piccolo dizionario marxista

critica dell'economia politica

Etienne Balibar

1. L'espressione «critica dell'economia politica» ci colloca immediatamente al centro dei problemi di interpretazione posti dall'opera teorica di Marx: problema del suo oggetto, problema della sua continuità o, al contrario, delle sue «rotture» successive, problema infine della sua articolazione con la pratica politica e con le sue condizioni storiche.
In effetti, essa non cessa di comparire, sia nel titolo, sia nel programma delle principali opere di Marx: già i Manoscritti economico-filosofici del 1844 dovevano intitolarsi Zur Kritik der politischen ökonomie. Lo stesso titolo che avrà in seguito, attraverso quindici anni di lavoro accanito che ne modificherà profondamente il senso e il metodo, e del quale siamo oggi in grado di penetrare il senso grazie alla pubblicazione dei Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie l'opera pubblicata nel 1859 come prima parte di un esteso Trattato. È noto che, invece di procedere immediatamente alla pubblicazione dei materiali di cui disponeva per il seguito dell'opera, Marx la rimise nuovamente in cantiere fino ad approdare, nel 1867, alla pubblicazione di Das Kapital, anch'esso con il sottotitolo di «critica dell'economia politica», i cui libri II e III saranno pubblicati da Engels sulla base dei manoscritti di Marx, e con delle importanti prefazioni, rispettivamente nel 1885 e 1894.
Per sottolineare ulteriormente la portata del tema, a questo nucleo principale vanno aggiunti: a) l'articolo Umrisse zu einer Kritik der Nationalokonomie, pubblicato da Engels negli Annali francotedeschi, al quale Marx ha reso nel Capitale un omaggio non solo sentimentale; b) la seconda parte della Miseria della filosofia, intitolata «la metafisica dell'economia politica» in opposizione alla «critica», e che avvia il lavoro dei Grundrisse; c) il capitolo su «la storia critica dell'economia politica» redatto da Marx per l'AntiDühring di Engels (1877), riassunto delle Teorie sul plusvalore, manoscritto del 1862-1863 che Kautsky pubblicherà nel 1905; d) i testi dell'ultimo periodo del lavoro di Marx, che vanno dal Poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale (1873) alle Note marginali al Trattato di Economia Politica di A. Wagner, estratti di un quaderno Sull'economia in generale (188182), nei quali l'idea di critica è precisata e articolata nel suo nesso permanente con quella di dialettica, «metodo analitico» che è di per sé «critico e rivoluzionario».
Pare dunque che l'espressione della quale ci stiamo occupando comprenda nella sua forma più generale la modalità permanente del rapporto pratico-teorico di Marx con l'oggetto dell'economia politica, nella misura in cui l'economia politica esiste come disciplina. Questo rapporto tuttavia non può essere colto isolatamente: non è cioè dato inizialmente. È, al contrario, prodotto come un risultato a partire da un problema «critico» più generale e si costituisce nel corso del suo sviluppo.

Il problema è quello di una critica della politica, quale risulta costituita con la «rivoluzione borghese» e la formazione dello stato moderno che ne scaturisce: è da qui che Marx parte, constatando che questo stato, la vita del quale costituisce la «politica», si stabilisce lontano dalla società concreta degli uomini e si fonda sulla negazione degli antagonismi che la attraversano. La politica borghese, condotta in nome della «sovranità popolare», è dunque sostanzialmente idealistica, e tale idealismo ha la sua espressione concentrata nella filosofia speculativa dello Stato, quando questa si sforza di «dedurre» dalla Idea razionale stessa il rapporto gerarchico che subordina la «società civile» (sfera dei bisogni materiali, del lavoro e degli
interessi economici) allo stato politico e fa di quest'ultimo l'«espressione» di quella. L'obiettivo più generale della critica iniziale di Marx consiste dunque nella critica della alienazione politica nella società borghese, e la sua forma teorica obbligata è una critica della «speculazione» filosofica.
Si spiega così come il suo primo testo importante sia una Critica della filosofia dello stato di Hegel (1843) la quale sfocia a sua volta nel piano di una «critica» generale, dove doveva figurare, in modo relativamente autonomo, la critica delle «diverse materie» della filosofia: «diritto, morale, politica, ecc.», poi quella della loro «elaborazione speculativa» ad opera della filosofia (Manoscritti del 1844).
Ma, nella messa in opera di questo progetto, accade uno spostamento significativo: «criticare» il diritto, la morale, la politica significa rapportarli alla loro «base materiale», vale a dire al processo di costituzionealienazione dell'uomo nel lavoro e nella produzione; ed è da questo momento preliminare, senza attendere la conclusione del ciclo teorico progettato, che interviene il confronto con la speculazione, relativamente alla scelta tra una concezione idealistica ed una concezione materiali stica della storia.

