GLOSSARIO DI ECONOMIA

P - R

 

Paesi in via di sviluppo (PVS)

Definizione creata negli anni Sessanta dalle istituzioni internazionali per indicare i paesi del terzo mondo.
Si voleva evitare di definire i paesi del terzo mondo come sottosviluppati, un termine che poteva dare adito a interpretazioni peggiorative.
Si sarebbe potuto scegliere la definizione Terzo mondo, come aveva suggerito Alfred Sauvy all'inizio degli anni Cinquanta per similitudine con la famosa frase pronunciata da Sieyés sul Terzo Stato (che non è nulla e aspira a diventare tutto) in occasione degli Stati generali del 1789. Ma il termine, così come quello di non allineati proposto nel 1954 in occasione della Conferenza di Bandung, era stato rifiutato da alcuni paesi che, sebbene poco industrializzati, rifiutavano un'etichetta che li avrebbe classificati in un campo intermedio tra i paesi socialisti e i paesi capitalisti. Per questi paesi non aver avviato un processo di industrializzazione non implicava necessariamente che non si dovesse scegliere tra i due grandi modelli di sviluppo che all'epoca si contrapponevano. Da ciò deriva, per difetto, il termine in via di sviluppo, che designa un processo in via di formazione, che non pregiudica le future scelte politiche e tecniche. Purtroppo il termine è ben presto diventato un eufemismo a causa dell'accentuarsi, soprattutto a partire dai primi anni Ottanta, delle disuguaglianze nel ritmo di crescita tra i paesi in via di sviluppo. Le condizioni delle istituzioni e delle infrastrutture, a causa dei conflitti politici, di clan o religiosi, sono così gravi che in alcuni casi si può parlare addirittura di paesi in via di sottosviluppo. Questo fallimento ha provocato una crisi che ha influito anche sul crollo dell'Urss all'inizio degli anni Novanta.

Paradiso fiscale

Territorio il cui sistema fiscale è debole o inesistente.
Il Liechtenstein, le isole Caiman, alcune isole anglo-normanne, la Svizzera (a un grado minore) sono paradisi fiscali che, di fatto, attirano numerose società che lì stabiliscono teoricamente la loro sede sociale (conservando di fatto le loro attività in altri luoghi). Il paradiso fiscale è in genere uno stato minuscolo, o addirittura una piccola parte di uno stato che beneficia di un regime fiscale vantaggioso. Inoltre, un paradiso fiscale può attirare i contribuenti che cercano di sfuggire alle imposte solo se dimostra di discrezione di fronte agli organismi internazionali o stranieri.

Parità centrale

Nell'ambito del Sistema monetario europeo indica il corso teorico che una moneta di un paese membro del sistema deve osservare. Un certo margine di fluttuazione è autorizzato al di sopra e al di sotto di questa parità centrale (il 2,5% fino all'agosto 1993, diventato poi il 15%) e ogni Banca centrale ha l'obiettivo di vigilare che il corso effettiva della propria moneta resti all'interno di questo margine di fluttuazione.

Pensionamento

Cessazione di attività accompagnata dal versamento di un reddito, la pensione, finanziata dai contributi versati durante la vita attiva.
La pensione non può essere liquidata prima di un'età determinata dalla legge. In Italia tale soglia è fissata (ma è in atto la solita riforma berlusconiana), a regime, a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, nel caso della pensione di vecchiaia, e a 57 anni per donne e uomini nel caso della pensione unica introdotta con la riforma previdenziale del 1995.
Il finanziamento delle pensione può essere a ripartizione oppure a capitalizzazione. Nel primo caso l'insieme dei contribuenti versa i contributi a un organismo che li ripartisce fra gli aventi diritto, in proporzione al punteggio (anzianità di servizio o altri titoli) acquisito da ciascuno. La massa da ripartire dipende dunque dalla massa dei contributi annuali. Beninteso, gli organismi che sovrintendono alle pensioni possono costituire delle riserve negli anni in cui le entrate sono buone, al fine di bilanciare le prestazioni ed evitare che queste ultime varino troppo da un anno all'altro. Ma a lungo termine l'ammontare delle pensioni dipende fondamentalmente dal rapporto tra la massa dei contributi e l'insieme dei pensionati. Se il rapporto si deteriora e se i contribuenti rifiutano di aumentare i versamenti, i pensionati dovranno accontentarsi di una pensione ridimensionata, almeno in via teorica. Si comprende bene come questo rischio possa rimettere in causa il patto tra generazioni sulla base del quale il sistema funziona: accetto di pagare per gli altri solo perché so che un giorno gli altri pagheranno per me allo stesso modo.
È per questo che molti sono favorevoli a un sistema a capitalizzazione: in questo sistema non esiste un contratto fra generazioni, perché ciascuno paga per sé versando i contributi a un Fondo pensione che investe sul mercato finanziario e ottiene rendimenti che permetteranno di pagare la pensione: nella capitalizzazione ciascuno ha la sensazione di pagare per sé non per gli altri. In realtà non è vero perché in tutti e due i casi il pagamento delle pensioni si basa su un prelevamento operato sul reddito degli attivi. Il risparmio di oggi non si trasferisce nel tempo: si traduce solamente in diritti che, quando saranno esercitati, diminuiranno di altrettanto i redditi disponibili per gli attivi di domani. Di conseguenza, ripartizione o capitalizzazione che sia, gli attivi di domani dovranno comunque accettare di vedere i loro redditi salassati. Nel caso della ripartizione, l'accordo si concretizzerà sotto forma di contributi più o meno elevati; nel caso della capitalizzazione, si concretizzerà sotto la forma di redditi da capitale più o meno elevati.
I due sistemi non sono tuttavia identici. Il primo esercita una certa perequazione, poiché l'ammontare della pensione è funzione del punteggio acquisito da ognuno ma anche dell'ammontare totale dei contributi prelevati. Al contrario, in un sistema a capitalizzazione conta solo il punteggio di ciascuno e il rendimento degli investimenti effettuati dai Fondi pensione. Coloro che avranno avuto la sfortuna di versare i loro contributi a fondi mal gestiti o saranno vittime dell'inflazione avranno solo gli occhi per piangere, mentre saranno privilegiati coloro che avranno versato molto.

