Antonio Gramsci

Elementi di politica

L’operaio di fabbrica

[Articolo non firmato, 21.2 1920. ON, p. 324]

Ogni società vive e si sviluppa perché aderisce a una produzione storicamente determinata: dove non esiste produzione, dove non esiste lavoro organizzato, (sia pure in modo elementare) non esiste società, non esiste vita storica. La società moderna ha vissuto e si è sviluppata fino alla fase attuale perché aderiva a un sistema di produzione: a quel sistema di produzione storicamente determinato dall’esistenza di due classi, la capitalistica, proprietaria dei mezzi di produzione e la classe lavoratrice, al servizio della prima, aggiogata alla prima dal vincolo del salario, dal vincolo della minaccia incombente di morte per fame.

Nello stadio attuale la classe capitalista è rappresentata da un ceto d’avanguardia, la plutocrazia; [1] la linea di sviluppo storico della classe capitalista è un processo di corruzione, un processo di decomposizione. Le funzioni tradizionali della classe capitalista nel campo della produzione sono passate nelle mani di un medio ceto irresponsabile, senza vincoli né di interesse né psicologico con la produzione stessa: burocrati del tipo “impiegati dello Stato”, venali, avidi, corrotti, agenti di borsa, politicanti senza arte né parte, gentarella che vive alla giornata, saziando bassi desideri e proponendosi scopi ideali adeguati alla sua psicologia crapulona, possedere molte donne, avere molti quattrini da spendere nelle alcove delle prostitute d’alto rango, nei tabarin e nello sfarzo vistoso e grossolano, avere una particella del potere di tormentare e far soffrire altri uomini sottoposti.

La classe lavoratrice è andata invece sviluppandosi verso un tipo di umanità storicamente originale e nuovo: l’operaio di fabbrica, il proletario che ha perduto ogni residuo psicologico delle sue origini contadinesche o artigiane, il proletario che vive la vita della fabbrica, la vita della produzione intensa e metodica, disordinata e caotica, nei rapporti sociali esterni alla fabbrica, nei rapporti politici di distribuzione della ricchezza ma nell’interno della fabbrica, ordinata, precisa, disciplinata, secondo il ritmo delle grandi macchine, secondo il ritmo di una raffinata ed esatta divisione del lavoro, la più grande macchina della produzione industriale.

La classe proprietaria del capitale si è allontanata dal lavoro e dalla produzione, si è disgregata, ha perduto la coscienza della sua primitiva unità che era unità dialettica, [2] unità nella lotta individualistica per la concorrenza del profitto: [3] l’unità della classe capitalista si è identificata in una istituzione dello Stato, [4] il governo; l’individuo ha rimesso le sue funzioni di lotta e di conquista nelle mani di una banda di avventurieri e politicanti mercenari, per ricadere nella bestialità primordiale e barbarica che nutre gli istinti più abbietti della crapula.

La classe operaia si è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletario non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente.

La divisione del lavoro ha creato l’unità psicologica della classe proletaria, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si riassumono nell’espressione: solidarietà di classe. Nella fabbrica ogni proletario è condotto a concepire se stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro: potrebbe la materia informe accatastata nei magazzini circolare nel mondo come oggetto utile alla vita degli uomini in società, se un solo anello mancasse al sistema di lavoro nella produzione industriale?

Quanto più il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto più sente l’indispensabilità dei compagni, tanto più sente di essere la cellula di un corpo organizzato, di un corpo intimamente unificato e coeso; tanto più sente la necessità dell’ordine, del metodo, della precisione, tanto più sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora; tanto più sente la necessità che l’ordine, la precisione, il metodo che vivificano la fabbrica siano proiettati nel sistema di rapporti che lega una fabbrica a un’altra, una città a un’altra, una nazione a un’altra nazione.

Per questa sua originale psicologia, per questa sua particolare concezione del mondo l’operaio di fabbrica, il proletario della grande industria urbana è il campione del comunismo, [5] è la forza rivoluzionaria che incarna la missione di rigenerare la società degli uomini, è un fondatore di nuovi Stati: in questo senso (e non in quello balordissimamente contraffatto dagli scrittori della Stampa) abbiamo affermato che Torino è la fucina della rivoluzione comunista: perché la classe lavoratrice di Torino è in maggioranza di proletari, di operai di fabbrica, di rivoluzionari del tipo previsto da Karl Marx, non di rivoluzionari piccolo-borghesi, quarantottardi, [6] del tipo caro ai democratici e agli arruffoni dell’anarchismo. In questo senso anche abbiamo sostenuto che la Confederazione Generale del Lavoro [7] è costituita di masse operaie più “rivoluzionarie” delle masse organizzate nell’Unione sindacale: [8] perché la Confederazione abbraccia gli operai delle industrie meglio specificate e organizzate, delle industrie “più rivoluzionarie” e d’avanguardia, mentre l’Unione sindacale è un disorganismo che non riesce a uscire dallo stadio gelatinoso e indistinto, dallo stadio della concezione del mondo propria dei piccolo borghesi che non sono diventati capitalisti, propria degli artigiani o dei contadini che non sono diventati proletari.