Resta tuttavia da chiarire:
a) da una parte il rapporto che si stabilisce tra questo «spostamento» teorico e il passaggio pratico di Marx da una posizione politica umanistica, democratico-radicale, ad una posizione comunista che non si richiama più all'universale ma ad una classe determinata (anche se, lo ricaviamo dal confronto dei Manoscritti del '44 e dell'Ideologia tedesca, Marx esprime astrattamente questo rapporto ponendo l'equivalenza tra il processo di alienazione del lavoro umano e lo sviluppo della proprietà privata);
b) d'altra parte, la questione di stabilire se la «critica dell'economia politica» , che occupa ora praticamente il terreno esplorato da Marx (Cfr. la Prefazione a Per la critica. .., 1859) debba essere considerata come la realizzazione del progetto iniziale di una «critica della politica» che avrebbe infine trovato il suo vero oggetto e si sarebbe pertanto sostituita ai suoi obiettivi iniziali (il che sarà uno dei modi di intendere il carattere «scientifico» del «materialismo storico») oppure se essa si situi all'interno di questo progetto iniziale, del quale svilupperà i fondamenti. In effetti queste questioni non possono chiarirsi fin quando non ci si interroghi, da una parte sul significato esatto del termine «critica», dall'altra sulle modalità in base alle quali Marx ha identificato l'oggetto e il significato storico dell'economia politica «classica».


2. In filosofia il significato classico del termine «critica» rimanda sia ad una polemica, che mira alla distruzione di un sistema o di un dogmatismo, sia, tramite un autentico capovolgimento in cui l'idealismo tedesco ha riconosciuto il segno stesso della razionalità dialettica, alla fondazione di un sapere (del) vero. Detto altrimenti, si tratta di mostrare al tempo stesso i limiti di una facoltà positiva (teorica o pratica), conformemente alla sua natura e al suo oggetto, e la necessità di un'illusione (negativa), conformemente alla sua natura, vale a dire alla sua causa. In questo senso, una «critica» non è essa stessa una «teoria», nella sua accezione più propria: essa non possiede più, o non possiede ancora un oggetto proprio. Questo si definisce in rapporto all'oggetto di un'altra teoria. Si dovrebbe giungere dunque alla conclusione che la «critica dell'economia politica» è, di fatto, la fondazione dell'economia politica (o di una economia politica determinata)? In tale senso Engels sembrerà farne un bilancio quando, nell'AntiDühring, seconda parte «Economia politica»), cap. 1 «Oggetto e metodo»), scriverà: «L'economia politica nel senso più lato è la scienza delle leggi che regolano la produzione e lo scambio dei mezzi materiali di sussistenza nella società umana. ...L'economia politica in questa estensione così lata, deve tuttora essere creata. La scienza economica che sinora possediamo si limita quasi esclusivamente alla genesi e allo sviluppo del modo di produzione capitalistico...» (A, 140143).
E benché l'accento sia in questa occasione posto non sull'estensione di un dominio teorico ma sulla messa in opera di un principio pratico, è anche da questa impostazione che si possono formalmente comprendere le formulazioni di Marx nell'Indirizzo inaugurale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864) (alle quali fanno eco quelle del Capitale, libro III, cap. 23 e 27): «Questa lotta contro la limitazione legale della giornata di lavoro... toccava la grave controversia tra il cieco dominio della legge dell'offerta e della domanda che costituisce l'economia politica della borghesia, e la produzione sociale regolata dalla previsione sociale, che è l'economia politica della classe operaia. Perciò la legge delle dieci ore non fu soltanto un grande successo pratico; fu la vittoria di un principio. Per la prima volta, alla chiara luce del giorno, l'economia politica della borghesia soggiaceva al l'economia politica della classe operaia» (II, 11).
Emerge qui, nondimeno, una modalità nuova e particolare della «critica»: materialistica, in opposizione alle critiche idealistiche della filosofia, e l'operatore di essa sarà la storia. Così, nella sua recensione a Per la critica. ..(1859) , Engels ha scritto «... il partito proletario tedesco si presenta va sulla scena. Tutta la sua vita teorica traeva origine dallo studio della economia politica, e dal momento del suo apparire data anche l'economia tedesca come scienza indipendente. Questa economia tedesca si fonda essenzialmente sulla concezione materialistica della storia, i cui principi sono esposti brevemente nella prefazione del libro...»
(CEP, 202203).
È tuttavia necessario operare qui una distinzione, poiché «economia politica» come pure «storia» sono da intendersi in due sensi: questi termini designano, lo si è visto, sia il processo reale che la corrispondente disciplina teorica.
In una fase del loro lavoro, non solo Marx ed Engels impiegano simultaneamente i due sensi, ma forniscono una ragione di questa confusione. Così per Engels nell'Umrisse zu einer Kritik der Nationalokonomie (1844) come per Marx nel Discorso sul libero scambio (1848), l'economia politica teorica (identificata col liberalismo) è il linguaggio spontaneo, necessario e rivelatore della realtà economica. Criticare l'ipocrisia dell'una è lottare con tro l'inumanità dell'altra e viceversa.