Piano Marshall

Programma di ricostruzione dell'Europa dopo la seconda guerra mondiale, proposto nel 1947 dal segretario di stato americano George Marshall, accettato dai paesi occidentali e rifiutato dai paesi della zona di influenza sovietica.
Il Piano Marshall segna anche l'inizio della guerra fredda - poiché l'Urss vi vide l'organizzazione di una zona di influenza americana in Europa, e di conseguenza costituì per proprio conto una zona di influenza con i paesi sotto il suo controllo - e l'inizio della ricostruzione europea. Il piano Marshall è stato imponente: circa 80 miliardi di dollari di oggi furono distribuiti tra una quindicina di paesi. Il piano Marshall consisteva in realtà in dollari spendibili solo nell'acquisto di prodotti americani: il prodotto della loro vendita in moneta locale doveva essere versato su un conto speciale che serviva a finanziare le spese delle truppe americane in Europa, nonché le spese pubblicitarie delle imprese americane in Europa. Così il piano Marshall, sebbene abbia effettivamente accelerato la ricostruzione europea riducendo il dollar gap (l'insufficienza di dollari) che frenava la ripresa della crescita, ha anche fatto gli interessi della Coca Cola, della Ford, della Ibm e così via.

Prodotto interno lordo (Pil)

Il Pil è ormai (dal 1977) l'aggregato di base nel sistema di contabilità nazionale raccomandato dall'Onu e quello preso in considerazione dall'Ufficiò statistico delle Comunità europee.
Il termine interno significa che tiene conto dei valori aggiunti di tutte le imprese che operano all'interno del territorio. Se imprese straniere che operano in Italia versano ai loro proprietari dei dividendi, questi ultimi fanno parte del Pil. Non bisogna quindi confondere il Pil con il Pnl (Prodotto nazionale lordo): questo, al contrario, comprende i redditi rimessi dai cittadini residenti all'estero e non considera i redditi degli stranieri versati nei loro paesi di origine. Il termine lordo significa che l'ammontare è considerato prima degli ammortamenti dei beni strumentali. Non tutto il Pil quindi è distribuibile: bisogna rinnovare i macchinari logori od obsoleti, altrimenti si corre il rischio di impoverirsi.
Il Pil addiziona l'insieme delle attività creatrici di reddito (in moneta o in natura, come ad esempio gli orti familiari o la disponibilità di un appartamento di cui si è proprietario). Per evitare di contarla due volte, l'attività di ogni operatore è misurata a partire dal valore aggiunto che crea: questo valore aggiunto finisce sempre per essere suddiviso in redditi e diretto alle famiglie, alle amministrazioni pubbliche (Iva, altre imposte sulla produzione) o, ancora, alle stesse imprese (utili non distribuiti).
Si è molto criticato il Pil come indicatore di ricchezza, sottolineando ad esempio che un incidente della strada o la produzione di un'arma mortale rientrerebbero nell'ammontare del Pil allo stesso titolo di altre attività produttrici di benessere. È anche vero però che il Pil non pretende di misurare il benessere, ma solo l'ammontare dei redditi indipendentemente dalla loro origine produttiva. É quindi un indicatore molto riduttivo, al quale non si può far dire più di quello che è per un paese avere un Pil elevato non informa sulla qualità di vita dei suoi abitanti o sulla capacità del paese di offrire a tutti un benessere duraturo. In compenso il Pil misura il potere di acquisto disponibile di un'economia, cioè la sua potenza. É per questo motivo che, pur trattandosi di un indicatore insufficiente, permette di misurare le capacità di cui dispone una nazione nella competizione mondiale.

Plusvalore

Nel linguaggio borsistico indica la valorizzazione di un titolo, il cui prezzo di vendita diventa superiore al prezzo di acquisto. Il plusvalore è solo potenziale finché la vendita del titolo in questione non ha permesso di concretizzarlo.
Nel linguaggio marxista indica il valore creato dalla forza lavoro ma detenuto da colui che l'ha affittata, cioè dal datore di lavoro del o dei lavoratori.
Per Marx il plusvalore è il risultato di un meccanismo inevitabile. Ogni merce è venduta al suo valore di mercato, cioè a un prezzo che riflette la quantità di lavoro diretto e indiretto (quello incorporato nei beni strumentali e di produzione) necessario per produrla. La forza lavoro del proletario, che non dispone di alcun mezzo di produzione e che è costretto a vendere questa forza lavoro, è una merce: il valore della forza lavoro è quindi determinato dalla quantità di lavoro che in media è necessaria per produrla (più esattamente per riprodurla, in altre parole per permettere al lavoratore di poter lavorare efficientemente il giorno dopo).
Il plusvalore trova la sua genesi nella differenza tra il valore creato dalla forza lavoro (a vantaggio del datore di lavoro) e il valore della merce forza lavoro: un salariato ad esempio è impiegato per produrre nel corso di 10 ore, mentre la sua forza lavoro può essere ricostituita grazie all'acquisto di merci che costerebbero solo cinque ore di lavoro. La differenza tra ciò che produce la forza lavoro e quello che costa - il salario - è il plusvalore.
Questa analisi è; interessante perché mostra l'intenzione di Marx di sfuggire alla critica moralista: sebbene accusi il sistema capitalistico di generare lo sfruttamento dei lavoratori, non accusa i capitalisti di esserne responsabili. Questi non fanno che applicare le regole del sistema: comprano la forza lavoro al suo valore, vendono le merci prodotte da quella stessa forza lavoro al loro valore. Non c’è furto. Lo sfruttamento risulta dal sistema e non dagli uomini (che si limitano a trarne profitto).
Bisogna quindi cambiare il sistema, non solo gli uomini. Marx chiama tasso di plusvalore il rapporto tra il salario (prezzo della forza lavoro) e il valore creato dalla forza lavoro. Non bisogna confondere questo tasso di profitto che determina l'ammontare del plusvalore con l'insieme dei fondi (capitale) che il capitalista anticipa per mettere in valore la forza lavoro: anticipo del salario (capitale variabile), anticipo dei fondi investiti in macchinari, in scorte di magazzino o in crediti (capitale costante).

Prodotto nazionale lordo(Pnl)

Aggregato di contabilità nazionale calcolato negli Stati Uniti (e non in Europa) per misurare l'insieme dell'attività economica del paese.
Il Pnl si differenzia dal Pil solo su un punto: si tratta di un aggregato nazionale e non interno. Ciò significa che sono prese in considerazione le attività delle imprese nazionali che operano fuori dal paese (per quanto riguarda l'ammontare di redditi che queste imprese o i loro dipendenti versano nel paese), mentre non è contabilizzata l'attività delle imprese straniere che operano sul territorio interno (almeno per la parte di questa attività che genera versamenti di reddito all'estero). Nella grande maggioranza dei paesi la differenza tra Pil e Pnl è quasi trascurabile.

