Naomi Klein

Clonazione da Tiffany


La pubblicità, le griffe e il marketing in un mondo che cerca le differenze

Le multinazionali del marchio possono anche parlare la lingua della diversità, ma il risultato tangibile delle loro azioni è un esercito di teenager clonati che - usando le parole degli esperti di marketing - marciano "in uniforme" per i corridoi del centro commerciale globale. Malgrado l'abbraccio di un immaginario di tipo multietnico, la globalizzazione indotta dai mercati non vuole affatto la diversità, anzi il contrario. I suoi nemici sono gli usi e i costumi nazionali, i marchi locali e i gusti distintivi di particolari aree geografiche. La scena è ormai dominata da un numero sempre minore di interessi.


Abbacinati dalla vasta gamma di prodotti offerti, all'inizio potremmo non accorgerci dello straordinario processo di consolidamento che si sta verificando nei consigli d'amministrazione dell'industria dell'intrattenimento, dei media e del commercio al dettaglio. La pubblicità ci travolge con le confortanti immagini caleidoscopiche di United Streets of Diversity o ci seduce con slogan tipo quello di Microsoft che dice: "Where do you want to go today? - Dove vuoi andare oggi?" Ma nelle pagine economiche dei giornali, il mondo è monocromatico e le porte si chiudono una dopo l'altra. Ogni nuova notizia, sia che si tratti dell'annuncio di una acquisizione, di una bancarotta inaspettata o di una fusione colossale, evidenzia immediatamente una perdita di scelte significative. Ciò che conta davvero per il mercato non è tanto sapere "dove vuoi andare oggi?", ma capire "come posso meglio pilotarti nel labirinto sinergico del percorso che io ho deciso dovrai seguire oggi?"


Questo attentato alla libertà di scelta avviene contemporaneamente su più fronti. Prima di tutto a livello strutturale, con fusioni, acquisizioni e sinergie aziendali. Poi a livello locale, con un manipolo di marchi che usano le loro ingenti risorse economiche per costringere a uscire dal mercato le piccole aziende indipendenti. (…) Tutti, in un modo o nell'altro, siamo stati testimoni di questa strana doppiezza per cui la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di prodotti va di pari passo con nuove orwelliane restrizioni dello spazio pubblico e della produzione culturale. La possiamo vedere nel momento in cui una cittadina di piccole dimensioni assiste allo svuotamento delle vie del centro più animate, mentre enormi supermercati discount con circa 70.000 articoli sugli scaffali spuntano ai bordi della città, esercitando una sorta di attrazione gravitazionale che James Howard Kunstler descrive come la "geografia del nonluogo". Succede nelle vie alla moda del centro, dove un altro dei nostri bar preferiti, un negozio di ferramenta, una libreria indipendente o una videoteca d'arte vengono spazzati via dall'ennesima catena modello PacMan: Starbucks, Home Depot, the Gap, Chapters, Borders, Blockbuster.


Se l'erosione dello spazio non ancora fagocitato dalle aziende, di cui ho parlato in precedenza, sta alimentando una sorta di claustrofobia globale che non vede l'ora di esplodere, sono allora queste limitazioni alla libertà di scelta (decise da quelle stesse aziende che avevano promesso una nuova epoca di libertà e diversità) che stanno facendo lentamente convergere il potenziale ed esplosivo desiderio di queste libertà contro le multinazionali e i rispettivi marchi, creando le condizioni per la nascita di un attivismo antiaziendale.

C'è un tratto distintivo che accomuna molte delle catene proliferate negli anni Ottanta e Novanta quali Ikea, Blockbuster, the Gap, Kinko's, the Body Shop, Starbucks e che le distingue dai fastfood, dai centri commerciali periferici e dalle catene di accessori per auto che hanno dato impulso allo sviluppo del franchise negli anni Sessanta e Settanta. Queste nuove catene non sono illuminate da appariscenti conchiglie e archi dorati in plastica gialla da cartone animato, ma risplendono piuttosto di una sana brillantezza New Age. Questi vitali contenitori color verde brillante o blu Savoia si incastrano l'uno nell'altro come pezzi di Lego (quelli del nuovo tipo, che possono essere usati solo per una costruzione ben precisa, come la caserma dei pompieri o la nave spaziale, provvidenzialmente riprodotte sulla confezione). I commessi di Kinko's, Starbucks e Blockbuster comprano le loro uniformi con pantaloni kaki e magliette bianche o blu nei negozi the Gap, il cordiale saluto "Salve! Benvenuti a the Gap!" viene favorito da una buona tazza di doppio espresso sorseggiato da Starbucks; il curriculum che ha valso loro l'impiego è nato da Kinko's masticando un Macqualcosa ed è stato scritto con il carattere Helvetica 12 di Microsoft Word. I plotoni di commessi si presentano al lavoro profumati CK One (fatta eccezione per Starbucks, dove le colonie e profumi contrastano con il "romantico aroma di caffè"), con il viso liscio e levigato da un'esfoliante al germe di grano the Body Shop, prima di aver lasciato appartamenti arredati con librerie e tavolini fai da te di Ikea. (…)

Questo sviluppo impetuoso è stato il risultato di tre strategie industriali che avvantaggiano nettamente le grandi catene che possono contare su ingenti riserve economiche. La prima è la guerra dei prezzi, per cui le principali maxicatene praticano sistematicamente prezzi inferiori a quelli dei loro rivali. La seconda consiste nel mettere fuori gioco i concorrenti concentrando un gran numero di punti vendita nella stessa area. L'ultima strategia è la creazione di sfarzosi superstore, fiori all'occhiello di ogni marchio, allestiti all'interno di immobili di prestigio, e che funzionano come una sorta di pubblicità tridimensionale del marchio stesso.