Sandro Trento

Stagnazione e frammentazione produttiva

Negli anni Novanta l'economia italiana è cresciuta a un tasso medio annuo pari all'1,4%, meno della metà rispetto al decennio precedente e mezzo punto al di sotto della crescita media europea, quasi due punti in meno rispetto agli Stati Uniti. Per l'Italia, si è trattato del peggior decennio del dopoguerra, in termini di sviluppo.
La produttività del lavoro è cresciuta in Italia solo dell'1,7% l'anno (contro il 2,6 nel decennio precedente), mentre negli Stati Uniti è aumentata del 3,9% l'anno, in Francia del 4,3, in Germania del 3,2 e nel Regno Unito del 2,8. La crescita della produttività totale dei fattori (Ptf), che misura la capacità di un sistema economico di generare e utilizzare innovazioni tecniche e organizzative, è diminuita tra la prima e la seconda meta degli anni Novanta. Negli Stati Uniti e in altri Paesi avanzati la crescita della Ptf ha avuto un'accelerazione.

L'indice più chiaro delle difficoltà italiane sembra essere la forte perdita di competitività delle nostre merci sui mercati internazionali. La quota italiana sulle esportazioni mondiali, a prezzi costanti, tra il 1995 e il 2002 è diminuita dal 4,5 al 3,5%. In questi stessi anni la Germania ha aumentato di oltre un punto la propria quota che nel 2002 e arrivata all'11,3 %; e la Francia dal 5,5 al 5,6. L'Italia che era il sesto Paese negli scambi mondiali è sceso all'ottavo posto, superato da Cina e Canada.
I prodotti italiani soffrono in modo particolare della concorrenza proveniente dai Paesi di recente industrializzazione, soprattutto di quelli asiatici. A causa della modesta dinamica della produttività il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto a ritmi assai più elevati rispetto agli altri Paesi comportando un'erosione della nostra competitività. Nel complesso, l'Italia è più vulnerabile rispetto alla concorrenza proveniente dai Paesi di nuova industrializzazione soprattutto a causa della propria specializzazione produttiva che è molto simile a quella di questi Paesi. Come spesso accade in situazioni di questo genere, anche nel nostro Paese si sono levate voci, talora assai autorevoli, in favore di un ripristino di forme di protezione (dazi, contingentamenti, ecc.) del nostro mercato interno (italiano o europeo) nei confronti dei prodotti provenienti dai Paesi asiatici, Cina innanzitutto. L'Italia ha costruito il proprio successo economico nel dopoguerra sulla sua capacita di trasformare materie prime e input importati in prodotti finiti. La scelta di apertura ai mercati mondiali è quindi una scelta obbligata per il nostro sistema economico. Un ritorno al protezionismo vanificherebbe tutti gli sforzi serviti per far entrare la Cina nel Wto e porterebbe a dannosissime guerre commerciali, senza alcun beneficio per le imprese esportatrici italiane ed europee.

Piccoli si nasce e... si rimane

Stabilire la vera natura del fenomeno delle piccole imprese in Italia non è questione liquidabile in poche righe, tuttavia ci sono alcune cose che sembrano emergere con maggiore chiarezza.

1) Ricerche recenti di natura comparata mostrerebbero che Paesi con sistemi giudiziari più efficienti sono caratterizzati da una dimensione d'impresa più alta, particolarmente in settori con un'alta quota di capitale intangibile. Un migliore diritto per le imprese, un più moderno diritto fallimentare, una maggiore protezione degli azionisti di minoranza, tribunali più rapidi, procedure meno complicate ma anche una migliore protezione dei brevetti, ad esempio, si accompagnerebbero a imprese di maggiori dimensioni in settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo, dove gli investimenti richiedono un sistema giudiziario efficiente per assicurarne la protezione rispetto alla possibilità di espropriazione da parte dei concorrenti.