Politica di Bilancio

In un'economia di mercato indica l'utilizzazione del Bilancio dello stato (uscite ed entrate) per agire sul ritmo della crescita economica.
La politica di Bilancio non indica gli orientamenti politici o sociali del Bilancio dello stato (a chi sono dirette le uscite, chi paga le entrate e quanto). Questa politica indica solo l'influenza globale che queste entrate e uscite sono in grado di esercitare sull'attività economica attraverso le somme che preleva dalle tasche dei contribuenti e che versa in quelle dei beneficiari della spesa pubblica. Se le uscite sono superiori alle entrate, il Bilancio tende ad aumentare la domanda globale, quindi a stimolare l'attività economica. Nel caso inverso - entrate superiori alle uscite - il Bilancio esercita un effetto di freno. Del resto questo effetto può risultare semplicemente da una modifica dell'ammontare del disavanzo o dell'avanzo: se l'avanzo cresce, l'azione di freno si accentua; se diminuisce, il freno sull'economia è più leggero.
La politica di Bilancio agisce tramite il saldo delle uscite e delle entrate. Una stessa politica di Bilancio - ad esempio espansionistica - può risultare da una riduzione delle entrate (alleggerimento delle imposte) o da un aumento delle uscite: è facile indovinare che nei due casi i beneficiari dello stimolo non saranno gli stessi.
Ecco perché una stessa politica di Bilancio può essere istituita nel quadro di politiche sociali diverse.
Il trattato di Maastricht, stabilendo un limite massimo del disavanzo di Bilancio dei paesi aderenti alla moneta unica, riduce l'ampiezza delle politiche di Bilancio praticabili da ogni stato membro.
A meno di rinunciare a questo tipo di politica economica, si pone il problema di sostituire il budget Comunitario, come strumento di politica economica, ai singoli bilanci nazionali.

Politica sociale

Insieme dei dispositivi destinati a proteggere una popolazione, o una parte di questa popolazione, contro alcuni rischi sociali che possono provocare un aumento delle spese o delle difficoltà o, ancora, un blocco o una diminuzione dei redditi di attività: malattia, dipendenza, nascita di figli, morte di un coniuge o di parenti, vecchiaia.
In genere la politica sociale è obbligatoria. Ciò per evitare che, per incuria o per calcolo, una persona che non si sia premunita contro un rischio finisca a carico della società senza aver partecipato al finanziamento di questa spesa. Ma non sempre è così: ad esempio nel settore dell'assicurazione contro la malattia i sistemi previdenziali integrativi (che si assumono le spese non rimborsate dalla Previdenza sociale) rimangono in gran parte nelle mani dei privati. Si tratta del resto di uno dei grandi problemi della nostra società: determinare a partire da quale soglia la politica sociale debba essere una decisione privata, individuale o aziendale.
La politica sociale è una forma collettiva di assicurazione che può accompagnarsi a una redistribuzione del reddito più o meno importante tra chi paga e chi riceve. Tuttavia la politica sociale e la redistribuzione del reddito non sono necessariamente legati: è sufficiente definire delle classi di rischio più o meno precise e legare i contributi versati all'appartenenza di questa o quella classe di rischio (sull'esempio dell'assicurazione automobilistica) per ridurre o addirittura eliminare la redistribuzione. Fare quindi della politica sociale un indice della presenza statale nella società costituisce un duplice errore: prima di tutto perché la politica sociale non è sempre fatta dallo stato (in Francia il sussidio di disoccupazione è nato da un accordo paritario e non da una decisione pubblica), in secondo luogo perché la politica sociale può dipendere più dall'assicurazione che dalla redistribuzione del reddito.
Istituzionalmente in Francia la politica sociale è costituita da tre elementi: - la previdenza sociale composta da organismi che prelevano contributi obbligatori e assicurano prestazioni legali determinate oggettivamente (in base ai contributi o in funzione della situazione personale) e versate automaticamente; - l'aiuto sociale che prevede alcune prestazioni legali versate a persone che versano in particolari difficoltà (condizioni stabilite da una commissione): reddito minimo di inserimento professionale, pensioni di invalidità, contributi a persone invalide, ecc.; - l'intervento sociale che prevede alcune prestazioni facoltative versate da vari organismi (comitati aziendali, mutue, ecc.) tra i quali possono figurare organismi di previdenza sociale.

Prelievo alla fonte

Indica il prelievo di un onere obbligatorio o convenzionale (imposta, contributo) da parte del datore di lavoro sul salario di un dipendente, prima che questo venga versato. Ogni prelievo alla fonte riduce dunque di altrettanto l'ammontare del salario netto.

Prelievo obbligatorio

Indica l'insieme delle imposte (votate dal parlamento) e dei contributi sociali obbligatori (fissati per legge.

Prestatore in ultima istanza

Si definisce così la Banca centrale, il cui ruolo è quello di fornire capitali liquidi alle banche commerciali ed è quindi incaricata di vigilare che gli istituti di credito ne abbiano a sufficienza per affrontare le richieste di prelievo di denaro liquido, che in alcuni momento dell'anno (ad esempio prima di Natale) o in alcune circostanze (voci allarmanti, momenti di panico) aumentano notevolmente.
L'esistenza di un prestatore in ultima istanza contraddistingue un sistema monetario solido, poiché offre a questo sistema la flessibilità necessaria per affrontare gli imprevisti. È proprio per questo motivo che il sistema monetario internazionale, non disponendo di un prestatore in ultima istanza - non c'è un'istituzione incaricata di regolare la liquidità internazionale -; instabile e fonte potenziale di squilibri.

Principio di sussidiarietà

Significa che un'autorità superiore deve intervenire per risolvere un problema o assicurare l'ordine solo se l'autorità di grado immediatamente inferiore non ; in grado di farlo a causa del suo limitato raggio di azione.
Le autorità comunali ad esempio, in virtù del principio di sussidiarietà, devono avere il potere per risolvere un problema riguardante il loro comune. In concreto il principio di sussidiarietà conduce a una società largamente decentralizzata, poiché sono i piani inferiori della società che devono risolvere i problemi e che possono decidere autonomamente di fare ricorso ai piani superiori. Questo principio, difeso dalla dottrina sociale della chiesa (soprattutto in reazione agli sconfinamenti di un potere centrale giudicato troppo universale), è recentemente tornato di attualità in occasione della costruzione europea: in questo caso si tratta di attribuire alle autorità europee solo poteri limitati e di riaffermare i poteri prioritari dei singoli stati.

