Julius Fucik

Scritto sotto la forca

Capitolo secondo

IN AGONIA

"Quando la luce del sole ed il chiarore delle stelle si spegne per noi, si spegne per noi..."
Due uomini a testa china e a mani giunte camminano con passo pesante e lento, sotto la cripta bianca, sempre in tondo, cantando con voce lunga e discordante una salmodia triste e religiosa.
"...È dolce per le anime levarsi in cielo, levarsi in cielo. "
Qualcuno è morto, chi? Cerco di girare la testa, forse vedrei la cassa e il defunto e le due dita dei ceri puntate al di sopra della sua testa.
"Dove la notte non è più, dove la luce eterna si stende. "
Sono riuscito a aprire gli occhi, non ho visto nessuno, non c'è nessuno, solo i due uomini ed io. Per chi cantano i salmi?
"Quella stella sempre sfolgorante, è Gesù, è Gesù." È la cerimonia funebre, certamente sotterrano qualcuno, ma chi sotterrano? Non ci siamo che loro due ed io. Che vogliano sotterrare me? Ma amici, ascoltatemi, c'è un errore, vi sbagliate, io non sono morto, io vivo, vedete, vi guardo e vi parlo, smettetela, non sotterratemi.
"Quando qualcuno ci dice addio per sempre, per sempre... "
Non sentono, sono dunque sordi? Non parlo a voce abbastanza alta, o sono veramente morto e non possono più udire la mia voce priva di corpo? e con il corpo coricato bocconi starei a guardare mentre mi sotterrano! Una cosa comica, davvero!
" Volge il suo pio sguardo verso il cielo, verso il cielo."
Rammento. Qualcuno mi ha raccolto con difficoltà, mi ha vestito e mi ha portato sulla barella dei morti, i passi ferrati hanno risuonato nel corridoio e poi... È tutto, non so altro, non so proprio altro.
" ...dove la luce eterna si stende."
Ma tutto ciò non ha senso. Io sono vivo. Sento un dolore lontano e ho sete. Ma i morti non hanno sete, concentro tutta la mia volontà nello sforzo di muovere una mano e una voce strana, di qualcun altro, mi esce di gola:
- Da bere!
Finalmente. I due uomini hanno smesso di camminare in tondo, ora si abbassano sopra di me, e uno mi solleva la testa e mi dà una ciotola d'acqua.
- Bisogna che tu mangi qualcosa, ragazzo, da due giorni non fai che bere, altro che bere.
- Che mi dici? Già due giorni? Che giorno è oggi?
- Lunedì.
Lunedì. E mi hanno arrestato venerdì. Che testa pesante che ho! E come rinfresca, l'acqua!
Dormire. Lasciatemi dormire!
Come la goccia d'acqua turba la superficie pura della sorgente!... Una sorgente in un prato, in mezzo alle montagne, rammento, a fianco della casa delle guardie forestali sotto il Monte Roklan, e la pioggia fina e ininterrotta fruscia sugli aghi degli alberi... È dolce dormire. ...E quando mi sveglio di nuovo è martedì, un cane mi sta di fronte. Un cane lupo. Mi guarda e mi esamina con i suoi begli occhi savii e domanda:
- Dove stavi di casa?
Oh no! Non è il cane, la voce appartiene a un altro.
Si, c'è qualcun altro, vedo dei grandi stivali, ancora un altro paio, e dei pantaloni militari, ma non vedo più, ho le vertigini se voglio guardare, e poco me ne importa, lasciatemi dormire...
Mercoledì. I due uomini che hanno cantato i salmi sono seduti ad un tavolo e mangiano in una scodella di terraglia. Già li riconosco, uno è giovane, l'altro più anziano, non sembrano dei frati. E la cripta, non è una
vera cripta, è una comune cella di prigione, vedo le scanalature concentriche del pavimento che partono dai miei occhi per terminare ad una porta pesante e nera...
Le chiavi stridono nella serratura, i due uomini saltano sull'attenti, due altri in uniforme di SS entrano e ordinano di vestirmi.
Ignoravo finora quanti dolori fossero nascosti in ogni gamba dei miei pantaloni, in ogni manica.
Mi mettono su una barella e mi portano giù lungo una scala. Gli stivali ferrati risuonano lungo tutto il corridoio... Dunque è questa la strada per la quale mi hanno già portato e riportato indietro senza conoscenza: dove conduce? In quale inferno va a finire?
