si accontenteranno del minimo previsto).

La riforma introduce il portfolio delle competenze, nuovo strumento valutativo che dovrebbe raccogliere le produzioni più rappresentative dell’alunno, le valutazioni di insegnanti, genitori e degli stessi alunni, e che dovrebbe accompagnare lo studente il tutto il suo percorso formativo. L’idea in sé non è peregrina, anche se offre il fianco alla possibilità di diventare solo un inutile e burocratico aggravio di lavoro per i docenti ed un terreno di impropria “collusione” di responsabilità educative di genitori ed insegnanti, che devono invece restare distinte. Non è per niente chiaro, invece, quanto tempo dovrà essere dedicato alla sua stesura, come verranno finanziate le necessarie ore aggiuntive dei docenti (del docente “tutor”?) quale peso devono avere al suo interno le istanze provenienti dai diversi soggetti (peraltro, in fase di sperimentazione, ogni scuola ha prodotto un “suo” portfolio, non essendoci alcuna indicazione dal ministero).

Per quanto riguarda il tempo scuola, il ministero non ha tenuto in alcuna considerazione il parere dei genitori (Annali dell’istruzione Stati generali 2001 - Le Monnier): solo il 18,6% delle famiglie si è espresso a favore della suddivisione dell’anno scolastico in 25 ore obbligatorie e 10 facoltative). Nella legge c’è di fatto una suddivisione tra tempo scuola obbligatorio, destinato alla trasmissione delle conoscenze tramite l’insegnamento frontale, e tempo facoltativo, da dedicare ad attività di laboratorio, cui assegnare un ruolo marginale e secondario, nonostante nella scuola questo impianto sia stato superato da almeno un ventennio. Una didattica laboratoriale, operativa e cooperativa, non può essere relegata solo ai momenti aggiuntivi del curricolo. Per quanto riguarda la scuola elementare, poi, il tempo obbligatorio viene affidato quasi totalmente all’insegnante “tutor”, con orario prevalente, che sarà di fatto l’unica figura educativa dell’alunno, visto che gli altri insegnanti entreranno nella classe solo per insegnamenti specifici (religione, inglese, laboratori), con un ritorno, di fatto, all’insegnante unico. E come verrà scelto? Su nomina del Dirigente, sentiti i criteri espressi dai Collegi dei Docenti. Come si può immaginare, si prefigura una suddivisione tra insegnanti “di serie A e di serie B”, con buona pace della collegialità e della necessità degli alunni di trovare, nella varietà dei docenti, una propria figura di riferimento “privilegiata”. Peraltro non è ancora chiaro come e con quali fondi questi insegnati “tutor” verranno incentivati, visto che nel fondo d’Istituto non esiste una voce al riguardo e visti gli esigui fondi a disposizione delle scuole.


Il ciclo di base viene fortemente frazionato, in base a criteri assolutamente oscuri, secondo lo schema 1+2+2 e 2+1, tra l’altro limitando illegittimamente l’autonomia delle scuole in materia di organizzazione scolastica e di curricolo verticale, sanzionando la separatezza tra scuola elementare e media, disconoscendo il percorso di verticalizzazione e continuità portato avanti in molti istituti comprensivi (42% delle scuole di base sono organizzate in questo modo). L’ultimo anno di scuola media, poi, è tutto strutturato (e definito) in modo da orientare e canalizzare precocemente le scelte degli alunni tra filiere formative nettamente separate (licei che danno accesso all’università e formazione professionale).
Non traspare dalle indicazioni un’interpretazione evoluta dei modelli di apprendimento e della connessione tra aspetti cognitivi, sociali ed affettivi (salvo formule comportamentistiche ed un vacuo moralismo). Non viene mai sottolineato il valore formativo delle discipline di studio, mentre si coglie un ritorno a pratiche didattiche minuziosamente contenutistiche ... per non parlare dell’ “economia domestica”! (riservata solo alle femmine?).

