piccolo dizionario marxista

libertà


Per il giovane Marx, giornalista della Reinische Zeitung (1842), il termine libertà ha il significato che gli proviene dalla filosofia di Hegel e dal clima intellettuale dell'hegelismo di sinistra. A questa tradizione filosofica, che rivaluta gli elementi con temporaneamente illuministici e romantici dell'umanesimo tedesco, Marx deve la rappresentazione della libertà come qualità propria del soggetto autocosciente, contrapposta quindi all'oggettività della natura, al caso, alla dimensione sovrannaturale, alle leggi ingiuste ecc.. Ma questa libertà del soggetto può realizzare hegelianamente la sua sostanza spirituale solo nella forma eticamente più alta del volere che coincide con l'universalità della ragione. Dal punto di vista del retroterra storico il giovane Marx si trova quindi ad ereditare la forma concettuale che il problema della libertà (nato nel terreno filosofico e politico della cultura della Rivoluzione francese) ha assunto una volta che sia stato riformulato nel concetto filosofico di spirito.
In conseguenza all'uso politico che il giovane Marx farà del concetto di libertà riaffioreranno in esso proprio alcuni degli elementi ideologici che ne caratterizzano l'origine.
La lezione hegeliana insegna che la libertà non può tradursi nel privilegio particolare, tipico del feudalesimo, e individuale, tipico della società civile, perché la sua caratteristica è l'universalità reale e non chimerica. «Questi signori, poiché non vogliono che la libertà sia un dono naturale di cui essere debitori alla luce solare e universale della ragione, bensì un dono soprannaturale di una costellazione particolarmente benigna, poiché considerano la libertà come una proprietà individuale di determinate persone e classi, sono costretti di conseguenza a comprendere la ragione universale e la libertà universale tra i cattivi sentimenti e le chimere di un "sistema logicamente ordinato". Per salvare le libertà particolari del privilegio prescrivono la libertà universale della natura umana» (RZ, 92).
Marx pensa, dunque, hegelianamente, la libertà come il luogo, ad un tempo spirituale e concreto, dove comporre la dimensione della singolarità e la tensione dell'universalità. Nella libertà insomma la ragione si realizza: diviene stato «... non dalla religione, ma dalla razionalità della libertà deve sorgere lo Stato» (RZ, 153). Il giovane Marx sviIuppa l'equazione libertà = stato nel senso liberal-progressista che aveva recepito dall'influenza della sinistra hegeliana. Questo significa che l'attuazione delIo stato come massima espressione della libertà era subordinata ad una azione politica che lo liberasse da ogni forma arcaica e feudale (le istituzioni del vecchio stato prussiano) e perciò illiberale e contraria alla ragione. Su questa linea Marx publicista s'impegna a fondo rivendicando alla stampa la funzione di critica verso le istituzioni. Difendere la libertà di stampa significa, allora, per Marx, adempiere ad una duplice missione: da un lato difendere, nella libertà di stampa, un aspetto della libertà nella sua universalità, dall'altro difendere lo strumento più idoneo a favorire, in nome della libertà, e per la libertà, l'universalità dello stato (sempre la libertà) contro ogni interesse personale e di ceto. «Ciò vale in particolare per l'opposizione contro la libertà di stampa, poiché in genere nell'opposizione contro una libertà universale lo spirito di una sfera ben precisa, l'interesse personale di un ceto particolare, la parzialità naturale del carattere si manifestano nella maniera più aspra e netta e quasi mostrano i denti.» (RZ, 75)
Marx, insomma, nel tema della libertà di stampa metaforizza la struttura dell'autocoscienza che, come momento unificante della dicotomia politico-filosofico, genera l'illusione romantica dell'intercambiabilità dei concetti di «stato» e di «spirito del popolo». La connotazione della libertà di stampa nella scrittura pubblicistica del giovane Marx si avvaIe di una koiné linguistica in cui si trovano sedimenti hegelo-romantici, filosofico-metafisici, fichtiano-idealisti. «Essa» scrive Marx «è l'occhio dello spirito popolare aperto su tutto, la fiducia incarnata di un popolo in se stesso, il legame parlante che unisce il singolo con lo Stato e col mondo, la cultura fatta corporea, che illumina di spiritualità le lotte materiali e ne idealizza il greggio aspetto terreno. È la franca confessione di un popolo dinanzi a se stesso... è lo specchio spirituale nel quale ogni popolo si guarda... È lo spirito dello Stato... È universale, onnipresente, onnisciente.» (ivi, 108)
Questa medesima valenza teorica il concetto di libertà mostra nella critica marxiana alla filosofia del diritto di Hegel. Il modello feuerbachiano di questa critica fa sì che Marx veda nello stato di Hegel la sintesi ideale e astratta della società civile: la sua realtà ridotta nell'ordine del concetto. Di fatto, però, nell'ideale di stato democratico - risultato che nasce dall'incontro delle libertà individuali - Marx recupera roussoianamente alla struttura statuale la dimensione della universalità.
