La rivoluzione permanente


La teoria della rivoluzione permanente è strettamente associata a Lev Trotsky, ma in realtà essa era già presente negli scritti di Marx e Engels, in particolare nelle loro direttive per il Comitato Centrale della Lega dei comunisti, nel 1848, e, seppur con una formulazione diversa, aveva già trovato una sua collocazione nell'elaborazione di Lenin (Le due tattiche della socialdemocrazia).
Dopo che Stalin assunse il completo controllo del partito e dell'URSS, la violenta campagna di delegittimazione nei confronti di Trotsky e di tutta l'opposizione si basò in buona misura sulla deformazione delle posizioni politiche di chi dissentiva da Stalin, e culminò nella tragica farsa dei processi, in cui ogni voce dissonante veniva assimilata all'anticomunismo e ai complotti imperialisti.
Così le teorie di Trotsky vennero presentate in chiave caricaturale, in genere contrapponendo al realismo di Stalin una visione, da parte di Trotsky, allucinata ed estremista dei processi politici.

La teoria della rivoluzione permanente affronta in realtà il problema di come sviluppare coerentemente una stategia vincente nei paesi arretrati, dove il compimento della rivoluzione democratico-borghese non poteva essere realizzato dalla borghesia stessa.
Già in un suo scritto del 1905, Bilanci e prospettive, Trotsky aveva sostenuto che in Russia la borghesia non potesse realizzare una rivoluzione che portasse la democrazia e al tempo stesso risolvesse anche lo storico problema del latifondo: la riforma agraria era essenziale per sviluppare economicamente la Russia e farla uscire dal feudalesimo zarista, e quindi nell'elaborazione di Trotsky la rivoluzione doveva essere guidata dal proletariato, che non solo avrebbe compiuto la rivoluzione democratico-borghese, ma avrebbe dovuto proseguire direttamente verso la rivoluzione socialista.
In questo senso la rivoluzione avrebbe dovuto essere permanente o ininterrotta: analoghe, come si diceva, le posizioni di Lenin, che parlò di "trascrescenza della rivoluzione democratico-borghese" in rivoluzione socialista; e su queste basi teoriche si compì la Rivoluzione d'Ottobre.

Trotsky riteneva anche che un nuovo Stato socialista non sarebbe stato in grado di resistere alle feroci reazioni del mondo capitalistico, a meno che la rivoluzione socialista non si fosse rapidamente sviluppata anche negli altri paesi.
Contro queste tesi Stalin impose l'idea che si poteva costruire il "socialismo in un solo Paese" entro il territorio dell'Unione Sovietica.

La teoria di Trotsky fu alternativa anche alla teoria socialdemocratica-menscevica secondo la quale le nazioni non sviluppate sarebbero dovute passare attraverso due distinte rivoluzioni: prima la rivoluzione borghese e poi quella socialista.

Dopo l'ascesa di Stalin, Trotsky collegava l'involuzione autoritaria del PCUS all'isolamento internazionale dello Stato sovietico, costretto a dedicare energie alla difesa ed a sopportare senza aiuti il peso dell'arretratezza. L'Unione Sovietica doveva dunque, secondo Trotsky, accelerare il processo d'industrializzazione da un lato, e dall'altro favorire l'estendersi del processo rivoluzionario nell'Occidente capitalistico, soprattutto nei Paesi più sviluppati.