Quando finalmente l’alunno termina il ciclo primario di istruzione, si trova costretto a scegliere tra i “licei” e gli istituti professionali, con modelli di precoce alternanza scuola - lavoro (comunque uno degli obiettivi della terza media è la “definizione e argomentazione di un proprio progetto di vita”, quindi devono sapere cosa faranno da grandi e perché!). A parte l’evidente incongruità di tale separazione precoce (visto anche che negli ultimi anni la scuola è andata esattamente nella direzione opposta, nella prospettiva di considerare il primo biennio della scuola superiore come unitario e conclusivo dell’obbligo), la cosa che desta perplessità è la mancanza di chiarezza nel rapporto tra stage lavorativi interni alla scuola e apprendistato (formula quest’ultima che prevede un contratto, una retribuzione ed una tutela sindacale). Il rischio è quello di trasformare l’alternanza in un “terzo canale” assai dequalificato rivolto alla fascia più debole della popolazione giovanile, senza nessun impegno formativo cogente per le aziende (a questo concorre anche il silenzio sulle fonti finanziarie utilizzabili allo scopo), con un’ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Nel testo della legge compare un’importante novità: una quota del tempo scuola, ancora da precisare, viene riservata alla potestà di ogni Regione, per introdurre approfondimenti culturali legati ai diversi contesti locali. La proposta è assai rischiosa, sia per una possibile interpretazione localistica, sia per la genericità della formulazione (quale percentuale? chi decide? su quali opzioni? qual è il margine di accettazione o rifiuto delle varie proposte da parte del POF?). E che fine fa la quota percentuale riservata all’autonoma decisione delle scuole?

Infine, una nota sui famosi decreti attuativi, senza i quali non c’è riforma. L’unico finora approvato, relativo alle scuole dall’infanzia alla primaria di primo grado, non chiarisce molti dei dubbi espressi dalle varie associazioni di insegnanti e genitori. Primo fra tutti il mantenimento del tempo pieno: così com’è previsto garantisce le 40 ore, ma svuotandole proprio di quello che le caratterizzava (due insegnanti per classe con tempi più distesi per l’apprendimento e l’organizzazione di attività laboratoriali e sperimentali). Cosa ancor più grave, non è affatto chiaro se la sorveglianza e l’attività nel periodo della refezione (due ore al giorno!) sarà ancora garantita dagli insegnanti a partire dall’anno scolastico 2005/2006. si ritiene forse che i Comuni, soprattutto quelli piccoli, saranno in grado di garantire questo servizio? E se no, lo pagheranno le famiglie? Nel decreto non c’è risposta a queste domande… solo rassicurazioni verbali del ministro e dei suoi portavoce nelle varie trasmissioni televisive.

GLI OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO

Abbiamo già detto della loro inapplicabilità, al momento, a causa del percorso legislativo seguito, ma vale lo stesso la pena di riflettere sui loro contenuti (non si sa mai che un domani diventino legge per davvero!)
In generale, il quadro delle conoscenze e delle abilità appare generico e confuso nella sua descrizione, presenta molte ingenuità semantiche e spesso sovrappone piani concettuali diversi: accanto a conoscenze (intese come contenuti e concetti) figurano strategie, procedure, attività senza alcun nesso esplicito fra le stesse. In alcuni casi si definiscono “obiettivi specifici” quelle che invece sono finalità.
Il documento propone, disciplina per disciplina, l’elenco delle “conoscenze e abilità” che la scuola deve trasformare in “competenze”; non è chiaro però se si tratti di “obiettivi di apprendimento” che le scuole devono trasformare in programmazione, o se siano “livelli essenziali di prestazione cui tutte le scuole sono tenute”. Il documento oscilla costantemente tra indicazioni puramente orientative ed elenchi fortemente prescrittivi.
Visto che il Servizio Nazionale di Valutazione dovrà basarsi su questi obiettivi, ci si chiede: ma se non sono prescrittivi, su quali indicatori il SNV tarerà le sue prove? Su obiettivi considerati in astratto? Appare il fantasma di un sistema di valutazione che premia un’autonomia della competitività tra le scuole, impegnate non tanto a far meglio sul piano organizzativo e didattico, ma a procurarsi preventivamente quegli allievi che garantiscano risultati migliori, indipendentemente dall’efficacia degli insegnamenti.
Alla cosiddetta “educazione alla convivenza civile”, poi, è dedicato un capitolo a parte, quasi che non avesse alcun legame con le discipline (in primis la storia). Ci si chiede inoltre con quale criterio siano state scelte le educazioni: perché trascurare, ad esempio, un’educazione al corretto consumo o all’intercultura?

SCUOLA DELL’INFANZIA

Per questa scuola viene stravolto l’impianto orientativo e non prescrittivi degli Orientamenti del 1991, dichiarando che quelli della riforma sono “livelli essenziali di prestazione a cui tutte le scuole devono conformarsi”, con il rischio di dare una dimensione valutativa anche a questo grado dell’istruzione. Anche qui si fa riferimento ad un docente “coordinatore” a cui i genitori devono far riferimento. E l’altro? Già, l’altro verrà nominato non sulla sezione degli alunni, ma secondo l’orario da coprire.
Ci chiediamo poi quale criterio pedagogico abbia ispirato la decisione di non considerare rilevante la scuola dell’infanzia ai fini del “profilo educativo, culturale e professionale dello studente” dai 6 ai 14 anni.