Privatizzazione

Indica sia il trasferimento a privati delle proprietà di un'impresa detenuta dalla società sia un modo di gestione caratterizzato dalle regole del mercato (ricerca del massimo profitto).
Il secondo significato è meno utilizzato: l'esempio più noto è quello della Renault. Si tratta infatti di un'impresa nazionalizzata nel 1945 che, non essendo mai stata incaricata di una missione di servizio pubblico, non aveva motivo per derogare alle norme imposte ai suoi concorrenti. Così la Renault, benché impresa pubblica, ha sempre avuto un funzionamento di tipo privatizzato.
Nel senso abituale del termine - trasferimento di proprietà ai privati - si ha privatizzazione di un'impresa quando una frazione, anche di minoranza, del capitale sociale è venduta dal potere pubblico a privati. Infatti per evitare che questi ultimi si sentano danneggiati, è necessario che l'impresa si ponga l'obiettivo di massimizzare i profitti. Di conseguenza l'introduzione di interessi privati costringe l'impresa a modificare le sue regole di funzionamento. Tuttavia da un punto di vista legale, finché il potere pubblico rimane maggioritario, si può parlare solo di privatizzazione parziale, poiché; la società ha sempre la possibilità di imporre le norme che preferisce, in virtù del suo potere di controllo maggioritario.

Prodotto derivato

Indica un titolo finanziario il cui valore di base è determinato dall'evoluzione dei corsi di una merce, di un titolo o di un insieme di altri titoli.
Il mercato sul quale si quotano i prodotti derivati è sempre un mercato a termine. Si tratta infatti di eliminare il rischio di una fluttuazione dei corsi che riguardano il prodotto derivato.
Se ad esempio non ho paura che le divise che devo comprare possano aumentare nei prossimi tre mesi, posso scegliere di comprarle oggi a termine: il corso è fissato oggi, ma la consegna e il pagamento sono rimandati a una data ulteriore chiamata termine. Se invece di comprare (o di vendere) divise, io scelgo di comprare (o di vendere) un contratto standard proposto da una borsa valori e costituito da un determinato (e fisso) paniere di divise, mi premunisco contro il rischio comprando (o vendendo) un prodotto derivato. Infatti questo contratto standard ha un valore che cambia in funzione delle divise che lo compongono. Il rischio può anche essere quello di una variazione del tasso di interesse (se prendo a prestito a tasso variabile, perdo tutte le volte che il tasso di interesse sale e guadagno tutte le volte che il tasso scende): per premunirmi contro il rischio di perdere denaro, posso comprare subito il Future, un contratto a termine figurativo il cui valore deriva da un certo portafoglio di obbligazioni a scadenza determinata: i corsi del contratto a termine figurativo evolvono quindi in funzione delle fluttuazioni del tasso di interesse, così le eventuali perdite che subirei per aver preso a prestito sarebbero compensate dai guadagni realizzati in quanto acquirente di titoli. Ma ciò è interessante solo se il contratto figurativo che mi serve da assicurazione non è pagabile immediatamente, altrimenti ciò equivarrebbe a prendere in prestito per comprare titoli. Il mercato dei prodotti derivati esige quindi immobilizzi minimi di capitali: è per questo motivo che attira non solo gli operatori che cercano di assicurarsi contro eventuali rischi, ma anche operatori che cercano di trarre profitto da questi stessi rischi. Si tratta quindi di un mercato nel quale regna una forte speculazione, che provoca regolarmente clamorosi scandali; infatti molti operatori che praticano la speculazione (responsabili finanziari di imprese, gestori di fondi pensione, agenti bancari, ecc.) lo fanno con fondi che non sono loro.

Produttivismo

Indica la scelta di tecniche di produzione che riducono al minimo indispensabile la quantità di lavoro impiegata, senza preoccuparsi delle conseguenze sociali (sui lavoratori e sulla società) ed ecologiche (sull'ambiente).
Il produttivismo è stato soprattutto criticato nell'agricoltura dei paesi industrializzati, in cui la volontà di ridurre i costi di produzione ha portato alla distruzione delle siepi, all'uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi, all'abbandono dei terrazzamenti e delle terre troppo scoscese, alla monocoltura, ecc.. Si tratta peraltro di fenomeni che provocano gravi effetti esterni negativi, ma non sostenuti dagli agricoltori.