Nel 1859, questa confusione non è già più possibile. Si può quasi dire che il suo carattere idealistico è riconosciuto (Cfr. la Introduzione del 1857 ai Grundrisse): il reale non può essere colto solamente tramite la coscienza e subire il primato di questa coscienza; bisogna al contrario rovesciare il rapporto di determinazione e per mezzo di ciò, condizione sine qua non, distinguere i due piani. La distinzione si configura come l'operazione essenziale del rovesciamento. La mancata distinzione significava infatti che in certo qual senso l'economia politica è vera in forza della sua «adeguazione» al reale. Conseguentemente era impossibile sbarazzarsi dell'economia politica teorica se non era al tempo stesso possibile sbarazzarsi della realtà economica. Ma con la necessità di sbarazzarsi della realtà economica viene meno nello stesso tempo ogni possibilità di farne una teoria scientifica: non c'è teoria se non di ciò che esiste. D'altra parte si presenta qui un'altra difficoltà del ragionamento: dal momento che la teoria economica appare come una illusione, ne consegue che la realtà economica è anch'essa una illusione, sia pure necessaria, una rappresentazione illusoria investita in pratiche che possiedono solo l'apparenza nella realtà. Si è allora costretti a porsi il problema: rappresentazione illusoria di che cosa? E la sola risposta possibile (quella che fornisce ancora il giovane Marx) è quella dell'antropologia filosofica: rappresentazione illusoria dell'uomo.

Ma se si devono distinguere i due termini fin qui confusi, si otterrà: da una parte una critica storica della realtà economica: le forme economiche sono l'effetto di condizioni storiche determinate dalla produzione, non esistono che nella misura in cui permangono queste condizioni e sono destinate eventualmente a sparire con quelle (Cfr ., oltre alla Prefazione del 1859 a Per la critica..., il seguito del testo di Engels citato più sopra: AntiDühring, Il, cap. 1); dall'altra parte una critica storica della teoria economica: non tanto una storia dell'economia politica (nella sua lettera a Lassalle del 22 febbraio 1858, Marx accantona questo oggetto) ma, più fondamentalmente, una dimostrazione della storicità dell'economia politica, giacché le sue condizioni di possibilità teorica, interne, sono date da una determinata situazione storica e dal suo rapporto con questa situazione.
Sotto questa duplice forma, si fa strada l'idea, per Marx fondamentale, di una «critica» immanente al processo storico stesso.

3. La critica della realtà economica ha, al fondo, un significato molto chiaro, almeno in linea di principio: si tratta di mettere in evidenza le «contraddizioni antagonistiche» della realtà economica (dei rapporti di produzione e di scambio, dunque di distribuzione). L'espressione significa in primo luogo che le contraddizioni economiche sono in se stesse degli antagonismi sociali che tendono a riprodursi. Si tratta di mostrare che queste contraddizioni non sono degli epifenomeni della realtà economica vale a dire che questa può esistere senza queste contraddizioni, e può esserne liberata con una tecnica o una politica appropriate ma ne costituiscono la sua stessa «essenza».
Si tratta pertanto di mostrare che la realtà economica è, nella sua essenza, un processo di esplicitazione e di realizzazione di contraddizioni. In effetti, le condizioni sociali della produzione materiale («rapporti di produzione») costituiscono esse stesse delle condizioni antagonistiche: si basano cioè sulla lotta di classe. Ma se è vero che nessuna realtà può sfuggire alla sua determinazione ad opera delle condizioni della produzione materiale, al di fuori della quale non si dà semplicemente alcuna società, si rende necessario rapportare l'insieme della struttura economica e delle sue «leggi» (dalla «legge del valore» fino alla «legge dell'accumulazione» e alla «legge della popolazione») alla storia dei modi di produzione materiale che è la storia de\Ie condizioni della lotta di classe.
Il rapporto con la storia è dunque indissociabile dal rapporto con la lotta di classe. Pensato isolatamente, anche in termini provvisori, il punto di vista storico non condurrà ad una critica materialistica ma solamente al relativismo, a «relativizzare» la realtà economica (come fanno per esempio Stuart Mill e più tardi Max Weber e l'antropologia sociale contemporanea) sostenendo che tale realtà economica non è immutabile, si trasforma, e che, considerata secondo una data forma storica, non vale che per un'epoca, ecc.. Per far sì che queste formulazioni abbiano, in senso forte, una portata critica, è necessario che sia loro conferito, come contenuto, il riconoscimento della lotta di classe.
