LA RIVOLUZIONE RUSSA

  

1917



In Russia stavano nuovamente per germogliare i semi lanciati nel 1905 nelle fabbriche, nelle campagne, fra i soldati: la terribile situazione di povertà e di fame, lo squilibrio sempre più accentuato sul piano sociale, il discredito dello zar negli ambienti della media e piccola borghesia, provocarono nel febbraio del '17 un'esplosione spontanea che travolse il regime.

I partiti rivoluzionari non ebbero alcuna parte in ciò: al momento, anzi, ne furono sorpresi. Lenin e altri dirigenti bolscevichi riuscirono finalmente a tornare in Russia solo quasi due mesi dopo lo scoppio della rivoluzione: arrivarono alla stazione di Pietrogrado il 3 aprile 1917.

Gli anni della reazione seguiti alla fallita rivoluzione del 1905 non risolsero i problemi strutturali della Russia, bensì dilazionarono semplicemente il riesplodere della crisi: il movimento operaio era decimato, (ma tra il 1910 e il 1911 vi era stata un'inversione di tendenza nei livelli di combattività, 1912: un milione di scioperanti; 1913: 1.500.000) e il rapido intensificarsi del processo di concentrazione industriale facilitò una ripresa dell'aggregazione operaia; le organizzazioni di fabbrica del partito bolscevico non erano molto consistenti (100 iscritti alle officine meccaniche Putilov, la più grande azienda di Pietrogrado, 50-60 in ciascuna delle altre grandi industrie), ma ben strutturate e dirette da quadri esperti, formatisi nelle lotte del 1905-1907.        


Il 1917 iniziò con un segnale importante: gli scioperi che dall'inizio della guerra erano ripresi a causa della diminuzione dei salari, dei licenziamenti e della mancanza di pane e carbone, vennero sempre di più ad assumere un significato direttamente politico, e il 9 gennaio 1917, anniversario della "domenica di sangue", a Pietrogrado gli scioperanti furono 150.000.
I menscevichi cercarono di indirizzare questo malcontento verso una protesta contro la decisione dello zar di rinviare l'apertura della Duma, ma prevalsero nettamente le parole d'ordine bolsceviche contro la guerra e contro l'autocrazia: la serrata delle officine Putilov e l'immediato sciopero generale, il 23 febbraio, fecero precipitare la situazione. Il tentativo del governo di risolvere la crisi con un colpo di forza analogo a quello del 1905, si rivelerà illusorio, non solo per la ben maggior politicizzazione del movimento rivoluzionario, ma per le nuove condizioni di fragilità del regime.
La guerra aveva inciso profondamente sulla fisionomia dell'imponente apparato bellico, e gli stati maggiori furono travolti da un'insubordinazione di massa da parte delle truppe che non ha uguali nella storia militare mondiale: dopo cinque giorni di scontri per le strade di Pietrogrado, con centinaia di morti, la notte fra il 26 e il 27 i primi battaglioni cominciarono a ribellarsi ai comandanti, e in pochi giorni l'intera guarnigione passò progressivamente dalla parte della rivoluzione.

Con l'arresto dei ministri zaristi il regime era virtualmente crollato.

I dirigenti bolscevichi commisero l'errore opposto a quello del 1905: sottovalutarono la tenuta e la radicalità del movimento, e, anche perché privi di centri legali di organizzazione, non furono in grado di assumerne la direzione. Furono invece i menscevichi e i socialisti rivoluzionari (tra cui Kerenskij) a cogliere molto efficacemente il delinearsi degli avvenimenti: capirono che i primi soviet in via di ricostituzione erano solo l'inizio di un fenomeno che si sarebbe allargato a macchia d'olio, e presero saldamente in mano la direzione di quello di Pietrogrado. La preoccupazione di evitare il caos interno e la disfatta militare, li indusse da una parte a frenare le spinte apertamente sovversive dei vari soviet e dall'altra a delegare alla borghesia il compito di assumere il potere, così i bolscevichi rimasero in assoluta minoranza nel rivendicare un governo provvisorio basato sui partiti rappresentati nei soviet.