In merito agli obiettivi della scuola dell’infanzia, basti citarne alcune perle:
1. soffermarsi sul senso della nascita e della morte, delle origini della vita e del cosmo, della malattia e del dolore, del ruolo dell’uomo nell’universo, dell’esistenza di Dio a partire dalle diverse risposte elaborate e testimoniate in famiglia
2. accorgersi se, e in che senso, pensieri, azioni e sentimenti dei maschi e delle femmine mostrano differenze e perché.
Non è necessario alcun commento.

Rileviamo infine che non viene mai messo in luce il problema dei bambini stranieri, o la questione del dialetto o di una lingua minoritaria, come ignorata è l’educazione linguistica, come quella logico-matematica, che fa emergere una madornale sottovalutazione della dimensione cognitiva, ampiamente presente, invece, nei campi d’esperienza degli attuali Orientamenti.

SCUOLA PRIMARIA

La minuziosa indicazione di contenuti apre la strada ad una precoce secondarizzazione del curricolo, mentre si definisce il ruolo dell’insegnante “tutor” non solo come coordinatore del team docente (di fatto scomparso), ma come insegnante tuttologo, unico responsabile della classe e unica figura di riferimento e modello per genitori ed alunni.
Per quanto riguarda gli obiettivi vanno segnalate alcune novità non certo positive:
1. la riflessione sulla lingua torna ad essere prevalentemente formale e grammaticale, quasi fosse pensata in funzione del latino. È stato addirittura introdotto un generico grammatica e sintassi, senza che si capisca quale sia il criterio di classificazione adottato e quale rapporto ci sia tra questa e le altre voci relative alla grammatica. Si dimentica completamente quale valore abbia la riflessione sulla lingua per la crescita complessiva dell’individuo e per la sua capacità di riflettere sull’atto comunicativo.
2. per la storia si anticipa agli ultimi due anni della scuola primaria ciò che attualmente si insegna in prima media, dimenticando ogni indicazione in merito allo sviluppo psicologico del bambino e alla sua capacità di sistematizzazione del sapere storico (si parla, infatti di quadri di civiltà, utilizzo di testi mitologici, uso dei termini specifici del linguaggio disciplinare). Risultano impoveriti gli aspetti didattici a vantaggio di quelli nozionistici e viene riproposta una visione eurocentrica della storia.
3. per quanto riguarda l’area scientifica si rileva un eccesso di contenuti che non può che favorire un’impostazione superficiale e nozionistica, che non sollecita un approccio di tipo operativo-laboratoriale.
4. dove sono finite la psicomotricità e l’educazione psicomotoria? Il programma si impernia sulla conoscenza delle parti del proprio corpo e delle loro funzioni, con qualche sporadico riferimento al controllo del movimento e alla coordinazione.


SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO

La collegialità scompare del tutto, sia per quanto attiene alla programmazione (impoverita in una mera trasposizione degli obiettivi specifici in obiettivi formativi), sia per quanto riguarda la responsabilità dell’azione educativa, anche qui con l’introduzione della figura del “tutor” (l’insegnante di lettere?), che dovrà contrattare con le altre parti le scelte da compiere per la stesura del piano personalizzato di insegnamento - apprendimento.
La rottura con la scuola elementare si compie forzando ad arte le conoscenze sullo sviluppo del bambino; presupponendo, ad esempio, la compiutezza del processo di astrazione e la capacità ci capire immediatamente il rapporto tra realtà e rappresentazione, mentre sappiamo che un approccio “modellizzato” si può collocare solo alla fine del triennio, e non sempre in ugual misura di consapevolezza.
Questo schematismo di comodo contrappone la scuola elementare predisciplinare alla scuola media disciplinarizzata. Lo statuto delle discipline non si “autosospende” per effetto dell’età degli allievi: il rigore e la coerenza scientifica rimangono punti di riferimento per qualsiasi azione di insegnamento/apprendimento. Ciò che si modifica nel passaggio graduale dell’età evolutiva è la modalità della mediazione didattica.
Si dice nel documento che nella fatica interiore del crescere ogni preadolescente … ha bisogno di adulti coerenti e significativi disposti ad ascoltare, aiutare … in particolare i genitori … devono essere coinvolti nella programmazione e nella verifica dei progetti educativi …Nella scuola, soprattutto laddove si riscontrino situazioni di svantaggio, da sempre i docenti tentano di coinvolgere le famiglie nell’azione educativa e formativa, ma spesso accade che siano proprio le famiglie a sottrarsi alla richiesta della scuola.
Inoltre, l’attività di programmazione e verifica, di competenza dei docenti, non può essere estesa ad altri soggetti senza incorrere nel rischio di svilire la funzione docente e banalizzare l’impianto culturale della scuola. Né si può condividere l’idea che la scuola debba farsi carico di tutti gli elementi di criticità presenti nella società. Infine non bastano un clima di disponibilità, ascolto e amore per promuovere apprendimenti significativi e davvero personalizzati per tutti; c’è bisogno piuttosto di tempo scuola, continuità, collaborazione tra docenti, strutture adeguate. Tutti fattori che i documenti ignorano.

