Marco Rizzo

Direttiva Bolkestein e Direttiva europea sull’orario di lavoro: due facce della stessa medaglia

Indaffarati a riflettere su aspetti pur importanti di ingegneria politica che spesso celano in realtà più profonde sfumature identitarie e di prospettiva - come è di recente accaduto con l’aspro dibattito in seno alla Margherita, che ci auguriamo non abbia ripercussioni drastiche e irrecuperabili per l’intera coalizione del centrosinistra reduce da una clamorosa vittoria elettorale - corriamo il rischio di perdere la visione d’insieme e di non percepire con sufficiente lucidità non solo le reali necessità del Paese ma anche eventi o pericoli che ci provengono dall’esterno, lungo quel percorso obbligato e al tempo stesso accidentato che da Strasburgo porta a Roma. Non è propaganda: due spettri si aggirano per l’Europa.

Uno è la Direttiva Bolkestein di cui da qualche mese si è cominciato a parlare anche in Italia e che ha visto diverse mobilitazioni nazionali ed internazionali da parte dei sindacati e delle forze di sinistra, l’altra - di voto recentissimo (11 maggio 2005) - è la Direttiva sull’orario di lavoro.

Si tratta di due facce della stessa medaglia. Entrambe incidono massicciamente sulla vita delle persone, perché spaziano dal welfare ai tempi e ai modi del lavoro. La Commissione Barroso, di impronta ultraliberista, corre il rischio di fare regredire le condizioni di vita e di lavoro di milioni di lavoratori europei. Il testo della Direttiva inizialmente proposto dalla Commissione, infatti, era inaccettabile, pura macelleria sociale.
La versione che è stata emendata ed approvata dal Parlamento europeo non ci piace, ha molti limiti ed è per questo come delegazione del PdCI abbiamo votato contro, ma dobbiamo rilevare che il tentativo di elevare sino a 65 il tetto massimo consentito di ore settimanali o di mantenere l’opting out è fallito. Non si puo’ infatti cantare vittoria, così come hanno fatto diversi europarlamentari italiani dell’Ulivo, perché comunque in materie economiche, finanziarie e sociali l’Europa non ha davvero imboccato la strada giusta: occorrerebbe al più presto una brusca virata. L’Europa, che ora è essenzialmente “l’Europa dei mercati” dovrebbe diventare una entità politica, – certo con criteri internazionali di giustizia sociale ben diversi dagli attuali - unica via per porsi come contraltare rispetto all’unipolarismo americano tanto caro all’amministrazione Bush; disequilibrio unipolare foriero di focolai, cosiddette rivoluzioni di velluto, finanziamenti per attività di sovversione contro governi considerati non amici degli Usa (come Cuba) e guerre preventive in ogni parte del mondo.
Sarebbe d’uopo che la sinistra, anziché soffermarsi molto su discussioni a volte premature, a volte autolesionistiche circa il proprio futuro o il futuro della coalizione, partisse dai bisogni di coloro che si prefigge di rappresentare e parlasse di ingegneria politica e di organigrammi quando già è in medias res.
Sarà dalla Politica, infatti, dalla capacità o meno di essere interlocutori credibili rispetto a quei bisogni, dalla capacità o meno di intercettare quelle domande finora eluse, che nasceranno o meno le condizioni e gli spazi per quelle aggregazioni che ognuno di noi in forme e maniere differenti ha magari già in mente. Penso che i tempi siano maturi perché quella sinistra diffusa che non fa parte della Fed possa trovarsi e discutere per trovare insieme un percorso che parta dai bisogni dei lavoratori e dei cittadini italiani per individuare un progetto convincente e condiviso che abbia al centro le tematiche della pace, del welfare, del lavoro e della giustizia sociale, senza dovere cedere nulla sul terreno della proprie rispettive e legittime identità.

21 maggio 2005