Detto altrimenti: si devono produrre due dimostrazioni reciproche: da una parte che le contraddizioni antagonistiche della struttura economica sono ineludibili, non ammettono cioè né «superamento» né «conciliazione». Questo perché non c'è superamento possibile se non illusorio, come sogno ideologico, realizzazione immaginaria di un desiderio delle condizioni materiali di esistenza della società. Le contraddizioni antagonistiche, d'altra parte, sono già la trasformazione dello stato di cose esistente, «destinato a perire». Esse significano l'impossibilità per lo stato di cose esistente di perpetuarsi tale e quale e, al tempo stesso, la possibilità di una diversa forma di produzione, dunque di esistenza sociale. È ciò che Marx esprime definendo le «leggi» di struttura della realtà economica come delle «tendenze» rivoluzionarie.
Beninteso, ciò non può essere semplicemente affermato, ma deve essere dimostrato dettagliatamente in modo tale da identificare ed esplicitare le. tendenze contradditorie. È ciò che viene chiarito da uno dei significati dell'idea di dialettica, nella misura in cui la dialettica è un movimento, reale, «dialettica della natura» ( e Marx nel Capitale parla di leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come «processo di storia naturale»), e non solamente un movimento pensato, un «metodo» intellettuale per pensare il movimento. Nello stesso tempo rende possibile precisare il senso dell'idea di «critica»: la critica reale è la dialettica. Nel Poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, Marx scrive per es.: «La dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza» (C, I, 45).
Questo punto non è tuttavia così chiaro in Marx come si vorrebbe: se la critica reale è la dialettica, perché continuare a usare sistematicamente il termine «critica»? perché non parlare semplicemente, come farà Engels, di «dialettica materialistica» ?
Dal momento che non si tratta di adottare «dall'esterno» o, ciò che fa lo stesso, dal punto di vista di un soggetto morale fittiziamente situato dentro il corso della storia un punto di vista critico sulla realtà, vale a dire di giudicare la realtà, bensì di analizzarne il processo di contraddizione immanente, come mai c'è ancora posto per il concetto di critica al di là della semplice unità (indicata molto più esplicitamente dal termine di dialettica) tra il concetto di rivoluzione, che caratterizza il processo reale stesso, e il concetto di teoria o di scienza di questa realtà, che ne fornisce la conoscenza oggettiva? Se la questione non è completamente chiarita in Marx, è precisamente perché questa «unità» della scienza e del processo rivoluzionario non è un dato immediatamente acquisito, non scaturisce ne da una semplice intenzione ne dall'impiego tecnico di uno strumento teorico in forza della sua «verità» intrinseca. Si pone un problema in relazione alle modalità di adeguazione, di appropriazione dell'oggetto (rivoluzione) da parte della teoria (scienza), così come c'è un problema di modalità di intervento della teoria scientifica nel processo rivoluzionario. Diciamo schematicamente che la permanenza dell'equivalenza «dialettica = critica» accanto all'equivalenza «dialettica = scienza» segnala in Marx l'esistenza di questo doppio problema e indica che la sua natura è, di fatto, politica (anche nel senso della necessità di una politica della teoria). Così, anche la distinzione da cui siamo partiti tra realtà economica e teoria economica è solamente relativa. Il che non significa che si debba giungere a non distinguere i due termini, ma che la critica della teoria economica, lungi dall'essere una semplice conseguenza della costituzione di una teoria scientifica della lotta di classe, di tale teoria scientifica costituisce un momento necessario.


4. Questa critica, come abbiamo detto, si è trasformata nel corso del lavoro di Marx. Quantomeno ha inglobato elementi nuovi ed ha spinto l'attenzione progressivamente su aspetti più fondamentali dell'economia politica. Questo stesso fatto ci pone il problema di sapere se essa ha conservato sempre esattamente lo stesso oggetto, o lo stesso obiettivo. Qui non si tratta solo della trasformazione, già rilevata, intervenuta tra il punto di vista antropologico delle opere della giovinezza e il punto di vista materialistico successivo, ma della trasformazione che si determina tra Per la critica dell'economia politica (1859) e il Capitale (1864): precisamente, come mostra l'epistolario di Marx, al momento della «rilettura» da parte di Marx dei testi di Smith e Ricardo, in particolare nello studio della rendita fondiaria, e che corrisponde alla redazione delle Teorie sul plusvalore (18611863).
Nella sua recensione del 1859, Engels distingue una critica storica ed una critica logica dell'economia politica. La critica «logica» non è apparentemente quella di Marx a meno di riuscire praticamente a ricostruire tutta la storia dell'economia politica a partire dalla sua base sociale e in tal modo spiegarla, ma essa prende subito la sua rivincita: di fatto essa stessa indica, sia pure in modo astratto, il proprio rapporto con la storia. Si tratta piuttosto di una storia delle categorie economiche, una ricostruzione cioè della loro genesi (che va dal «complesso» al «semplice», il quale è sempre l'esito finale dello «sviluppo completo» dei rapporti di scambio), che una storia dell' economia politica stessa. Ma l'economia politica, in quanto disciplina e in quanto discorso, altro non è che il luogo letterario dove si formulano le categorie economiche, dove queste si fanno esplicite e «coscienti».
