Nicola Tranfaglia

Riflessioni su Gramsci e la storia d’Italia


Se si scorrono le pagine di quel gran libro di storia del mondo moderno che sono i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, ora che un periodo lungo settant’anni è trascorso dalla sua morte, emergono alcuni concetti che ci aiutano a comprendere elementi centrali della nostra storia.
Se dovessi indicarli per rilevanza storica partirei, riferendomi al nostro paese ma più in generale all’Europa e all’Occidente, dalla rivoluzione passiva, per passare subito dopo al trasformismo, ai processi di restaurazione e di rivoluzione, al ruolo degli intellettuali, ai processi organici e congiunturali, all’analisi del fordismo e dell’americanismo. Già questi primi concetti e categorie servono a guidarci nell’analisi delle vicende che caratterizzano elementi centrali del corso storico nazionale negli ultimi due secoli, soprattutto perché servono a caratterizzare la permanenza di caratteri costanti, al di là del mutare delle forme apparenti nel passaggio dei diversi regimi che in un secolo e mezzo, ormai quasi compiuto, hanno differenziato il fluire della storia postunitaria.
Il trasformismo degli uomini e dei gruppi sociali nel nostro paese ha caratterizzato il volgere delle stagioni in tutti i periodi dell’ultimo secolo e mezzo. Che sia eredità diretta del lungo servaggio preunitario, della soggezione plurisecolare allo straniero o abbia invece trovato ancor maggior vigore dopo l’unificazione, rischia di essere oggi un problema di relativa importanza (in questa sede). Certo è che Gramsci aveva colto un punto essenziale nel Quaderno 19 (scritto tra il 1932 e il 1935 ma steso in parte negli anni precedenti, in particolare nel 1930, appena arrivato nel carcere di Turi), quando scriveva, a questo proposito, che

tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. [2011]
Il nostro presente offre, da questo punto di vista, conferma dell’attualità di queste considerazioni, pur essendo mutati i riferimenti legati, nell’analisi gramsciana, ai comportamenti delle classi sociali nella lotta politica nazionale.
È difficile oggi parlare di una contrapposizione, ottocentesca o novecentesca, tra una borghesia ricca egemonizzata da ceti moderati e masse popolari e proletarie, anche perché l’analisi sociale (pur lacunosa) degli ultimi anni tende, comunque, a dividere la borghesia in strati diversi e separati che politicamente si schierano in un arco di forze politiche egemonizzate, in parte, dal populismo patrimoniale, in parte da una piattaforma conservatrice di tipo tradizionale. Dall’altra parte si collocano prima di tutto forze che hanno accantonato i tradizionali ancoraggi ideologici del comunismo e del socialismo novecenteschi e contrappongono al populismo ricette provvisorie e oscillanti che provengono dalla liberaldemocrazia più o meno adeguata ai tempi e da un socialismo riformista nelle sue varie tendenze storiche.
Ma, pur in un orizzonte profondamente diverso, il fenomeno del trasformismo continua a caratterizzare in maniera centrale la vita politica italiana, anche grazie alla crisi assai grave delle istituzioni repubblicane. Ha una funzione essenzialmente difensiva e non propositiva, almeno per ora, la resistenza intransigente esercitata da quelle poche forze politiche e sociali che cercano di sfuggire alla capacità egemonica esercitata nel capitalismo mondializzato dalle borghesie collegate all’azione delle multinazionali, in questo periodo protese all’attacco degli Stati nazionali nell’Occidente in crisi.
Le riflessioni di Gramsci sulle contraddizioni insite nel modello fordista americano e nella sua espansione sembrano, per molti aspetti, lontane dalla situazione attuale in Occidente come nel nostro paese. Ma, indagando sulla crisi nazionale, emerge, a mio avviso, la tendenza propria della «rivoluzione passiva» che presiede ai cambiamenti che hanno luogo nel nostro paese. Cambiamenti che, a livello politico, si qualificano ancora con il termine generico e vago di «transizione» dagli anni Novanta al ventunesimo secolo (o addirittura, secondo le superfetazioni giornalistiche, da una Prima repubblica in crisi da oltre un trentennio a una Seconda che non riesce ancora a prender forma, sommersa, com’è, da progetti ancora indeterminati) e che, a livello economico-sociale, oscillano tra il sogno di un’americanizzazione contraddittoria e quello di una via mediana tra il rinnovamento del modello europeo e l’apertura alla globalizzazione incalzante. Sicché sembra di essere all’esaurimento ancora non avvenuto di una formazione sociale novecentesca e in larga parte fordista e all’apparizione, soltanto accennata, di modelli inediti.
Riemerge il termine del transitorio, con la difficoltà di individuare le forze in grado di operare attivamente la trasformazione o di esserne in qualche modo testimoni, di accettarle e di portarle avanti. Scrive Gramsci nel Quaderno 13 (1932-34):

Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’«occasionale» sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare […] che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e prepara più gravi catastrofi). [1579-80]
Sembra il ritratto somigliante di una società come quella italiana di questi ultimi anni. Una trasformazione complessiva che contiene al suo interno il vecchio e il nuovo, l’avviso prepotente di equilibri nuovi insieme al persistere non meno ostinato di caratteri che hanno accompagnato da vicino la storia repubblicana e, ancor prima, aspetti centrali della storia precedente. Con una difficoltà, molte volte riproposta, nel compiere dei passi avanti che forse nascono limpidi nel pensiero delle classi dirigenti ma non riescono a realizzarsi nella forma immaginata e si volgono piuttosto a quella che viene definita «l’eterogenesi dei fini».
Basti pensare agli sforzi che si succedono da decenni in vista dell’aggiornamento delle forme di governo e delle istituzioni repubblicane, e che tendono a provocare scontri parlamentari e referendum costituzionali ma non riescono a produrre processi di confronto fecondo tra le forze in gioco, e men che meno a raggiungere il risultato di un progresso effettivo che sia capace di generare la condivisione degli individui e dei gruppi sociali rimasti fedeli al patto costituente che ha costituito il mito fondante della repubblica, subito dopo la Seconda guerra mondiale.
Peraltro molti altri esempi potrebbero desumersi dallo stesso ordine di mutamenti auspicati dalle classi dirigenti e frustrati da un carattere costante degli italiani, che lo stesso Gramsci, in un articolo pubblicato il 5 marzo 1917, richiamava sull’edizione piemontese dell’«Avanti!». Scriveva allora il giovane Gramsci:
Una delle facce più appariscenti e vistose del carattere italiano è l’ipocrisia. Ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita famigliare, nella vita politica, negli affari. La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività.
L’ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà. È, in fondo, una forma di resistenza. L’ipocrisia nei rapporti tra singolo e collettività è una conseguenza dei paterni governi polizieschi che hanno preceduto e hanno seguito l’unificazione del regno d’Italia. L’ipocrisia nei rapporti tra singolo e singolo è una conseguenza dell’educazione gesuitica che si è impartita e si continua a impartire nelle scuole e nelle famiglie, e che scaturisce spontanea dall’esperienza della vita quotidiana
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Se pensiamo ad alcuni dei problemi che affliggono oggi la vita pubblica, come quella privata, nel primo decennio del ventunesimo secolo - dalla corruzione pubblica ai metodi mafiosi, dal degrado dei rapporti sociali all’incertezza dello Stato di diritto, alle eccessive disuguaglianze nei rapporti economici, che ci pongono negativamente al vertice fra i paesi europei e occidentali - possiamo forse dire che i «caratteri degli italiani» di cui novant’anni fa parlava il giovane Gramsci si siano evoluti e modificati in maniera evidente? Personalmente ne dubito assai.

1. Caratteri italiani, ora in Antonio Gramsci, La città futura 1917-1918, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, p. 75.

da: Essere comunisti, 15 gennaio 2008