Il nuovo governo insediatosi il 1° marzo, presieduto dal Principe Lvov e con Miljukov, capo dei cadetti, Ministro degli esteri, puntò apertamente a una soluzione istituzionale moderata, basata cioè sull'abdicazione di Nicola II e sulla salvaguardia dell'istituto monarchico, ma l'arresto dello zar operato al fronte da un reparto di soldati rivoluzionari bloccò l'ipotesi.
La proclamazione dell'amnistia e la concessione delle libertà politiche, se da un lato erano a quel punto inevitabili dall'altro contribuirono ad accelerare il processo di rivolgimento, perché i bolscevichi poterono ricostituire le proprie strutture attorno ai dirigenti tornati dalla deportazione: i primi fra questi furono Kamenev, Stalin e Muranov, i quali, tuttavia, pur criticando fortemente il governo provvisorio, non seppero esprimere con tempestività una proposta politica conseguente e rimasero sostanzialmente subalterni alle posizioni attendiste di menscevichi e socialisti rivoluzionari.
In realtà questa prudenza del gruppo dirigente bolscevico si collegava direttamente al fatto che esso, a causa del confino, era rimasto in buona misura tagliato fuori dai lenti ma radicali cambiamenti sociali: di qui la sottovalutazione della portata della crisi e la riproposizione schematica della vecchia parola d'ordine sul governo provvisorio democratico.

Il rientro di Lenin, dopo il famoso viaggio in vagone piombato attraverso la Germania, e le sue Tesi di aprile, diedero una svolta decisiva imponendo al centro del dibattito politico la proposta della "Repubblica dei soviet" e la cessazione della guerra. Le Tesi coglievano - con quella formidabile capacità di sintesi tipica di Lenin - i dati essenziali del momento, cioè l'egemonia moderata sui soviet, il carattere reazionario delle scelte governative e la natura imperialistica della guerra: un nuovo partito, il "partito comunista", doveva fare dei soviet la rappresentanza reale di un movimento rivoluzionario ormai diffuso ovunque, in grado di assumere "tutto il potere" e di garantire la pace.
Di fronte alla posizione del governo di continuare la guerra secondo gli accordi stabiliti con gli alleati, il reggimento di Finlandia circondò il ministero degli esteri chiedendo le dimissioni di Miljukov: questi venne estromesso e sostituito da Kerenskij, il quale assunse la carica di primo ministro. Menscevichi e socialisti rivoluzionari assumevano dunque direttamente responsabilità di governo, ma, paradossalmente, questo rimpasto spostava solo apparentemente a sinistra gli equilibri politici, perché di fronte all'aggravarsi della crisi (carovita, chiusura di fabbriche) il governo era sostanzialmente impotente. Ciò, malgrado il I Congresso dei Soviet (in cui i bolscevichi ebbero solo 195 delegati su 777) esprimesse un sostegno esplicito alla nuova compagine governativa.
Che la situazione fosse ormai arrivata a un punto di rottura e che i rapporti di forza del Congresso non corrispondessero alla realtà delle masse politicamente attive, fu chiaro alla metà di luglio: a Pietrogrado una manifestazione convocata ufficialmente in onore dei soviet e dei caduti della rivoluzione, si trasformò in un imponente atto di accusa nei confronti del governo e diede il via a una serie di dimostrazioni sempre più radicali. I bolscevichi, tuttavia, si resero conto che la forza dell'opposizione nella capitale non rifletteva un'analoga situazione nel resto del paese, e cercarono in qualche modo di tenere sotto controllo il movimento: questo però si radicalizzò e sfociò in gravi incidenti che fornirono al governo il pretesto per mettere praticamente fuori legge i bolscevichi e arrestarne i dirigenti.
Si trattò in realtà di una vittoria abbastanza fittizia, perché il consenso verso i bolscevichi invece di diminuire aumentò, e Kerenskij, che invece era sicuro di essere l'unico vincitore, si trovò a non avere né la forza politica né quella militare per schiacciare un'organizzazione bolscevica che si era notevolmente rafforzata, passando dagli 80.000 iscritti di aprile ai circa 200.000 di agosto, di cui solo 40.000 nella capitale, e che poteva contare sul sostegno dei reparti armati di operai, costituitisi in febbraio.

In agosto, in queste condizioni di semilegalità e con molti dirigenti forzatamente assenti, i bolscevichi tennero il loro VI Congresso. Essi erano comunque la forza politica rivoluzionaria maggiormente organizzata e diffusa.
Il tentato colpo stato del generale Kornilov, a settembre, e il ruolo che nella risposta popolare seppero giocare i bolscevichi, rimisero questi ultimi nelle condizioni di poter riprendere a pieno titolo la loro attività politica: essi riuscirono addirittura a conquistare la maggioranza nel soviet di Pietrogrado (di cui Trotsky fu eletto presidente), poi in quello di Mosca e infine nelle maggiori città.
Nel frattempo era stata proclamata la repubblica (il 1° settembre) e il governo, dopo aver nuovamente respinto la richiesta bolscevica di passare il potere ai soviet, aveva convocato per metà novembre le elezioni dell'Assemblea costituente.
La deportazione e l'esilio avevano notevolmente influito sulla capacità del gruppo dirigente bolscevico di avere una percezione diretta di ciò che realmente stava cambiando in Russia, e quindi nella valutazione sugli avvenimenti di febbraio e quelli immediatamente successivi prevalse la prudenza.