Così la storia dell'economia politica, come mostra la Introduzione inedita ai Grundrisse del 1857, riflette sia direttamente sia in termini rovesciati l'emergenza delle categorie economiche. Di modo che, nel quadro di una critica «logica», la storia dell'economia politica viene infine ad essere concepita non, ad esempio, nei termini delle sue scansioni cronologiche e dei conflitti tra scuole, ma, più fondamentalmente, nella sua essenza, secondo il filo conduttore della sua necessità interna, indipendentemente dalle «casualità» e dagli «scarti» o dai ritorni all'indietro che sembrano a prima vista caratterizzarla. E se esiste una critica «logica» dell'economia politica, è perché esiste una logica delI' conomia politica, è perché l'economia politica si rende intelligibile essa stessa per la presenza, al fondo, di uno sviluppo logico che le è immanente.
La «critica dell'economia politica» allora sarà la restituzione di questa logica, l'enunciazione della sua verità interna (immanente) rimasta fino ad allora ignorata, noncosciente e frammentaria.

Quale sarà il risultato? Sarà l'esposizione delle categorie economiche: anzitutto quelle di «valore di scambio» e di «lavoro» (astratto). O piuttosto, si tratterà della «ricostruzione» di queste categorie una volta dissipato il circolo vizioso degli economisti che, nell'analisi dei fondamenti (valore, lavoro) «presuppongono» le categorie «complesse» (profitto, interesse, rendita, salario) che ne derivano. Si tratterà dunque dell'effettiva spiegazione delle leggi economiche sulla base della definizione del valoreIavoro e di esso soltanto, «ciò che nessun economista ha saputo fare».
Così la storia. delle categorie economiche riprodotte nel pensiero che ne riflette lo sviluppo reale (sia pure in un ordine inverso) è già in se stessa Un processo di «critica». Per questo Marx scrive, nell'appendice storica del capitolo 1 di Per la critica. ..: «L'analisi della merce come lavoro in duplice forma, l'analisi del valore d'uso come lavoro reale o attività produttiva conforme allo scopo, l'analisi del valore di scambio come tempo di lavoro sociale uguale, sono il risultato critico finale (das kritische Endergebnis) delle indagini compiute durante più di centocinquant'anni dall'economia classica, la quale ha inizio in Inghilterra con William Petty, in Francia con Boisguillebert e ha termine in Inghilterra con Ricardo, in Francia col Sismondi» (CEP, 34).
In questo senso la critica di Marx si applica ad un discorso che è già in sé, ma in sé solamente, intrinsecamente critico, e che per questo può assumere una forma «logica». La critica degli errori logici degli economisti, così come la risposta ai problemi suscitati dalla loro scoperta (che essi non sono in grado di affrontare perché la loro esposizione è contraddittoria), costituirà così, che lo vogliano o no, la realizzazione della loro propria tendenza critica. È anche per questo che è possibile parlare nuovamente di «dialettica» in un senso assai prossimo a quello di Hegel (che Marx aveva riletto nel 1858). È cioè impossibile sviluppare correttamente l'analisi del valore sulla sua base reale scoperta dall'economia politica (il lavoro sociale generale, «astratto» ) senza con ciò far apparire al tempo stesso le contraddizioni che si manifestano nelle sue forme successive (la merce, la moneta, il capitale), contraddizioni delle quali Petty o Smith, come Ricardo, non fanno ancora .che giustapporre i termini opposti, il che li induce ad inevitabili errori.
Questa problematica conosce peraltro, al suo interno, una trasformazione storica, che si colloca tra la Critica del 1859 e il Capitale. Più precisamente, una duplice trasformazione, i cui indici ci sono forniti da una parte dalla natura e dall'oggetto delle critiche specifiche che, nel Capitale, Marx rivolge agli economisti (in che cosa consistono i loro «errori», le loro «lacune» e le loro «contraddizioni»); d'altra parte il posto, nuovamente modificato, della storia delle dottrine economiche all'intemo della teoria «critica» di Marx.
Le critiche rivolte agli economisti si riferiscono sempre ad uno stesso punto nodale, che, si è visto, :ostituisce l' ùessenziale dell'«esito critico» dell'economia politica classica, reso esplicito per la prima volta in Ricardo: la riduzione generale del valore (di scambio) al lavoro. Ma se nel 1859 (in Per la Critica...) gli errori degli economisti (e dello stesso Ricardo) sono identificati dal Iato delle conseguenze che essi cercano di trarre da questo principio (che sono quindi delle «inconseguenze»), nel 1867 (II Capitale), essi sono identificati dal Iato dei principi stessi: come dice Marx nella importante lettera a Engels dell'8 gennaio 1868, la «determinazione» del valore da parte del lavoro risulta «indeterminata» in Ricardo, e proprio in ciò consiste la contraddizione insormontabile: la determinazione è un'indeterminazione! «...fintantoché la determinazione del valore in base al tempo di lavoro è "indeterminata", come presso lo stesso Ricardo, essa non rende la gente shaky (incerta). Ma non appena essa viene collegata esattamente con la giornata lavorativa e con le sue variazioni, si presenta dinanzi agli occhi della gente un'idea nuova, molto sgradevole».