2) La regolamentazione del mercato del lavoro è un altro fattore istituzionale spesso indicato come determinante per la dimensione d'impresa. Parte della normativa economica italiana prevede disposizioni che variano al mutare della dimensione. I costi di un licenziamento individuale giudicato illegittimo dall'autorità giudiziaria sono più elevati per le imprese con oltre quindici dipendenti, alle quali si applica l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Le piccole imprese potrebbero frenare la propria crescita nel timore di dover fronteggiare una più onerosa legislazione a protezione dei diritti dei lavoratori.

Secondo studi econometrici recenti è possibile quantificare in circa 2 punti percentuali (dal 36 al 34%) la riduzione della probabilità di crescita delle imprese con 15 dipendenti dovuta all'effetto della soglia costituita dall’art.18. Lo scoraggiamento della crescita è riscontrabile anche per le imprese più piccole, ma decresce rapidamente mano a mano che si considerano imprese più distanti dalla soglia dei 15 dipendenti. L'impatto della soglia sulla propensione a crescere da un anno al successivo è quindi quantitativamente esiguo. Anche l'effetto di lungo periodo è assai modesto: rimovendo la soglia, si può stimare che la dimensione media delle imprese italiane salirebbe da 9,24 a 9,28 addetti; la quota di imprese con oltre 15 dipendenti sul numero totale delle imprese italiane passerebbe dall'8,66 all'8,82%.
I risultati dell'analisi suggeriscono che l'art. 18 della legge n. 300/1970 genera, sì, effetti negativi sulla propensione a crescere delle piccole imprese, ma spiega una quota trascurabile del gap dimensionale rispetto alla media degli altri Paesi europei.
Se l'art. 18 è colpevole solo marginalmente della frantumazione produttiva italiana, dovranno esserci altri fattori che disincentivano la crescita dimensionale delle imprese. La modesta dimensione delle imprese industriali si accompagna in Italia a una quota molto elevata di lavoro autonomo rispetto alle altre economie industrializzate, pari a circa il 30% degli occupati. Alle 992.000 imprese organizzate in forma societaria che hanno meno di 10 addetti si aggiungono circa 2.300.000 ditte individuali.
In generale, la legislazione del mercato del lavoro e gli oneri contributivi, rendendo molto costoso l'impiego di lavoratori dipendenti, incentivano l'uso del lavoro autonomo o la suddivisione delle attività in piccoli stabilimenti.