Nell'ufficio tetro e squallido della cancelleria di Polizei-Gefangnis (prigione della polizia tedesca a Pankrac). Mi hanno messo per terra e la voce aspra d'un ometto cèco mi traduce una domanda sputata furiosamente da una voce tedesca.
- La conosci?
Mi sostengo il mento con la mano. Davanti alla mia barella sta una giovinetta dalle guance larghe, sta in piedi con fierezza, a testa alta; non ostinata, ma dignitosa, con gli occhi abbassati quanto basta per vedermi e salutarmi.
- Non la conosco.
Ricordo d'averla vista forse una volta, per un momento, durante quella selvaggia nottata al palazzo di Petschek. Ora è la seconda volta, e purtroppo non ce ne sarà una terza, per poterle stringere la mano per la dignità del suo comportamento. Era la moglie di Arnost Lorenze, ed è stata fucilata il primo giorno dello stato d'assedio.
- Ma quella lì la conosci di sicuro.
Anicka Jiraskova. Ma Dio mio, Anicka, come mai siete qui? Non ho mai pronunciato il vostro nome, non ho avuto nulla di comune con voi, non vi conosco, capite? non vi conosco.
- Non la conosco.
- Sii intelligente, giovanotto.
- Non la conosco.
- È inutile, Julius, - dice Anicka, e solo la lieve pressione delle sue dita sul fazzoletto indica la sua emozione: - è inutile. Sono stata denunciata.
- Da chi?
- Silenzio! - Qualcuno ferma la sua risposta e la spinge brutalmente indietro quando si china per darmi la mano.
Anicka!
Non odo più altre domande e solo di lontano, lievemente e senza dolore, come se fossi lo spettatore di me stesso, sento come due SS mi riportino in cella, come dondolino brutalmente la barella e come domandino ridendo grossolanamente se non preferirei di essere dondolato per il collo.
Giovedi. Già comincio a distinguere uno dei miei compagni di cella, il più giovane si chiama Carlo e all'altro più anziano dice: "Padre".
Mi raccontano la loro storia, ma tutto mi si confonde nella testa; c'entra una miniera.. e dei bambini sono seduti su dei banchi, odo una campana, in qualche posto c'è un incendio, pare che il medico, lo SS, venga a vedermi ogni giorno; il mio stato non è tanto grave e sembra che presto mi rimetterò. Me lo dice il "padre", e lo dice con tanta insistenza e Carlo lo approva con tanta convinzione che anche nel mio stato capisco che mi dicono una pietosa bugia. Che bravi ragazzi, come mi rincresce di non potergli credere!
Pomeriggio. La porta della cella si apre e silenziosamente, sulla punta delle zampe, si precipita dentro un cane. Si ferma all'altezza della mia testa e mi guarda di nuovo attentamente, poi due grandi paia di stivali - ora so: un paio appartiene al proprietario del cane, al direttore della prigione di Pankràc, l'altro al capo della sezione anticomunista della Gestapo che ha presieduto al mio interrogatorio notturno - e poi dei pantaloni borghesi. Li seguo con gli occhi dal basso in alto - sì, lo conosco, è il lungo commissario magro che ha guidato la squadra speciale contro di noi. Si siede su una sedia e l'interrogatorio comincia...
- Hai fallito il colpo, salvati almeno la testa. Parla!
- Per quanto tempo hai abitato dai Baxa?
- Lo vedi, sappiamo tutto. Parla!
- Se sapete tutto perché dovrei parlare? Non ho vissuto invano, non ho avuto una vita sterile, e non voglio sciupare la mia fine.
L'interrogatorio dura un'ora. Non gridano, ripetono con pazienza le domande e non ricevono nessuna risposta; ne pongono un'altra, una terza, una decima.
- Non capisci? È finita, capisci, tutto è perduto.
- Soltanto io sono perduto.
- Allora credi ancora alla vittoria della Comune?
- Evidentemente.
- Ci crede - domanda il capo in tedesco, e il lungo commissario traduce - ci crede ancora alla vittoria dei Russi?
- Evidentemente. Non può terminare diversamente. Sono già stanco. Ho concentrato tutte le mie forze per parare le loro domande, ma ora la mia coscienza se ne va rapidamente, come il sangue che cola da una ferita profonda. Sento ancora quando mi danno la mano, forse mi leggono in fronte il segno della morte. Pare che in certi paesi il boia abbia l'abitudine di abbracciare il condannato prima dell'esecuzione.