Tutto è quindi giocato a livello di questa determinazione. Per Ricardo il concetto di «lavoro» è un concetto indifferenziato, il «tempo di lavoro» non è tanto la misura di una forza-lavoro erogata quanto il lasso di tempo necessario alla produzione, il tempo che il lavoro dell'operaio «risparmia» al capitalista e che fa «economizzare» lui stesso incrementando la produttività ciò che esprime, sul tempo di lavoro, il punto di vista del capitale, non quello del produttore.
Così l'economia politica ivi compreso Ricardo si rappresenta pur sempre il lavoro come una «potenza del capitale». È questo il motivo per cui è del tutto insufficiente classificare le teorie economiche a seconda che esse facciano o meno del «lavoro» la base della loro problematica. È necessario domandarsi anche quale concetto di «lavoro» sia messo in campo.

Ma spingiamoci più oltre: se gli errori degli economisti si situano sul piano delle conseguenze, si tratterà solo di evidenziarle, di rispondere alle obiezioni, di togliere gli ostacoli per liberare il «nocciolo» razionale dell'economia politica. Si tratterà ancora e pur sempre di produrre un'economia politica, a condizione di definirla come economia politica (esplicitamente) critica. Se invece gli errori hanno a che vedere con i principi, con il modo con cui questi principi sono essi stessi l'inizio «assoluto» che circoscrive d'emblée l'oggetto dell'economia politica ed il suo «punto di vista», non è forse necessario considerare le contraddizioni e le confusioni che essa comporta come l'indice dell'impossibilità di una economia politica, liberata dalle illusioni e dall'idealismo politicogiuridico borghese?
Allora non ci si dovrà accontentare dello scetticismo, ma si tratterà di procedere alla costituzione nella teoria di un punto di vista non economico.
Pare a noi che sia questa la direzione verso la quale si è orientato Marx a partire dal momento in cui ha sviluppato l'analisi concreta del plusvalore, o diciamo meglio: l'analisi delle forme di costituzione del plusvalore legate alle modalità storiche date del pluslavoro capitalistico. La si può designare come «materialismo storico», poichè sempre questa analisi che Marx ed Engels designano come il suo oggetto specifico (la «seconda scoperta» di Marx, successiva alla scoperta generale della determinazione in ultima istanza della politica e dell'ideologia da parte del modo di produzione).
Si ottiene così una risposta formale alla questione posta più sopra: la «realtà» della quale si analizzano le contraddizioni non è una realtà «economica». È solamente la «teoria economica» che la rappresenta ideologicamente come «economia».


5. Per l'economia politica, la forma valore dei prodotti del lavoro è un dato inspiegabile. Se essa si interroga sull'«origine» di questa forma, lo fa in modo necessariamente fittizio, «metafisico», sviluppandone la genesi ideale a partire dalla natura umana e sempre nella sfera stessa dello scambio (di qui la sua tendenza permanente alle «robinsonate» che mettono in scena la «propensione allo scambio» dell'uomo primitivo). Marx lo ribadisce costantemente: tutti gli economisti, ivi compreso, ed in modo particolare, Ricardo, sono deviati, «in quanto borghesi» (senza dubbio perché solo questo punto di vista possiede senso in relazione alla pratica contabile del capitalista) dal problema della determinazione e delle fluttuazioni quantitative del valore di scambio, ma non sollevano la questione della costituzione stessa della forma valore.
Si tratta, per Marx, di mostrare che il punto di vista costitutivo dell'economia politica elude due questioni fondamentali a proposito della «legge del valore», che sono legate l'una e l'altra alla struttura storica dello sfruttamento, alla natura del rapporto di produzione capitalistico. 1) Questo punto di vista elimina la questione: che cos'è il «lavoro sociale» che determina il valore? Qual è la struttura del processo sociale che implica una determinazione quantitativa dei prodotti sotto la forma di valore? La sola «risposta» che l'economia politica è in grado di fornire a questo problema (risposta senza domanda esplicita) consiste nell'indicare, come correlato dello scambio, la divisione del lavoro in generale, indipendentemente dalla forma sociale secondo la quale essa accade. 2) Elimina altresì il problema: quali sono le condizioni che fanno della forza-lavoro stessa (l'economia politica dice: «del lavoro» ) una merce, dotata di un determinato valore e che permettono di considerarla come tale nella valutazione del prodotto? L 'economia politica pone solamente come un fatto, assolutamente enigmatico, l'equivalenza media tra il valore dei mezzi di consumo necessari ai lavoratori e il valore della forza-lavoro stessa. Essa occulta il mistero di questo fatto sotto l'evidenza della «categoria irrazionale» del salario come «prezzo del lavoro», con forme al suo «valore». Sono queste due domande rimosse dall'economia politica che l'analisi di Marx pone al contrario fin dall'inizio nel Capitale e che aprono un nuovo campo problematico.