3) La crescita delle imprese avviene di solito sulla base di un mix tra crescita interna, attraverso la conquista di nuove quote di mercato, e crescita esterna, con l'acquisizione di imprese concorrenti. All'inizio, si farà affidamento sull'autofinanziamento ma se la crescita dimensionale è sufficientemente rapida i fondatori-controllanti dovranno, a un certo punto, decidere se mantenere nelle loro mani il controllo, oppure se assumere uno o più manager esterni ai quali affidare in tutto o in parte la gestione e inoltre decidere se cedere una parte o tutta la proprietà dell'impresa a nuovi soci. Per un aumento sistematico e duraturo della scala dell'impresa è necessario assicurarsi risorse di lungo periodo, l'autofinanziamento o il credito bancario non possono bastare.
I costi dell'apertura al mercato dell'azienda sono quelli che bisogna sostenere per organizzare il collocamento dei titoli sul mercato borsistico, costi di riorganizzazione, di adeguamento delle pratiche contabili, di aumento della trasparenza informativa, e costi di underpricing, cioè lo sconto che si fa ai nuovi sottoscrittori per invogliarli ad acquistare i titoli. Ma per l'imprenditore e assai più costosa la separazione tra proprietà e controllo: il dover convivere con altri soci, il dover accettare di rispondere al mercato, il rischio di perdere del tutto il controllo dell'impresa.
In Italia, le famiglie controllanti cercano in tutti i modi di rinviare la separazione tra proprietà e controllo e, ad esempio, costruiscono forme societarie assai complesse per moltiplicare la leva di controllo a parità di capitale investito. Nascono così gruppi piramidali; in taluni casi, si ricorre anche all'espediente di favorire matrimoni tra membri della famiglia e potenziali manager. Queste soluzioni peraltro riducono anche le opportunità di crescita esterna per le altre imprese.
Il beneficio della quotazione è la possibilità di reperire capitali nuovi (di rischio e di debito), data la maggiore trasparenza di una società quotata. La quotazione inoltre assicura all'impresa un più attento monitoraggio esterno della gestione che dovrebbe incentivare l'efficienza.
Una ricerca recente stima la popolazione di imprese italiane potenzialmente quotabili pari a 1.188: si tratta di imprese con oltre 50 dipendenti. Per il campione di imprese intervistate il timore maggiore connesso con la quotazione non sembra tanto il rischio di perdere il controllo (26,5%) ma la percezione che la quotazione possa limitare la liberta decisionale dell'impresa (49%) e imporre il rilascio di informazioni riservate (56,4%). Il 76,3% delle imprese intervistate ammette che la quotazione consentirebbe di raccogliere capitale per finanziare lo sviluppo dell'impresa, ma il 77,5% delle imprese dichiara che l'autofinanziamento è il canale preferito di finanziamento, seguito dal credito bancario. Anche le 1.188 imprese «quotabili» sono per lo più imprese familiari: nel 38,3% dei casi la famiglia possiede l'intera proprietà e nell'82% la proprietà include almeno un socio familiare. La gestione è anch'essa molto accentrata: solo nel 38% dei casi sembra esserci l' abitudine di coinvolgere il management nelle decisioni strategiche. Solo nel 43% dei casi i controllanti sarebbero disposti a rinunciare a una quota della proprietà per sfruttare opportunità di crescita.
In altri Paesi la motivazione dichiarata dalle imprese che decidono di quotarsi è quasi sempre quella di finanziare la crescita dimensionale. Nel caso italiano la quotazione in borsa sembra servire a ottimizzare la struttura finanziaria delle imprese stesse dopo la realizzazione di importanti progetti di investimento, che avrebbero luogo prima e non dopo la quotazione.
In realtà, sono soltanto 250 imprese su 1.188 quelle che dichiarano di volersi quotare in borsa, prima o poi.

4) La decisione di aprire o meno l'impresa a capitali esterni dipende anche dal tipo di ordinamento giuridico vigente. Sistemi economici nei quali è assicurata un'elevata protezione per i diritti dei soci di minoranza tendono a registrare un'alta separazione tra proprietà e controllo. Dove è difficile per un socio di minoranza controllare il comportamento del manager, del socio di maggioranza o di ambedue c'è un forte incentivo a restare azionisti-gestori, azionisti di maggioranza, controllanti dell'impresa stessa. La chiusura del capitale dell'impresa, tipica del capitalismo italiano, non è tanto il frutto delle preferenze degli italiani, che amerebbero più di altri popoli «comandare» nell'impresa, quanto la risposta alle deboli tutele, legali e non, che si avrebbero se si decidesse di far entrare anche altri soci nel capitale dell'azienda.
In generale, l'ordinamento giuridico italiano non sembra favorire la crescita dimensionale.

5) La probabilità di sopravvivenza nel tempo delle imprese familiari italiane mostra una discontinuità: al raggiungimento del trentesimo anno dalla fondazione si rileva un aumento significativo della probabilità di uscita dal mercato, di fallimento dell'impresa. Questo fenomeno sembra riconducibile al problema della successione che si pone tipicamente ogni 25-30 anni. Non avendo eredi adatti a gestire l'impresa, molti imprenditori preferiscono chiudere l'azienda piuttosto che venderla a nuovi proprietari.