Produttività

Indica l'efficienza con la quale il lavoro umano è utilizzato in un'operazione produttiva. Per estensione misura l'efficienza con la quale alcuni o tutti gli elementi di produzione sono utilizzati. Si parlerà ad esempio di produttività del capitale per indicare l'efficienza con la quale le attrezzature necessarie alla produzione sono utilizzate.
La produttività si misura a partire dai rapporti di produzione: per la produttività del lavoro il rapporto più utilizzato è quello che confronta la produzione finale (in valore o in quantità) con il numero di ore di lavoro che sono state necessarie per realizzarla (si ottiene così la produttività oraria apparente del lavoro; apparente perché non tiene conto dell'eventuale aumento o diminuzione del ricorso ad altri mezzi di produzione, che hanno contribuito a diminuire o aumentare l'utilizzazione del lavoro diretto). La produttività del capitale pone maggiori problemi, perché non si può utilizzare al denominatore un'unità fisica a causa dell'eterogeneità delle attrezzature utilizzate. Si è quindi costretti a misurare la produttività del capitale in valore; ma il valore delle attrezzature (in realtà il loro prezzo di acquisto) riflette, in una certa misura, la loro efficienza futura, poiché questa efficienza genera una domanda più o meno elevata, dunque tende a spingere più o meno verso l'alto i prezzi di vendita. Ciò equivale a dire che si misura l'efficienza del capitale a partire da un rapporto nel quale entra in considerazione l'efficienza anticipata dagli acquirenti.
Questa difficoltà, sottolineata dalla economista inglese Joan Robinson, non è stata mai veramente risolta. Questa studiosa concludeva che il concetto di produttività del capitale (e di capitale) non aveva senso. La grande maggioranza degli economisti contemporanei, anche se ammettono che si tratta di un problema metodologico importante, ritengono che ciò non debba portare alla rinuncia della misura, ma solo a rendere più circoscritta l'interpretazione.
La misura della produttività si compie sia in volume (quando si utilizzano unità fisiche al numeratore, ad esempio tonnellate di farina per ora di lavoro - o quando si utilizzano grandezze monetarie facendo attenzione a eliminare i prezzi più alti e più bassi di un determinato anno) sia in valore (quando si utilizzano unità monetarie). Si chiama incremento di produttività l'evoluzione nel tempo (abitualmente un anno) di questa misura.
La produttività media indica il rapporto tra la produzione realizzata e l'insieme del lavoro fornito (o l'insieme del capitale utilizzato).
La produttività marginale indica il rapporto tra l'aumento di produzione e l'aumento di lavoro (o di capitale) necessario per assicurare questo aumento di produzione. Quando la produttività marginale ; inferiore alla produttività media si ha interesse ad aumentare la produzione, poiché è necessario relativamente meno lavoro (o capitale) per ottenere quella produzione rispetto a prima. In questo caso si realizzano delle economie di scala.
La produttività globale dei fattori è un modo di calcolo complesso diretto a confrontare la produzione finale con l'insieme dei mezzi di produzione utilizzati in questa produzione: il lavoro, le attrezzature, eventualmente l'energia, la superficie di terra, ecc.. Si tratta di misurare se un aumento di produzione genera un aumento di utilizzazione dei mezzi di produzione della stessa portata: se non è questo il caso (ad esempio se la produttività del lavoro e quella del capitale aumentano entrambe) si indica con aumento di produttività l'aumento di produzione legata a un'utilizzazione più efficiente dell'insieme dei mezzi di produzione adoperati. L'aumento di produttività misura quindi, meglio dell'incremento di produttività apparente del lavoro, il miglioramento dell'efficienza di un determinato processo produttivo.
Per gli economisti gli incrementi di produttività (e, meglio ancora, i surplus di produttività) sono auspicabili in quanto misurano aumenti di ricchezza che possono essere redistribuiti, quindi un aumento del potere di acquisto di alcuni. Ma per i lavoratori dipendenti gli incrementi di produttività possono anche significare un degrado delle condizioni di lavoro (ad esempio il lavoro domenicale o notturno che, riducendo le necessità di attrezzature supplementari per ottenere una produzione supplementare, si materializza con un surplus di produttività) o una minaccia per la loro occupazione (perché; se la domanda non progredisce allo stesso ritmo degli incrementi di produttività apparente del lavoro, sarà necessario meno lavoro diretto per soddisfarla).
Si tratta quindi di un concetto ambivalente, che pone una domanda fondamentale, quella del significato dell'azione economica: fino a che punto un aumento di ricchezza prodotta (e distribuita) è auspicabile e a partire da quando l'aumento del potere di acquisto di alcuni produce un deterioramento del tenore di vita di altri?
Questioni difficili, perché costringono a paragonare grandezze quantitative (incremento di produttività e quindi surplus di ricchezze distribuibili) con dimensioni qualitative, e a compiere scelte tra gruppi sociali (poiché; solo alcuni, e non tutti, hanno interesse ad avere incrementi di produttività). Su quest'ultimo punto, i liberali sostengono che inevitabilmente la mano invisibile del mercato finirà per distribuire gli incrementi di produttività a tutti o a gran parte della popolazione. Ma non è così semplice e questa è la ragione per la quale l'economia rimane profondamente influenzata dalle scelte politiche: chi si deve favorire e chi, invece, danneggiare nelle scelte collettive che una società è talvolta portata a compiere.

Profitto

Reddito ottenuto da chi offre i capitali (in senso finanziario) in cambio della loro disponibilità.
Profitto e utile sono spesso considerati la stessa cosa. Non è del tutto vero: l'utile è una nozione contabile, mentre il profitto è una categoria economica. La differenza tra i due non dipende solo dal fatto che i commercialisti, per prudenza, deducono dai risultati i fondi destinati ad affrontare le spese future o eventuali: per questo motivo prudenziale l'utile contabile è; abitualmente minore rispetto ai profitti. Ma entra in gioco anche un altro fattore, ancora più importante: per i commercialisti il capitale preso in prestito produce oneri finanziari che vanno dedotti dagli utili. Al contrario per gli economisti il profitto è la remunerazione del capitale (nel senso finanziario del termine), indipendentemente dal fatto che questo sia messo a disposizione dai proprietari o che sia preso in prestito.
Il profitto deve quindi essere calcolato prima del pagamento degli oneri finanziari.
Sempre dal punto di vista economico il profitto può essere definito come il reddito dell'attività di imprenditore, cioè diretto a remunerare il fatto di prendere dei rischi mettendo sul mercato prodotti senza sapere se a quel prezzo saranno comprati. Anche questo tipo di definizione può essere contestata, perché l'imprenditore - nel senso economico del termine, cioè di colui che intraprende, e non del semplice proprietari o dell'impianto produttivo - contribuisce spesso con il suo lavoro e non è in genere il solo a portare capitale. In altri termini il reddito dell'imprenditore remunera non solo il rischio, ma anche il lavoro, soprattutto nel caso di un lavoratore autonomo. Il profitto, al contrario, è una categoria astratta: gli economisti, quando ne parlano, sottintendono che la remunerazione del lavoro è stata interamente dedotta (ad esempio sotto forma di salario della direzione).
In un'economia di tipo capitalistico il ruolo del profitto è ovviamente essenziale, poiché il livello di remunerazione del capitale (o tasso di profitto) orienta la destinazione di quest'ultimo. Per chi dispone di fondi da prestare o da immobilizzare, il livello di remunerazione offerto o promesso determina spesso la scelta dei settori nei quali investire il capitale. Il profitto svolge un ruolo di orientamento: il suo ammontare passa in secondo piano rispetto al suo ruolo nella determinazione della struttura produttiva di un paese e nell'orientamento delle specializzazioni scelte. Per Marx la critica del profitto (il plusvalore nel linguaggio marxista) è più di natura economica che di natura morale (“non è giusto guadagnare un reddito senza dover lavorare”): il tasso di profitto quindi svolge un cattivo ruolo di orientamento, perché riflette solo le realtà del mercato e non i bisogni della società.

Protezione sociale

Insieme dei dispositivi destinati a proteggere una popolazione, o una parte di questa popolazione, contro i rischi sociali provocati da un aumento delle spese o delle difficoltà o, ancora, da un blocco o da una diminuzione dei redditi di attività: malattia, dipendenza, nascita di figli, morte di un coniuge o di parenti, vecchiaia.
In genere la protezione sociale è obbligatoria. Ciò per evitare che, per incuria o per calcolo, una persona che non si sia premunita contro un rischio finisca a carico della società senza aver partecipato al finanziamento di questa spesa. Ma non sempre è così: ad esempio nel settore dell'assicurazione contro la malattia i sistemi previdenziali integrativi (che si assumono le spese non rimborsate dalla Previdenza sociale) rimangono in gran parte nelle mani dei privati. Si tratta del resto di uno dei grandi problemi della nostra società: determinare a partire da quale soglia la protezione sociale debba essere una decisione privata, individuale o aziendale.
La protezione sociale è una forma collettiva di assicurazione che può accompagnarsi a una redistribuzione del reddito più o meno importante tra chi paga e chi riceve. Tuttavia la protezione sociale e la redistribuzione del reddito non sono necessariamente legati: è sufficiente definire delle classi di rischio più o meno precise e legare i contributi versati all'appartenenza a questa o quella classe di rischio (sull'esempio dell'assicurazione automobilistica) per ridurre o addirittura eliminare la redistribuzione. Fare quindi della protezione sociale un indice della presenza statale nella società costituisce un duplice errore: prima di tutto perché la protezione sociale non è sempre opera dello stato, e poi perché la protezione sociale può dipendere più dall'assicurazione che dalla redistribuzione del reddito.