Ma queste due domande non possono essere trattate indipendentemente l'una dall'altra, né indipendentemente dall'esistenza dello sfruttamento, del quale anzi impongono di studiare le forme storiche. La determinazione del valore della forza lavoro nel processo di riproduzione della forza lavoro come merce si basa sulle forme della lotta di classe che riducono tendenzialmente il consumo dei lavoratori alla semplice riproduzione della loro forza. Si basa dunque sull'espropriazione dei lavoratori, poi sul mantenimento della concorrenza tra di loro, che assicura sotto forme specifiche di ciascuna fase del capitalismo lo sviluppo di un «esercito industriale di riserva» (dato ignorato dalla «legge di bronzo» di Lassalle).
Più a fondo ancora, l'analisi del «lavoro sociale» come fonte del valore rinvia direttamente allo sfruttamento. Come mostra Marx all'inizio del Capitale, lo sviluppo della forma valore presuppone esso stesso il «doppio carattere del lavoro», «lavoro concreto» da una parte, differenziato secondo le branche di una divisione sociale del lavoro (che il capitalismo costantemente approfondisce e modifica), «lavoro astratto» dall'altra, incorporato dai mezzi di produzione, lavoro esistente nei termini di «semplice erogazione di forza umana». Ora, solo il modo di produzione capitalistico trasforma i mezzi di produzione in «monopolio» di una classe particolare, separati dalla forzalavoro in modo tale da consentire di utilizzarli come mezzi per «pompare» lavoro umano indipendentemente da ogni utilità immediata di questo lavoro (per i produttori ma anche per i proprietari dei mezzi di produzione). Solo tale modo di produzione conferisce una forma universale e sviluppata, su scala sociale complessiva, al processo nel quale appaiono e si condizionano reciprocamente i due «caratteri», astratto e concreto, del lavoro sociale. Agli occhi di Marx, è dunque il processo stesso di produzione del «plusvalore», dunque di accumulazione del capitale, di concentrazione e di monopolio dei mezzi di produzione, che riproduce in permanenza la forma di valore di tutti i prodotti e della stessa forza-lavoro.
L'analisi di Marx porta così ad un «rovesciamento» paradossale agli occhi degli economisti: invece di sviluppare le conseguenze di una definizione generale del valore o le conseguenze di un principio quantitativo di determinazione dei valori, l'uno e l'altro ricavati dalle «evidenze» della pratica del capitalista, espone una forma particolare di organizzazione del lavoro sociale che implica un antagonismo permanente, inconciliabile. Egli ne deduce le condizioni storiche che vincolano l'accumulazione capitalistica, ed apre nello stesso tempo il problema della trasformazione storica di queste condizioni. Invece di definire lo sfruttamento come la conseguenza di un meccanismo economico (per esempio di ripartizione ineguale) Marx al contrario definisce le forme economiche come dei momenti e degli effetti dello sfruttamento, del quale egli per la prima volta fornisce un'analisi obiettiva. Si può allora comprendere perché la categoria di valore si configura immediatamente come la categoria teoricamente nevralgica, discriminante. Essa rappresenta infatti il punto di «scontro», cioè il punto di divergenza permanente, inconciliabile tra il materialismo storico e l'economia politica. A seconda che il punto di questa divergenza sia o meno evidenziato, l'oggetto stesso della critica di Marx viene o meno riconosciuto, a cominciare da Marx stesso, come abbiamo visto richiamando le formulazioni di Per la critica. ..sistematizzate da Engels nella distinzione tra modalità «logica» e «storica» della critica. Il termine «valore» funziona nello stesso tempo come una categoria economica che figura esplicitamente o implicitamente alla base del ragionamento economico e (nel materialismo storico) come una determinazione di forma storica del processo sociale di sfruttamento. È questo il motivo per cui a proposito di esso si pone in permanenza il problema della «critica dell'economia politica». L'economia politica non può rendere conto del materialismo storico. Ma il materialismo storico può rendere conto dell'economia politica e definirla come una rappresentazione ideologica implicata nelle forme oggettive dello sfruttamento capitalistico.