Conclusioni

Spesso il dibattito sul «declino» dell'economia italiana sfocia in prescrizioni di policy volte a modificare la specializzazione produttiva e ad accrescere l'attività innovativa, le famose politiche industriali per i settori strategici. Altri invece hanno proposto un ritorno al protezionismo come scelta difensiva contro la concorrenza dei produttori cinesi e dei Paesi emergenti in generale.
Si è cercato di argomentare, in queste pagine, che il problema italiano non deriva da una «minaccia» esterna ma è soprattutto un problema dimensionale, quindi interno al nostro sistema economico.

Una moderna politica per l'industria deve partire allora da alcuni fatti:

1. I 3-4 milioni di imprese censite dall'Istat solo in misura limitata rappresentano «imprenditori», nel senso schumpeteriano; c'è in Italia uno scoraggiamento del lavoro dipendente a favore di quello autonomo.
2. Crescita dimensionale significa apertura della proprietà a capitali esterni e condivisione del controllo con nuovi soggetti. La insufficiente tutela degli azionisti di minoranza incentiva di fatto la chiusura della proprietà.
3. L'alta diffusione dei gruppi societari è segno di un tentativo di realizzare la separazione tra proprietà e controllo massimizzando il capitale controllato a parità di quota azionaria. Le lunghe catene di controllo, i patti parasociali e le azioni con diritto di voto limitato, rendono scarsa la trasparenza informativa e alti i rischi di abuso ai danni degli azionisti di minoranza. Ne risulta menomato l'accesso al finanziamento.
4. Le piccole imprese si caratterizzano per una minore produttività, per l'impiego di manodopera meno qualificata e meno retribuita. Le Pmi compensano ciò con la maggiore opportunità di eludere il fisco, e in generale con la possibilità di non applicare norme, regolamenti, leggi ambientali, previdenziali, a tutela delle categorie protette, di sicurezza sul lavoro, ecc.
5. L'aspetto cruciale è la scarsa determinazione dell'azione repressiva pubblica e il susseguirsi di sanatorie, condoni, abbuoni fiscali, contributivi, regolamentativi che si sono succeduti negli ultimi venti anni e che hanno rappresentato un incentivo fortissimo all'evasione e al diventare «padroncini», alla frantumazione produttiva di tutti i settori d'attività.
6. La decisione di «fare piccola impresa» è legata alla possibilità di mantenere un grado alto di «opacità» in termini di contabilità, e di informativa aziendale, secondo una gradazione progressiva che arriva fino al sommerso. La scarsa affidabilità dei bilanci aziendali riduce la possibilità di finanziamento esterno. Anche la possibilità di assumere manager di professione e più difficile se non si hanno strumenti obiettivi per esercitare il controllo sulla performance dell'impresa stessa.
7. La scarsa trasparenza finisce per ingabbiare le imprese in un equilibrio subottimale: minore accesso ai mercati finanziari, minori opportunità di salti organizzativi attraverso l'impiego di manager non proprietari e quindi minori opportunità di crescita. In un Paese nel quale le relazioni industriali sono strutturalmente conflittuali (almeno fino a pochissimo tempo fa), la medio-piccola dimensione aiuta a governare (a prescindere dall'art. 18) il fattore lavoro, anche mediante il decentramento.

Servono anche strumenti finanziari adatti al finanziamento della crescita dimensionale. Nell'esperienza statunitense le piccole imprese hanno tratto impulso da intermediari specializzati come i Venture Capitalists e i Business Angels. Questo tipo di intermediari per poter operare, ha bisogno di mercati finanziari efficienti e sviluppati. Una profonda semplificazione della regolamentazione, dei prodotti e del lavoro ma al contempo una maggiore determinazione nel contrasto dei fenomeni di evasione e di economia sommersa sono essenziali per ridurre i costi per diventare grandi; a questi si deve aggiungere un rafforzamento di forme di finanziamento di lungo periodo. Per accrescere le opportunità di sviluppo andrebbero incentivate l'adozione di nuove tecnologie e l'attività di ricerca. Alle piccole imprese andrebbero proposte forme di collaborazione, non individuali ma collettive, a laboratori di ricerca universitari.