Protezionismo

Pratica destinata a ridurre l'ampiezza della concorrenza estera.
Il protezionismo si basa su tre tipi di strumenti: tariffe doganali (dazi doganali), restrizioni quantitative (esistenza di contingenti di importazione per un dato prodotto) e le protezioni non tariffarie (ad esempio l'emanazione di norme ambientali concepite in modo tale da impedire l'accesso sul mercato nazionale di alcuni prodotti esteri). Il primo tipo di strumento è ormai sottoposto a regole ben precise: i dazi doganali possono aumentare solo per periodi limitati e a condizione che il paese che li adotta dimostri che la concorrenza estera danneggia gravemente l'apparato produttivo nazionale. Le restrizioni quantitative sono in linea di principio vietate, ma sono tollerate in caso di un accordo bilaterale tra le parti interessate. Così il protezionismo tende a nascondersi sempre di più dietro giustificazioni di tipo ambientale, sociale o consumistico, giustificazioni che sono spesso chiamate la zona grigia del protezionismo, perché è difficile sapere se queste norme sono state adottate per proteggere il mercato nazionale o per ragioni non commerciali.
Il protezionismo va considerato positivamente o negativamente?
La teoria economica dominante è concorde nel criticare questa pratica. Tuttavia l'esperienza mostra che il protezionismo, ufficiale od occulto, è sempre stato il comportamento consueto degli stati, e che il libero scambio è raccomandato solo dai paesi dominanti sapendo che è a loro favorevole. La realtà quindi è complessa: il protezionismo, come il libero scambio, comporta dei vincitori e dei vinti, e spesso è il rapporto di forze tra queste due categorie che determina la scelta finale. Da un punto di vista nazionale l'esperienza storica fa vedere che i paesi più liberoscambisti non hanno conosciuto una crescita più rapida degli altri. La superiorità del libero scambio sembra quindi più teorica che pratica. In ogni modo il libero scambio, per i problemi che inevitabilmente genera, costringe i paesi interessati a negoziare accordi, mentre il protezionismo assomiglia piuttosto una forma di guerra mascherata, che può facilmente trasformarsi in un meccanismo di sanzioni reciproche.

Ragione di scambio

Indica il rapporto tra il prezzo unitario all'esportazione e il prezzo unitario all'importazione, con entrambi i prezzi espressi nella medesima unità monetaria. Nel caso in cui il primo aumenti più del secondo, la ragione di scambio migliora: le stesse quantità esportate consentono di acquistare una quantità maggiore di prodotti importati. Se invece i prezzi all'esportazione aumentano di meno dei prezzi all'importazione, vi è un peggioramento della ragione di scambio: è necessario vendere più prodotti per ottenere lo stesso potere d'acquisto in prodotti importati.
Il calcolo della ragione di scambio pone seri problemi metodologici. In effetti un paese esporta e importa un numero elevato di prodotti differenti: il calcolo di un prezzo unitario è basato quindi su una media che può essere messa in discussione se si modifica la struttura delle esportazioni o delle importazioni.
Se un paese ad esempio esporta automobili di lusso e utilitarie, un aumento del prezzo unitario dell'automobile esportata può essere dovuto al fatto che si esportano più vetture di lusso, oppure al fatto che il prezzo unitario di ciascun tipo di automobile è cresciuto. Poiché si incontrano molteplici problemi di questo genere per giungere a determinare un prezzo medio e poiché lo stesso può dirsi per le importazioni, si comprende come gli economisti abbiano a lungo dibattuto sulla questione. Particolare attenzione è stata posta sull'eventuale peggioramento della ragione di scambio di cui sarebbero vittime i paesi del Sud con l'intensificarsi dello scambio internazionale con il Nord.
Ma non è tutto, un paese che subisce un peggioramento della sua ragione di scambio dovrebbe diventare più povero, poiché deve vendere quantità sempre maggiori di prodotti per acquistare la medesima quantità di prodotti importati. In realtà può accadere che la diminuzione dei prezzi sia dovuta al fatto che, grazie a importanti incrementi di produttività, quel paese necessiti di tempi di lavoro sempre più ridotti per produrre i beni che esso esporta, il che gli permette di diminuire i prezzi all'esportazione senza registrare delle perdite. Per risolvere la questione, conviene calcolare la ragione di scambio fattoriale, cioè ponderando i prezzi in funzione delle quantità di lavoro impiegate. Ma anche in questo caso, la complessità del calcolo è tale che sono assai rari i casi in cui si possa giungere a una conclusione chiara.
Tuttavia l'effettivo peggioramento della ragione di scambio dei paesi esportatori di materie prime è fuor di dubbio: il debole aumento della domanda, la moltiplicazione dei produttori, la ridotta importanza dei beni esportati e l'intensa concorrenza che regna sul mercato delle materie prime determinano una diminuzione dei prezzi unitari superiore a quella che potrebbe essere spiegata con i soli incrementi di produttività. La lezione è chiara: per un paese la specializzazione nelle materie prime non porta con s; molte speranze di sviluppo.

Rating

Termine che indica la valutazione da parte di un'agenzia specializzata sulla struttura finanziaria di una società (o eventualmente di una società locale), quindi sulle sue capacità di rispettare gli impegni (debiti) e il rischio assunto dai suoi creditori.
Con l'affermarsi della globalizzazione finanziaria le agenzie di rating hanno assunto un ruolo crescente. Infatti i potenziali creditori hanno bisogno di conoscere con precisione i rischi ai quali si espongono sottoscrivendo i titoli del debito emessi da una società o da una società territoriale che spesso non conoscono affatto. Per chi prende a prestito i capitali, il rating determina il tasso di interesse al quale dovranno emettere i loro titoli: più ; alto il rischio, maggiore sarà
il tasso di interesse offerto. Le due principali agenzie di rating sono Standard&Poor's e Moody's.