Ogni società vive e si sviluppa perché esiste una produzione, perché si produce più del consumo, anche se la distribuzione per il consumo e per il risparmio avvenga in modo iniquo: la società vive e si sviluppa nella nequizia, essa muore, anche se è stato attuato il regno della giustizia, se non si produce. La società borghese muore perché non si produce, perché il lavoro dei produttori coi rapporti nuovi di distribuzione creati dalla guerra e dalla conseguitane fase plutoburocratica del capitalismo, non è sufficiente neppure al consumo oltre a non permettere più nessun accumulamento. La ricchezza di materiale viene annientata progressivamente: aumenta invece il cumulo di titoli all’appropriazione della ricchezza materiale, la carta moneta: il sistema capitalista di distribuzione è diventato un saccheggio a mano armata perpetrato dai detentori del Potere governativo, il capitalista si è allontanato dal campo della produzione; il governo dell’ industria è caduto in mano di inetti e di irresponsabili; la classe operaia è rimasta sola ad amare il lavoro, ad amare la macchina. [9] La classe operaia domina oggi la produzione, è il padrone della società, perché può recidere, incrociando le braccia, gli ultimi nervi che la fanno vibrare ancora, perché solo uno sforzo eroico di produttività potrebbe infonderle nuova vita e nuova virtù di sviluppo. Gli apostoli salariati, gli staffieri del capitale, gli avidi Lazzari [10] della dispensa borghese credono di potere, con le loro gonfiezze patriottiche o umanitarie da romanzo d’appendice, incitare questo eroismo produttivo del proletariato, come sono riusciti a incitarne l’eroismo guerriero. Il bel gioco riesce una volta sola: e non è possibile, in questo caso, farsi dare una mano dai carabinieri, per ben riuscire! Bisognerà adattarsi, con le buone o con un “pizzico” di guardie rosse: [11] il proletariato aumenterà la produzione per il comunismo, per attuare la sua concezione del mondo, per rendere storia la sua “filosofia”, non per procurare nuovi ozi o nuovi sperperi ai detentori di carta moneta; aumenterà la produzione quando l’arma del suo potere di Stato sfronderà l’albero della vita dei moltissimi rami secchi; questa potatura di per se stessa determinerà un aumento di produzione, cioè una migliore distribuzione e la possibilità di un risparmio.

[1]Potere dei ricchi”, qui inteso come capitale finanziario. “La fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi sulla base di questo capitale finanziario di un’oligarchia finanziaria è uno dei principali contrassegnidell’imperialismo”: Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere complete, cit., vol. 22, p. 266.
[2] Con Georg W. F. Hegel (1770-1831), la dialettica divenne qualcosa di molto più ampio dell’arte della discussione praticata dai filosofi greci, del processo logico che porta alla verità esaminando la contrapposizione fra elementi antitetici. H. la definì “lo spirito di contraddizione organizzato”; il concetto, piuttosto complesso, in estrema sintesi può riassumersi così: la storia è scandita dai conflitti (le contraddizioni), e solo la consapevolezza che da questo continuo scontro, che è poi una relazione fra opposti, scaturisce una situazione nuova, consente di capire la realtà. Tale procedimento di analisi - dialettico, appunto, cioè basato sull’esame del conflitto permanente che anima le cose - venne capovolto da Marx, vale a dire ricondotto non all’opposizione fra idee caro ai filosofi bensì a quella fra situazioni concrete (i processi produttivi, i rapporti sociali, ecc.: esempio classico è quello della borghesia, che per produrre deve creare e accrescere il proletariato, che poi la distruggerà per dare vita a una società senza classi): di qui il passaggio, decisivo, da una dialettica idealistica a una di tipo materialistico.
[3] Questa unità dialettica è, nella fase premonopolistica dello sviluppo capitalistico, la coscienza da parte del capitalista di essere sia imprenditore che produttore: consapevolezza che in qualche modo viene meno quando, nella fase monopolistica (almeno nel periodo considerato da G.) il capitalista delega molte sue funzioni allo Stato e ai grandi monopoli.
[4] Cfr.: F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Ed. Riuniti, 1963, p. 200 e segg.
[5] Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.” K. Marx, L’ideologia tedesca, Ed. Riuniti, 1971, p. 25.
[6] Riferimento alle rivoluzioni borghesi del 1848.
[7] La CGL, fondata nel 1906, fu messa fuori legge dal fascismo nel 1927, e ricostituita da comunisti, socialisti e democristiani nel 1944 sotto il nome di CGIL; nel 1948, con la rottura dei governi di unità nazionale, democristiani e parte dei socialisti abbandonarono la CGIL, costituendo poi, rispettivamente, la CISL e la UIL.
[8] L’organismo fondato dai “sindacalisti” dopo l’espulsione dal PSI (1908). Questa corrente “rivoluzionaria” del PSI era politicamente molto variegata, con forti venature anarchiche, e in buona misura si richiamava alle pozioni di Georges Sorel (1847-1922): principale teorico del sindacalismo anarchico e della violenza proletaria, egli vedeva nel sindacato lo strumento fondamentale della lotta di classe e nello sciopero generale l’arma decisiva per abbattere il potere borghese; in Italia influenzò appunto la corrente “sindacalista” (chiamata anche anarcosindacalista o sindacalista rivoluzionaria), e in particolare Arturo Labriola e Benito Mussolini (direttore de l’Avanti! dal 1912 al 1914, quando fu cacciato dal PSI). Ovviamente “sindacalista” non va confuso con il termine oggi usato per definire il funzionario di un sindacato.
[9] Qui, come altrove, occorre tenere ben presente il periodo e le condizioni politiche in cui G. scriveva.
[10] La “plebe” napoletana, già protagonista della rivolta guidata da Masaniello (1647).
[11] I gruppi armati di operai durante la Rivoluzione russa del 1917.