6. A partire da qui Marx è in grado di avanzare una tesi più precisa sulle condizioni storiche e sociali di esistenza di una «economia politica» nel senso che si è appena indicato. Questa tesi è legata alla distinzione tra l'«economia scientifica» e l'«economia volgare». Si vedano in particolare su questo punto le Teorie sul plusvalore, capitolo 10, dove questa distinzione è proposta a partire da quella tra le «due parti», «esoterica» ed «essoterica» della teoria economica in Smith e in Ricardo. Nel Poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale (1873), Marx procede oltre: espone come un solo processo complesso, articolato in fasi successive, lo sviluppo (contraddittorio) dell'economia politica e la storia delle lotte di classe in Europa. «L'economia politica, in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce l'ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all'inverso come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finche la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati» (C, I, 3839).
In particolare, per tutto il tempo in cui questa lotta non è organizzata sul versante proletario. n periodo classico dell'economia politica si chiude nel 1820, con Ricardo, che formula «ingenuamente» l'opposizione degli interessi economici di classe «come la legge naturale immutabile della società umana», e con ciò «la scienza borghese dell'economia era anche arrivata al suo limite insormontabile» (ivi). In seguito, nello stesso tempo in cui l'antagonismo del capitale e del proletariato rimane celato da quello tra il capitale industriale e la proprietà fondiaria, si sviluppano le contraddizioni interne dell'economia politica. «Col 1830 subentrò la crisi che decise una volta per tutte. La borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi raggiunse tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no; ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all'indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia in tenzione dell'apologetica.» (C, I, 40). Dopo le rivoluzioni del 1848-49 si entra nel periodo della della composizione dell'economia politica, della sua trasformazione in «economia volgare». E, nello stesso tempo, il socialismo acquisisce una forma scientifica, sviluppa la critica dell'economia politica: «Se e in quanto tale critica rappresenta una critica generale, può rappresentare solo la classe la cui funzione storica è il rovesciamento del modo di produzione capitalistico e, a conclusione, l'abolizione delle classi: cioè il proletariato.» (C, I, 41)
È necessario vedere qui ben più di un «relativismo» politico o di un «sociologismo» semplice, che fa dell'economia politica, e poi del socialismo, la coscienza collettiva di un'epoca o di una classe. La storia della teoria non rinvia in linea diretta alla posizione di ciascuna classe, bensì alla forma della loro contraddizione complessiva. n rapporto non è tra ciascuna classe e la «sua» teoria, ma tra la forma delle contraddizioni di classe e la forma delle contraddizioni nella teoria. L'economia classica è «scientifica» formalmente, nella misura in cui ricerca delle spiegazioni oggettive che risalgono ai principi e non si accontentano di elaborare l'ideologia economica implicata nelle tecniche della gestione degli «affari», nelle politiche dello stato.
Essa rinvia alla lotta del capitale (industriale) contro la proprietà fondi aria (e più il modo di produzione capitalistico si sviluppa, più questa lotta si limita ad uno scontro per una determinata ripartizione del plusvalore tra le fazioni della classe dominante). L'economia politica cristallizza questo punto di vista nella figura del «produttore-scambiatore», homo oeconomicus per eccellenza, teso a liberarsi da ogni ostacolo. In questa misura l'economia politica non può rappresentare l'opposizione degli interessi del capitale e del proletariato che come una contraddizione secondaria, non antagonistica. Essa contiene dunque sempre già un elemento «volgare», «apologetico» (l'elemento «esoterico» di Smith sempre presente nel nucleo della teoria di Ricardo, con la «teoria dei tre fattori della produzione»: Terra, Capitale e Lavoro).
Si può allora sostenere che ciò che conferisce all'economia classica la sua forma «scientifica», ciò che decide dall'interno la produzione delle sue «astrazioni scientifiche» è precisamente la combinazione dell'elemento oggettivo e di quello volgare: la combinazione dell'elemento di riconoscimento e dell'elemento di misconoscimento delle lotte di classe nell'unità della medesima problematica.
Combinazione necessaria e contraddittoria, caratteristica dell'economia politica, e che la fa esistere come «teoria». L'elemento «scientifico», se poteva essere sottratto alla sua combinazione con l'elemento «volgare», non sarà più «economia»; quanto all'elemento volgare isolato, prodotto dalla decomposizione dell'economia politica, è a mala pena o non è affatto più teoria economica (anche quando prende una forma matematica). Esso tende a ritornare all'ideologia politico-giuridico-morale che maschera le tecniche dello sfruttamento.
Nello stesso Poscritto del 1873, Marx non suggerisce che un'eccezione assai interessante, quella di J. Stuart Mill con il «suo tentativo di conciliazione dell'inconciliabile», cioè la conciliazione dell'«economia politica del capitale con le richieste del proletariato», in altre parole con il socialismo. Essa ritrova così, malgrado il suo eclettismo, una «combinazione» formalmente analoga a quella dell'economia classica (e non è fuori luogo chiedersi se una diagnosi analoga non potrebbe essere riferita anche a teorici posteriori, come Keynes...).