Redditi da capitale

Redditi prodotti dai frutti della proprietà di un patrimonio. In genere i redditi da capitale non comprendono i redditi dei lavoratori autonomi, anche se per alcuni di essi (ad esempio i coltivatori diretti) il reddito professionale è in parte il prodotto dei frutti della proprietà di un capitale.

Reddito

Ricchezza creata da un'attività produttiva che può essere consumata senza impoverirsi di altrettanto.
Ognuno sa che vivere del reddito del proprio lavoro (o eventualmente del proprio capitale) non è la stessa cosa che vendere l'argenteria di casa per pagare i debiti. Nel primo caso non ci si impoverisce, nel secondo sì. Il reddito è quindi ciò che si può consumare senza impoverirsi. Ciò pone due problemi. Prima di tutto quello dell'ammontare del reddito: a partire da quando ci si comincia a impoverire prelevando sui flussi prodotti dall'attività economica? In secondo luogo, quello della distribuzione del reddito: chi deve beneficiare della nuova ricchezza che si può consumare?
Sul primo punto alcune situazioni non pongono problemi: in un'economia agricola - in cui ogni produttore di grano deve conservare una parte del raccolto per la successiva semina - colui che mangia le proprie sementi è rapidamente destinato a non produrre più. Ma in un'economia monetaria le cose non sono così evidenti: estrarre e bruciare petrolio - una risorsa non rinnovabile - non significa forse vendere l'argenteria di casa? In effetti si consuma un reddito e allo stesso tempo si riduce lo stock di risorse. Inquinare le acque con i fertilizzanti non significa forse ridurre il proprio reddito agricolo? Esiste quindi tutta una serie di attività che producono un reddito e di cui le generazioni future dovranno pagare il conto. La nozione di sviluppo sostenibile si sforza di tener conto di questa realtà: una parte di ciò che ci permette di avere il nostro livello di vita attuale è in realtà un prelievo forzato di ricchezze che mancheranno alle generazioni future. Quanto al secondo punto, la distribuzione del reddito, la situazione sembrerebbe abbastanza chiara: il reddito dovrebbe appartenere a chi ha prodotto la ricchezza consumabile. Ma la questione non è così semplice come può sembrare, poiché si devono mantenere persone che producono nulla come i bambini e gli anziani. Inoltre devono essere pagati i costi della vita in società e i costi dei servizi collettivi di cui beneficiamo nella nostra attività produttiva senza esserne consapevoli: cercate ad esempio di collegarvi a Internet nella savana africana o di trovarvi le pile di cui avete bisogno per il vostro computer portatile. Infine nessuna attività produttiva è il frutto dello sforzo di un solo uomo: quando il cacciatore uccide il capriolo, il risultato del suo tiro è dovuto alla precisione del fucile o alla sua abilità? Al capitale o al lavoro? La distribuzione del reddito non è mai precisa e spesso è il frutto di un rapporto di forza o di consuetudini istituzionali.
Gli economisti amerebbero che la distribuzione fosse scientifica o razionale. In realtà è il risultato di lotte, di consensi, di regole; insomma è lo specchio in cui la società giudica ognuno e gli attribuisce ciò che le sembra giusto e in cui ognuno misura ciò che vale per la società. Non stupiamoci quindi di constatare l'alto grado di conflittualità che caratterizza la distribuzione del reddito.
In genere si distinguono redditi di attività (prodotti da un lavoro), redditi finanziari (prodotti da un capitale investito o prestato) e redditi da trasferimento (prodotti dalla redistribuzione).

Reddito nazionale

Aggregato di contabilità nazionale che misura l'insieme dei redditi distribuibili frutto dell'attività produttiva o dei trasferimenti dall'estero.
La presenza dei trasferimenti dall'estero spiega perché si parla di reddito nazionale e non di reddito interno, cosa che in apparenza sarebbe più giusta, poiché si calcola il Prodotto interno e non il Prodotto nazionale (almeno in Europa).
Si parla di reddito nazionale perché vi si considerano i redditi provenienti dall'estero, mentre vengono detratti i redditi versati all'estero. Si tratta inoltre del reddito distribuibile, cioè senza gli ammortamenti (per non correre il rischio di impoverirsi bisogna rinnovare il capitale tecnico consumato od obsoleto). Ma parlare di redditi distribuibili non implica che questi siano effettivamente distribuiti: le società, ad esempio, possono accantonare una parte dei loro profitti. Queste riserve fanno comunque parte del reddito nazionale: comportano un arricchimento del patrimonio dei proprietari di queste società e, a termine, c'è la possibilità di vendere e spendere i plusvalori corrispondenti.

Rilancio

Politica economica che mira ad aumentare il potere di acquisto nell'economia per gonfiare una domanda ritenuta insufficiente.
Solo lo stato è in grado di compiere un aumento del potere di acquisto, poiché è l'unico agente economico che può aumentare le spese o ridurre le entrate in modo sufficientemente grande per esercitare un'influenza macroeconomica, cioè sull'intero sistema economico. Inoltre lo stato può anche permettersi di affrontare in modo permanente un disavanzo di Bilancio perché ha sempre la possibilità di aumentare ulteriormente le imposte.
La politica economica di rilanciò si basa quindi su un'analisi di tipo keynesiano del ruolo dello stato, che è incaricato di regolarizzare l'attività economica, in altre parole esercita una responsabilità attiva. L'analisi liberista, al contrario, insiste sul fatto che questo rilanciò può avere solo effetti di disturbo. Lo stato, stimolando l'attività, rischia a breve termine di stimolare l'inflazione più della crescita. Inoltre la prospettiva di imposte future legate al finanziamento del debito pubblico può bloccare il rilanciò. Per i liberisti quindi il solo vero rilancio consiste nel liberare le forze di mercato, bloccate dall'interventismo pubblico con le sue imposte, le sue norme sociali, la sua burocrazia.