Sera. Due uomini curvi ed a mani giunte camminano sempre in tondo uno dietro l'altro, cantando con voce lenta e discorde una salmodia triste: "Quando la luce del sole e il chiarore delle stelle si spegne per noi..."
Oh! smettetela, amici! Sarà anche una bella canzone, ma oggi siamo alla vigilia del 1° maggio, la più bella festa dell'uomo, la più gioiosa. Cerco di cantare qualcosa di lieto, ma la mia voce deve suonare ancora più triste, perché Carlo volta la testa e il padre si asciuga gli occhi. Non importa, non mi lascio scoraggiare, continuo a cantare e lentamente essi si uniscono a me. Mi addormento contento.
Alba del 1° maggio. L'orologio della torretta della prigione suona tre rintocchi; è la prima volta che li odo chiaramente. Per la prima volta da quando mi hanno portato in prigione, sono in piena coscienza. Sento l'aria fresca, che scorre giù dalla finestra aperta intorno al mio materasso, sento i fili di paglia che mi si imprimono ora sul petto ora sul ventre, ogni piccola parte del corpo mi fa male di mille dolori e respiro difficilmente. D'un tratto, come se aprissi una finestra, vedo chiaramente: è la fine. Sono in agonia.
Sei stata lunga a venire, morte. E tuttavia ho sperato di fare la tua conoscenza più tardi, dopo lunghi anni. Ho sperato di poter vivere ancora la vita di un uomo libero, di poter molto lavorare, molto amare e molto cantare e molto percorrere il mondo. Proprio ora divenivo maturo e avevo ancora molte forze, non le ho più, mi si spengono dentro. Amavo la vita per la sua bellezza, sono andato sul campo di battaglia. Vi amavo, uomini, ed ero felice quando sentivate il mio amore, ed ho sofferto quando non mi comprendevate. Colui a cui ho fatto torto mi perdoni, colui che ho consolato mi dimentichi. La tristezza non sia mai legata al mio nome, ecco il mio testamento per voi, padre e madre e sorelle, per te, mia Gusta, e per voi compagni, per tutti coloro che amavo. Se pensate che le lacrime possano cancellare il triste turbine della pena, piangete per un momento. Ma non rimpiangete. Ho vissuto per la gioia e muoio per la gioia e sarebbe farmi torto mettere sulla mia tomba l'angelo della tristezza.
Il 1° maggio, una volta, alla stessa ora, eravamo già in piedi nei dintorni della città, e si preparavano le nostre bandiere; alla stessa ora, di già, nelle strade di Mosca i primi gruppi si incamminavano per partecipare alla sfilata, ed anche oggi, alla stessa ora, milioni di uomini combattono per l'ultima battaglia della libertà umana e mille e mille cadono nel combattimento. Io sono uno di loro. Ed essere uno di loro, uno dei combattenti dell'ultima battaglia, è bello.
Ma l'agonia non è bella. Soffoco, non posso più respirare, mi sento un rantolo in gola, ho paura di svegliare i miei compagni di cella: forse, se avessi la gola meno secca ma tutta l'acqua della mia brocca è già stata bevuta. Lì, a sei passi da me, nel gabinetto, ce n'è a sufficienza, avrò la forza di arrivare fin lì?
Mi trascino piano sul ventre, molto piano, come se tutta la gloria della morte consistesse nel non svegliare nessuno, finalmente sono arrivato e bevo con ghiottoneria l'acqua che è in fondo ai gabinetti, non so quanto tempo ho durato, non so quanto tempo mi ci è voluto per tornare trascinandomi al mio posto. Ricomincio a perdere conoscenza, mi cerco il polso, non sento nulla, il cuore mi sale in gola e ricade giu. Cado con lui. Cado per un pezzo, e durante il tragitto odo ancora la voce di Carlo:
- Padre, senti, senti! Sta morendo, poveretto.

Il medico è venuto al mattino.
Ma tutto ciò l'ho saputo molto più tardi.
È arrivato, mi ha ascoltato ed ha scosso la testa. Poi è tornato all'infermeria, ha stracciato il foglio di morte che aveva riempito a mio nome il giorno prima, e ha detto con l'elogio dello specialista:
- Che costituzione da cavallo!