«Si dovrebbe prima ridestare nel petto di questi uomini l'umano sentimento di sé, la libertà. Soltanto questo sentimento, che con i Greci scomparve dal mondo e con il cristianesimo si dissolse nell'azzurro etere del cielo, può fare nuovamente della società una comunità di uomini per i loro fini supremi, uno Stato democratico.» (LDFJ, 149)
L'illusione di sottrarsi alla libertà filosofico-astratta di Hegel, recuperandola concretamente in uno spazio che il giovane Marx considera reale in quanto politico, lo costringe, paradossalmente, ad una soluzione, di fatto, ancora idealista. La libertà, concettualizzata in una categoria politica, appare come una istanza propria della società civile che bisogna universalizzare rendendola politica, trasferendola cioè nello stato.
In questo modo la categoria ha prodotto, con un'astrazione dal reale, se stessa: è il processo intellettuale che va dalla concezione democratica dello stato propria della Rivoluzione francese alla concezione filosofica dello stato hegeliano. Per questo quando Marx, percorrendo a ritroso il cammino hegeliano, nella Questione ebraica (1843) volgerà l'interesse verso la società civile e a ciò che la determina come il luogo dell' egoismo, si soffermerà proprio sulla libertà come la categoria fondamentale della Rivoluzione francese. Essa rappresenta, secondo il Marx che critica anche se stesso, l'esatta trasposizione, idealizzata a livello della teoria, dell'individualismo a cui l'uomo è costretto nella sua vita sociale. Ciò che l'individuo deve subire come sua condizione normale (egoismo, isolamento, individualismo) gli viene proposto, astrattamente, come ideale da raggiungere in una sorta di proiezione religiosa nella sfera dei diritti dell'uomo. «Ma il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo, ma piuttosto sull'isolamento dell'uomo all'uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell'individuo limitato, limitato a se stesso.» (QE, 176)
La problematica feuerbachiana, che sposta l'analisi di Marx dall'astratto dello stato al concreto della società, gli rivela come, al pari dello stato, la concezione illurninista prima e romantica poi della libertà abbia funzionato nelÌ'ideologia politica come forma che riproduce l'alienazione dell'uomo che vive in una società dominata dall'interesse privato. «L'uomo non venne perciò liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa. Egli non venne liberato della proprietà. Ricevette la libertà della proprietà. Egli non venne liberato dall'egoismo del mestiere, ricevette la libertà del mestiere.» (ivi, 181)
Engels, a sua volta, fa eco al tema marxiano con un linguaggio direttamente politico e meno filosoficamente mediato: la libertà come traguardo politico dell'uomo è una menzogna che nasconde I'asservimento. «La libertà politica è una finta libertà, la peggior schiavitù possibile; parvenza di libertà, dunque realtà dell'asservimento.» (PRS, 429) Questi stessi temi di critica della concezione politica della libertà ritornano nella Sacra Famiglia (1845).
La libertà politica riguarda un soggetto interpretato filosoficamente: nella realtà sociale questo cielo filosofico mostra la sua radice terrena nelle condizioni sociali che regolano i rapporti tra gli uomini secondo le leggi che sono proprie della proprietà privata. Il concepire poi come espressione della libertà le forme sociali esistenti, in quanto proprie della capacità di intrapresa dell'individuo, significa non tener conto degli effetti che esse generano sull'essenza dell'uomo. «La schiavitù della società civile è apparentemente la libertà più grande, poiché l'indipendenza, apparentemente compiuta, dell'individuo, il quale considera il movimento non più vincolato da legami generali e non più vincolato dall'uomo, il movimento sfrenato dei suoi elementi vitali alienati, per esempio la proprietà, l'industria, la religione, ecc., come la sua propria libertà, mentre essa è piuttosto la sua compiuta schiavitù ed inumanità» (SF, 130). Non vi è dubbio che il giovane Marx si trova a pensare qui, nel quadro dell'umanesimo filosofico tedesco, alcuni valori fondamentali che hanno le loro radici nel pensiero politico della Rivoluzione francese, ma anche nel liberalismo inglese. È infatti il concetto filosofico di alienazione che interviene per «normalizzare», a livello universale, il tema della libertà.
