Camilleri, don Ciotti e la mafia nell’era di Provenzano

lo scrittore siciliano e il presidente di libera si confrontano sui problemi
e le soluzioni per combattere l’organizzazione criminale

La Stampa, 14/4/2006


Oggi, almeno sui giornali e in tv, si parla meno di mafia. L’Italia sembra essere in tutt’altre faccende affaccendata. Significa che Cosa Nostra è in difficoltà o che sta prosperando all’ombra del silenzio?

Camilleri: Non si sente più tanto parlare di mafia sui giornali o nelle televisioni perché la mafia, passato il periodo delle guerre intestine, non fa più notizia. “Fare notizia” è il comandamento al quale obbedisce il giornalismo più quotidiano e volgare. Il kalashnikov o il tritolo facevano notizia, non la fa, per esempio, il controllo mafioso del sistema sanitario in Sicilia. Oggi come oggi la mafia è entrata a gonfie vele, coi suoi uomini, nella politica. E sembra non creare scandalo che noi si debba chiamare col titolo di onorevole un individuo colluso con la mafia.

Ciotti: Più che di mafia, ormai assimilata a Cosa Nostra, io preferisco sempre parlare di mafie, al plurale. La violenza delle mafie sembra scomparsa dai consuntivi dell’anno vecchio e dagli impegni di quello nuovo. Eppure le mafie non sono certo scomparse. I fatti dicono che continuano a prosperare, a governare, a uccidere. Basti pensare che negli ultimi dieci anni abbiamo avuto 2.500 vittime di mafia, di cui 155 vittime innocenti, fuori cioè dai regolamenti di conti. Capisci che è una guerra che si consuma tutti i giorni.

Se i mafiosi nel senso tradizionale non esistono più o sono in via di estinzione, come si riconosce oggi un mafioso? Provenzano, il presunto capo della mafia, come ve l’immaginate, che riflessioni vi porta a fare?

Camilleri: A mio avviso Bernardo Provenzano contava ormai assai poco. Conta moltissimo invece come depistante immagine della mafia. Riina è stato catturato perché aveva fatto il suo tempo. Una volta i mafiosi appartenevano a una “famiglia”, venivano iniziati con riti speciali, si conoscevano l’uno con l’altro. Oggi non c’è più bisogno di conoscersi di persona, di giuramenti, di “punciute”, basta sapere la password giusta. Oggi il mafioso sa usare Internet, è raffinato.

Come lo si riconosce? E come si fa a riconoscere un manager di una multinazionale come la mafia da uno di un’altra multinazionale?

Ciotti: Il professor Camilleri (di cui sono un appassionato lettore) ha sostanzialmente ragione. Camilleri conosce bene la sua terra. Purtroppo non tutta la mafia tradizionale sta in galera. È vero anche che, come dice Camilleri, le mafie sono sempre state delle anticipatrici delle trasformazioni sociali. La mafia è un grande osservatorio. La storia insegna che la mafia è sempre stata capace di anticipare i cambiamenti e le trasformazioni sociali, ha sempre sfruttato le nuove tecnologie. Ha trovato sponde in segmenti del mondo economico e imprenditoriale. Le mafie le trovi in Borsa, nelle operazioni di alta finanza. Il vero nodo è il comune sentire mafioso, indefinito, inafferrabile, e per le mafie (in particolare per Cosa Nostra) è la condizione vitale. Quanto a Provenzano, rispondo che non mi interessa più di tanto.

Lei, Camilleri, ha detto recentemente: «Il giudice Gian Carlo Caselli è stato il primo risarcimento che è venuto a noi siciliani dal Nord». La pensa ancora così? E cosa pensa don Ciotti di questa affermazione?

Camilleri: Vorrei richiamarmi a certe pagine de I vecchi e i giovani di Pirandello, per ricordare il modo infame col quale l’unità d’Italia si concretizzò in Sicilia. «Povera isola, trattata come terra di conquista!... Ed eran calati i continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove... calati tutti gli scarti della burocrazia... e i furti, gli assassini, le grassazioni orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo... e falsificazioni, e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi... E poi era venuta la Sinistra al potere: e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico». Col fascismo fu peggio. Con i governi del dopoguerra la mafia prosperò e si ingigantì la corruzione. Per questo, quando dopo Falcone e Borsellino arrivò Caselli. A quel livello, Caselli resta ancora, e purtroppo, il solo esempio di risarcimento.

Ciotti: Io credo che questa sia una provocazione simpatica di Camilleri, fatta anche di affetto e di riconoscenza. Vorrei non dimenticare altri generosi piemontesi, come Carlo Alberto Dalla Chiesa. E anche Saveria Antiochia, mamma di Roberto Antiochia, che quando le uccisero il figlio che volontariamente si era messo a far da scorta al commissario Cassarà, disse: «Quando ti uccidono un figlio, sparano anche su di te. A me hanno sparato quel giorno». Era il 6 agosto del 1985. Caselli è un magistrato rigoroso e coraggioso. Ma Caselli lo hanno ucciso. Non si uccide solo con le armi. Non era mai successo che venisse fatta una legge ad hoc per impedire a un magistrato di diventare procuratore generale antimafia. Anche l’infanzia violata ricorre spesso nei romanzi di Montalbano. E la tutela dei bambini, dei minori, è uno dei punti su cui insiste da sempre don Ciotti. Quelli che lui chiama i figli della mafia.

Che ne pensate di un Paese che non sa proteggere i suoi figli più fragili?

Ciotti: Sono ragazzi che, immersi in recinti mafiosi, rischiano di essere condannati alla loro diversità. Li segna quel mondo al quale appartengono. Vi faccio un esempio: per il bambino che cresce in una famiglia mafiosa è normale quello che respira in casa: le parole, i gesti, le scelte di papà e mamma. È anormale quello che succede fuori casa.

Camilleri: Che ne penso di un Paese che non sa proteggere i suoi figli più fragili? Che è un Paese perso. E che è un Paese ancora più perso quando penso a come tratta, oltre che i propri, anche i figli degli extracomunitari. Quale vi sembra attualmente l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del fenomeno mafioso?