In merito ai singoli obiettivi, valgono le considerazioni già fatte a proposito della scuola primaria, con alcune aggiunte:
1. dalle indicazioni emerge una concezione del linguaggio priva di elementi emozionali e personali; gli obiettivi di apprendimento di italiano privilegiano l’analisi degli usi linguistici funzionali, sottovalutando la dimensione dell’immaginario. Non si richiama la necessità di rilevare i bisogni comunicativi e linguistici dei ragazzi, non si dà spazio alla lettura intesa come attività libera, finalizzata al piacere di leggere in sé. Le abilità di comprensione-scrittura, soprattutto nel terzo anno, sono fortemente incentrate attorno al testo argomentativo e vengono previste alcune abilità congeniali persino al triennio delle superiori, come ad esempio esplicitare le principali relazioni extratestuali con il contesto culturale e le poetiche di riferimento, fino a quel descrivere, argomentando, il proprio progetto di vita e le scelte fatte per realizzarlo, che appare persino irridente nei confronti delle legittime incertezze e dei travagli legati all’età e che risultano, in tal modo, non riconosciuti e non rispettati.
2. per quanto riguarda la storia, sembra che l’insegnante debba rincorrere una verità storica “oggettiva”, inevitabilmente parziale e legata alla diversità degli approcci. Si ripropone nell’ultimo anno la storia dell’Ottocento e del Novecento, riducendo lo spazio che aveva consentito agli insegnanti di trattare in modo più disteso e approfondito la storia recente. Mancano infine riferimenti al rapporto tra storia e geografia.
3. l’arte viene intesa non solo come lettura delle opere, ma anche come conoscenza cronologica delle epoche storiche, mentre pochissimo spazio è destinato all’acquisizione di tecniche e competenze produttive.
4. per quanto riguarda le scienze la quantità dei contenuti è veramente eccessiva e alcuni obiettivi sono addirittura specialistici (sorvoliamo sulla “scomparsa” di Darwin!).
5. l’insegnamento della matematica ha un impianto decisamente tradizionale (soprattutto per quanto riguarda la geometria, per la quale si ravvisa un deciso passo indietro rispetto ai programmi del 1979). La matematica dell’incertezza è giustapposta in modo poco significativo, manca un approccio costruttivo e problematico verso la disciplina e non c’è alcuno spazio per una dimensione operativa e laboratoriale.

Uno spazio a sé merita il cosiddetto profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione (6-14 anni). Parlare di profilo professionale a conclusione della scuola di base è inopportuno ed eccessivamente anticipatorio. Sostenere che l’adolescente, a 14 anni, sia in grado di costruirsi un personale progetto di vita sembra voler essere solo un pretesto per giustificare la canalizzazione precoce dei percorsi formativi.
Colpisce la sottovalutazione di quella delicata fase di crescita che corrisponde ai 13-15 anni; si pensa davvero che il/la nostro/a adolescente sia in grado di conferire senso alla vita e di ravvisare la differenza tra il bene e il male?
La debole e non esplicitata connessione tra conoscenze, abilità, atteggiamenti fa assumere alle pagine dedicate ai comportamenti, alla conquista dell’autonomia, alle relazioni sociali, un risvolto del tutto moralistico, ai limiti della precettistica.
È necessario un ripensamento del significato formativo e culturale di tutto il primo ciclo, con l’obiettivo di stimolare motivazioni, curiosità e partecipazione degli allievi, offrendo solidi alfabeti e codici per rappresentare il loro mondo, comprenderlo e comunicarlo.

Marzo 2004