Infatti è solo con il superamento dell'alienazione e il conseguente realizzarsi storico dell'essenza umana nel comunismo che dovrebbe realizzarsi la libertà come universalità concreta e sociale. In questo modo, però, il concetto di libertà viene ancora attratto in un campo filosofico e, in quanto collegato ad una idea astratta (I'essenzà dell'uomo), si pone, ancora una volta, come un attributo del soggetto coscienziale: la pratica sociale della libertà riprodurrebbe nuovamente I'autocoscienza hegeliana.
È solo nel quadro della concezione materialistica della storia propria dell'Ideologia tedesca (1845) che Marx ed Engels considerano come ideologica ogni concezione della libertà che sia costruita con concetti filosofici e che non sia veduta in relazione con le forme sociali che derivano dalla produzione materiale della vita. La libertà, in questo secondo caso, va sempre collegata direttamente al soddisfacimento di un bisogno emergente. Nell'ambito della sinistra hegeliana il caso che meglio illustra la concezione ideologica della libertà è quello di Stirner.
Secondo Marx ed Engels, Stirner ha riproposto nel tema della libertà il veicolo per riproporre la soggettività individualistico-borghese. «In luogo degli individui reali, avendo messo da parte questo elemento, subentrò "l'uomo" e in luogo del soddisfacimento del bisogno reale subentrò l'aspirazione verso un ideale fantastico, la libertà come tale, la 'libertà dell'uomo"» (IT, 306). La libertà in Marx, insomma, nella sua definizione teorica è sempre collegata al modo di produzione ed ai rapporti di produzione in cui si colloca: «Per libertà s'intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il commercio libero, la libera compra e vendita.» (M, 500)
Il processo storico, d'altro canto, si configura come preistoria e come storia della libertà. La preistoria è caratterizzata dalla dipendenza degli uomini dai rapporti sociali di dominio entro i quali ha luogo la riproduzione materiale della vita. La storia della libertà scende dal cielo categoriale dell'idealismo per diventare storia reale della libertà quando sono gli uomini a dominare il processo produttivo e quindi a soddisfare i sistemi di bisogni che via via allargano il processo di umanizzazione del mondo. Questa nel disegno marxiano è l'epoca del comunismo.
Questa medesima dicotomia come «regno della libertà» opposto alla necessità del lavoro come valore di scambio appare nel Capitale come effetto sociale e storico del superamento del modo di produzione capitalistico. «Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna.» (C, III, 933)
Nella società dei produttori associati la libertà, secondo Marx, dovrebbe perdere ogni connotazione etico-filosofica (collegata con il modo di produzione ed i rapporti di produzione borghesi) per recuperare il suo ruolo di momento limite del rapporto uomo-natura. Essa dovrebbe esprimere nel ricambio organico uomo-natura la condizione reale di equilibrio tra la necessità naturale espressa nei bisogni umani e soddisfatta tramite il lavoro e il vissuto sociale e culturale maturato in una pratica comunitaria e collettiva. «A mano a mano che egli [l'uomo civile] si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura... Essi eseguono il loro compito con il minor impiego possibile di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa» (ivi). La libertà appare, in ultima analisi, come il risultato della perfetta attuazione del ricambio organico uomo-natura.
Ma al di là di questo schema generale il rapporto tra necessità e libertà passa all'interno della giornata lavorativa. La riduzione della giornata lavorativa è contemporaneamente sottrazione di disponibilità di forzalavoro per il processo di valorizzazione del capitale, e appropriazione del tempo per un uso autofinalizzato dal soggetto.
Ciò che nella durata della giornata lavorativa si presenta come un conflitto di classe proprio del capitalismo, in una società di liberi produttori , associati (cioè in una società comunista) permane come contrasto tra la necessità del lavoro e la libertà come libera espressione dell'uomo. «...rimane sempre» scrive Marx «un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa» (ivi).
Non vi è dubbio che l'idea di libertà come autofinalizzazione dell'uomo permane in tutta l'opera marxiana: il che significa che il sogno dell'umanesimo filosofico tedesco nel suo tema di fondo il soggetto come autofinalità non si è modificato anche se il lessico che lo organizza ha subito alcune trasformazioni.