Aris Accornero

Lavorare di più per guadagnare come prima?


Hanno fatto scalpore i casi di grandi aziende tedesche e francesi come Siemens, Bosch, Daimler-Chrysler e Opel, dove i lavoratori hanno accettato il prolungamento degli orari a parità di paga, per evitare la perdita dei posti che verrebbe dalla minaccia di delocalizzare le fabbriche in Paesi Est-europei. Si tratta di episodi clamorosi, perchè hanno messo i sindacati di fronte a un aut aut, ma soprattutto perchè in queste aziende la settimana lavorativa era di 35 ore (per contratto in Germania e per legge in Francia), mentre adesso si torna a 37-40 ore, e all'Opel si prevedono punte anche maggiori. A sua volta la Volkswagen ha preannunciato una revisione dei trattamenti che blocca le retribuzioni, ma in effetti le decurta pagando come straordinarie le ore oltre le 40 anziché le 35.
A queste inquietanti novità si accompagnano richieste aziendali di flessibilità che, senza prolungare gli orari e talvolta riducendoli, incidono anch'esse sui tempi e non soltanto sui costi del lavoro. Due esempi. Nell'impianto Opel di Riisselsheim, dove vi é esubero di personale ed eccesso di capacità produttiva, l'orario normale è stato ridotto da 35 a 30 ore (pagate 32,5), ma distribuite su tre turni, articolate in corso d'anno e «personalizzate» a richiesta. Nello stabilimento Siemens di Bruchsal l'orario normale è stato ridotto da 35 a 34 ore (pagate 34 ma con tredicesima e quattordicesima mensilità decurtate), distribuite su durate e calendari assai più flessibili.
Episodi come questi evocano implicazioni più generali circa la durata del lavoro, tant'è vero che le 35 ore vengono messe in causa non soltanto dov'erano state contrattate dai sindacati ma anche dov'erano state introdotte dal governo. «Il Sole-24 Ore» ne ha dedotto che «l'orario non può più essere un argomento tabù», mentre Silvio Berlusconi ha parlato delle «troppe festività» e dell'esigenza di «far lavorare di più gli italiani».
Se poi si considera che a livello europeo è già in atto uno scontro sulla direttiva dell'Unione che fissa i tetti degli orari di lavoro (i sindacati chiedono di abolire le troppe deroghe, gli imprenditori di fissare limiti annui anzichè giornalieri o settimanali), è chiaro che qualcosa di profondo sta cambiando nella ripartizione fra tempo di lavoro e di non lavoro. Ci si chiede quindi se siamo in presenza di una pausa o di un blocco nella lunga marcia della riduzione d'orario a parità di paga, cavallo di battaglia del movimento operaio fin dal congresso tenuto nel 1866 dalla Prima Internazionale. Lo storico motto fatto incidere dalle Trade Unions su dodici orologi per l'assemblea costitutiva del 1869 (We requIre eight hours for work, eIght hours for our own instruction and eight hours for repose) ha poi suscitato tante lotte che hanno portato ai traguardi delle 48 ore negli anni Venti, delle 40 negli anni Sessanta e delle 36 negli anni 90.