Risparmio

La parte del reddito che non è destinata al consumo, al pagamento degli interessi o delle imposte.
Questa definizione molto estensiva comprende anche i fondi depositati sul conto corrente o in cassa. Il risparmio comprende anche le somme di denaro destinate a rimborsare un prestito precedente: poiché non si tratta di consumo, questi capitali sono considerati come risparmio. Infine il risparmio non riguarda le sole famiglie.
Un'impresa risparmia quando ottiene un risultato lordo (prima degli ammortamenti e accantonamenti) superiore all'ammontare delle imposte sugli utili e sui dividendi versati.
Si chiama risparmio finanziario la parte del risparmio che viene investita e che produce un reddito (dividendi o interessi). Il risparmio finanziario esclude quindi i rimborsi di prestiti e le giacenze di cassa. Da un punto di vista generale la produzione genera un reddito. Se una parte di quest'ultimo - il risparmio - non è spesa nasce un problema: la spesa per consumo non basta a comprare tutto ciò che è stato prodotto. Per ristabilire l'equilibrio tra l'offerta (la produzione) e la domanda (il consumo) deve esserci l'acquisto di beni di investimento (abitazioni, macchine, edifici) e questi acquisti devono avere un valore equivalente al risparmio realizzato.
L'uguaglianza del risparmio e dell'investimento è quindi una condizione di equilibrio del sistema produttivo nel suo insieme. Se non vi fosse questa uguaglianza, una parte della produzione non troverebbe acquirenti, gli stock si accumulerebbero e alcuni produttori realizzerebbero un investimento forzato (gli stock di prodotti invenduti sono assimilati a un investimento). Ciò spingerebbe gli imprenditori a ridurre la produzione, per smaltire le scorte. Si vede quindi che in ultima analisi un risparmio superiore all'investimento comporta un rallentamento della produttività. La situazione contraria (risparmio inferiore all'investimento) provoca effetti opposti, e stimola l'attività (ma anche l'aumento dei prezzi). Il problema è che in un'economia di mercato, le decisioni sul risparmio e sugli investimenti sono prese da milioni di operatori diversi.
Nulla permette di affermare che queste decisioni siano spontaneamente compatibili: è una delle ragioni principali per cui l'attività, in questo tipo di economia, può essere soggetta a oscillazioni.

Ristrutturazione

Modifica del perimetro di attività dell'impresa, diretta in genere a eliminare le attività meno redditizie, a raggruppare diverse attività per beneficiare di economie di scala o, più raramente, a sviluppare attività promettenti.
Analogamente al termine terza età, preferito a quello di vecchiaia, così si preferisce utilizzare il termine ristrutturazione a quello di riduzione di attività o di licenziamento. In effetti le due cose vanno spesso di pari passo: sopprimendo le attività meno redditizie, si sopprimono anche posti di lavoro. Ma non è necessariamente così e in teoria si possono concepire ristrutturazioni nelle quali l'impresa aumenta le sue attività anziché ridurle.

Rivoluzione industriale

Termine che indica lo sconvolgimento tecnico del XVIII e XIX secolo, quando la comparsa dell'energia meccanica (macchina a vapore, forni, ecc. ) permise lo sviluppo delle tecniche di produzione industriali con forti aumenti di produttività.
Anche se si può sottolineare lo sviluppo precoce di alcune tecniche produttive in Francia (la macchina a vapore di Denis Papin, la chiatta a vapore di Jouffroy d'Abbans) o in Olanda (nel settore tessile), tutti gli storici sono concordi nel riconoscere che il luogo che ha dato i natali alla rivoluzione industriale è l'Inghilterra. Il problema però è stabilire le date precise e le ragioni di questo decollo industriale. Per quanto riguarda le date, senza risalire al Medioevo (nel corso del quale si sviluppò quella alcuni chiamano la prima rivoluzione industriale: invenzione del collare da tiro, diffusione dei mulini a vento), le invenzioni che hanno permesso la rivoluzione industriale sono in alcuni casi molto anteriori alla loro adozione concreta. E senza un'agricoltura efficiente non avremmo potuto avere lo spostamento di una parte della manodopera dall'agricoltura all'industria. Per questo motivo gli storici anticipano la data della rivoluzione industriale dal 1780 al 1730.
Quanto alle ragioni, queste rimangono ancora oscure. Da un punto di vista logico, la rivoluzione industriale avrebbe dovuto nascere in Olanda, nelle città italiane o in Francia, dove il commercio era più attivo, i capitali più disponibili e le reti di approvvigionamento più efficienti. All'origine di questo evento ci potrebbe essere la conseguenza del puritanesimo (tesi di Max Weber), quella della rivoluzione agricola che ha liberato una manodopera a buon mercato (tesi di Marx), il ruolo attivo svolto dal commercio è avventuroso grazie al dominio britannico sui mari (tesi di Braudel) o, ancora, il risultato della fiducia, cioè l'assenza di una burocrazia centralizzatrice (tesi di Peyrefitte).
Sull'esempio di Schumpeter, molti ritengono che le nostre società industriali siano periodicamente investite da ondate di innovazioni prodotte da un nucleo centrale di cambiamenti tecnici. Si parla così della prima rivoluzione industriale, prodotta dal vapore, dal settore tessile e dalla siderurgia. Poi è stata la volta della seconda rivoluzione industriale, un secolo e mezzo più tardi, con la chimica, l'automobile e l'elettricità.
Oggi saremmo sul punto di inaugurare la terza rivoluzione industriale, spinta dall'informatica, dalle biotecnologie e dai materiali compositi.
Può darsi che sia così, ma questa visione tecnologica delle cose dà troppo spazio ai cambiamenti tecnici e ignora l'importanza dei cambiamenti sociali e culturali: perché non parlare allora di una rivoluzione dello stato assistenziale?
I procedimenti produttivi svolgono indubbiamente un ruolo fondamentale nelle nostre società. Ma il modo in cui questi cambiamenti tecnici sono inquadrati, gestiti, o assorbiti dalle istituzioni, dalle norme collettive, dai rapporti di forza ha un ruolo altrettanto importante.

Rivoluzione verde

Termine coniato con riferimento alla rivoluzione industriale per designare la creazione e la diffusione di cereali (riso) ad alto rendimento all'inizio degli anni Ottanta in India e successivamente in tutti i paesi dell'Asia orientale caratterizzati da un clima monsonico.
In ciò si è visto la fine della fame, la possibilità di affrontare la crescita demografica delle nazioni più recenti. Di fatto l'India è riuscita a diventare un importante esportatore di riso, mentre in precedenza ne importava quantità crescenti. Ma si è dimenticato che questa rivoluzione tecnica era anche una rivoluzione sociale: questi cereali ad alto rendimento necessitano infatti di un'irrigazione particolare, di un apporto notevole di fertilizzanti e di prodotti fitosanitari. Il rendimento del riso è raddoppiato in India, ma allo stesso tempo i piccoli proprietari si sono proletarizzati. Inoltre questi nuovi cereali hanno potuto acclimatarsi solo in luoghi dove vi è molta acqua a disposizione e un adeguato supporto tecnico: per l'Africa la rivoluzione verde rimane ancora un sogno.