Bisogna ricordare preliminarmente due fenomeni. II primo è la crescita del lavoro a tempo parziale, che in Europa continua a creare posti con una dinamica maggiore di quella del tempo pieno, il quale copre peraltro oltre i quattro quinti del totale (ancora di più in ltalia). Ciò comporta da un lato una redistribuzione del lavoro che, in modo surrettizio, emula l'obiettivo di «lavorare meno per lavorare tutti»; e dall'altro una modifica delle preferenze circa la durata del lavoro, fra le quali persiste la riduzione d'orario. Come ha rilevato la Fondazione europea di Dublino, il 47% dei part-timers e il 35% dei full-timers accetta il proprio orario; il 36% dei primi e il 5% dei secondi lo vorrebbe più lungo; il 17% dei primi e il 60% dei secondi lo vorrebbe più corto. In sostanza, i soddisfatti del tempo parziale sono molti e prevalgono su chi chiede più ore, mentre i soddisfatti del tempo pieno sono di meno, superati di gran lunga da chi chiede meno ore.
Il secondo fenomeno è l'allungamento delle aspettative di vita, che si è inevitabilmente venuto incrociando con la tendenza alla riduzione del tempo di lavoro. Non è facile, neppure ai Paesi più sviluppati, reggere e gestire l'opposto andamento di una durata del lavoro che cala e di una durata della vita che cresce. A meno di differire l'età del pensionamento, nel senso di prolungare la vita attiva. Gli straordinari incredibili successi della scienza e della tecnica nel campo medico-sanitario hanno regalato all'umanità un'esistenza durante la quale si può anche lavorare meno ore all'anno; ma proprio per questo, e in ogni caso, non si può lavorare anche meno anni. Specie in ltalia, dove è attivo il 40,8% dei 50-64enni, contro iI 53,8% dell'Unione europea.
Ciò detto, non è da qui che vengono i venti più ostili alle 35 ore e alla stessa riduzione degli orari di lavoro. Vengono dalla comparazione fra i tassi di crescita europei e americani. L'indicatore comunemente usato, la produttività «per ora», da conto soltanto in parte dei divari tra le due sponde dell' Atlantico, e la sua incidenza divide il giudizio degli economisti anche perchè la statistica Usa enfatizza gli effetti delle tecnologie informatiche. Se invece si usa come indicatore la produttività «per testa», diventa meno dubbia la spiegazione affacciata da due studiosi Usa e avvalorata dall'ultimo Employment Outlook dell'Ocse: gli americani non sono più produttivi, ma semplicemente più sgobboni; danno maggior prodotto perchè lavorano più a lungo (1.815 ore l'anno, contro le 1.809 del Giappone).
Questo prolungamento della durata del lavoro era stato spiegato anni fa con il modello del work-and-spend cycle, che il presidente Bill Clinton aveva severamente criticato. Olivier Blanchard del Massachusetts Institute of Technology calcola ora che fra il 1970 e il 2000 le ore lavorate per persona siano salite negli Stati Uniti deI 26%, mentre in Francia sono scese del 23%.
Non è dunque una questione di produttività ma di orari. E in questione non è quindi l'economia europea (quanto meno quella continentale, visto che in Gran Bretagna si lavorano 1.707 ore), ma semmai la società americana o anglosassone. Il confronto è fra due modelli economico-sociali. Si sostiene che il maggior lavoro degli americani (dovuto innanzitutto alle minori ferie pagate) sta alla base del loro tenore di vita. Ma è proprio il superIavoro che spiega il tenore di vita, o non è piuttosto il tenore di vita che spiega il superlavoro? I dati ci dicono che gli americani consumano piu di quel che producono e che il loro governo spende più di quel che incassa, al punto che il disavanzo estero e il debito pubblico non sono mai stati così alti dopo la seconda guerra mondiale.
Ecco gli effetti del work-and-spend cycle, la tendenza che Galbraith individuava già nel 1967 a desiderare più beni di consumo e meno tempo libero. Ed è proprio questa tendenza, non già la scarsa produttività europea, che minaccia di bloccare e addirittura di invertire il cammino storico della durata del lavoro. Quando si dice che gli Stati Uniti tirano lo sviluppo, bisognerebbe pertanto aggiungere che lo tirano da questa parte (dalla parte del credito al consumo, direbbe Jeremy Rifkin). Ma andare da questa parte comporta enormi costi, tanto economici quanto sociali. Basta dire che, se gli americani volessero andare in pareggio e sostenere i consumi senza indebitarsi ulteriormente con il resto del mondo, dovrebbero lavorare ancor più a lungo. Altro che tempo libero od «ozio creativo».
Si spera che i sapientoni sempre pronti a segnalarci i vantaggi della globalizzazione, e a indicarci quel che dobbiamo imparare dagli Stati Uniti, non ci suggeriscano adesso di inseguire l'american way of life anche negli orari di lavoro.