Intanto va detto che lo scenario delle forze politiche (v. il quadro che ne fa J. Reed nella prefazione al suo libro) presenti nel 1917 era in buona misura diverso da quello del 1905, e comunque la posizione verso la guerra provocò ulteriori differenziazioni e ricomposizioni, malgrado tutti i parlamentari socialdemocratici russi, caso unico nel panorama europeo, avessero votato contro i crediti di guerra.
Alla sostanziale compattezza dei bolscevichi sulla parola d'ordine della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, si opponevano i difensisti, cioè la destra menscevica, che sostenevano la necessità di proseguire la guerra contro la Germania al fine di arginare la minaccia imperialistica, e quindi direttamente controrivoluzionaria, della reazione tedesca; in una posizione centrista si collocava la maggioranza dei capi menscevichi, formando la cosiddetta corrente zimmerwaldiana, contraria sia alla guerra sia alla sua trasformazione in guerra civile.
Ma il dibattito politico si centrò sui temi legati alla dinamica sociale della rivoluzione, ovvero alla complessità di fenomeni che sottendono il passaggio dalla ribellione, dall'illegalità, al movimento rivoluzionario di massa: in esso confluiscono spinte sociali, valori ideologici, forme organizzative, comportamenti individuali, che possono esprimersi, e pesare politicamente, in modi assai diversi a seconda che si sia nell'una o nell'altra fase dello scontro.

Fra i bolscevichi l'analisi della rivoluzione di febbraio si basava su due punti, entrambi espressione di una forte sottovalutazione del significato dei soviet: giudizio del suo carattere democratico-borghese e necessità di un governo rivoluzionario provvisorio; non era una linea omogenea, perché se esprimeva l'opinione del bureau del C.C., cioè del massimo organismo dirigente, trovava poi nella più forte organizzazione di partito, quella di Pietrogrado, un'applicazione più cauta, più sensibile cioè al fatto di essere, come bolscevichi, una netta minoranza nei soviet.
Entrambe le accentuazioni coglievano un aspetto reale, cioè da una parte il carattere conservatore, se non reazionario, del governo provvisorio e la necessità di sostituirlo con un governo rivoluzionario, e dall'altra l'esigenza di muoversi realisticamente, tenendo conto degli effettivi rapporti di forza.

Scrive Lenin nelle Tesi:

"L'originalità dell'attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell'insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato, alla sua seconda fase, che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini (...) I Soviet dei deputati operai sono l'unica forma possibile di governo rivoluzionario (...) Il nostro compito immediato non è l''instaurazione' del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei deputati operai (...)

Compiti del partito:
a) convocare immediatamente il congresso del partito;
b) modificare il programma del partito, principalmente:
     1) sull'imperialismo e sulla guerra imperialistica;
     2) sull'atteggiamento verso lo Stato e sulla nostra rivendicazione dello 'Stato - Comune';
     3) emendare il programma minimo, ormai invecchiato;
c) cambiare il nome del partito
."

L'accoglienza riservata alle Tesi di aprile dal plenum socialdemocratico si può sintetizzare in questo caustico commento dell'ex-bolscevico Goldenberg:
"Per molti anni il posto di Bakunin nella rivoluzione russa è rimasto vuoto: adesso l'ha occupato Lenin."
Lo sconcerto, in tutta la sinistra, per questa brusca svolta di Lenin, e la violentissima campagna che la borghesia orchestrò contro di lui, accusandolo, per via del viaggio attraverso la Germania, di essere al soldo dello spionaggio tedesco, sembrarono far prevalere le impostazioni di Kamenev; ma quando fu chiaro che le Tesi indicavano l'unica strada possibile per sbloccare una situazione altrimenti controllata dalla borghesia, e che, soprattutto, coglievano lo stato d'animo delle masse più politicizzate, la resistenza ad accogliere la svolta si fece assai ridotta: prima la Conferenza di partito di Pietrogrado e poi la VII Conferenza panrussa, la cosiddetta Conferenza di aprile, accolsero a grande maggioranza le Tesi di aprile.
L'insurrezione di luglio e i fatti che ne seguirono diedero, paradossalmente, ragione a Lenin: i soviet, che avevano affidato de facto a Kerenskij i pieni poteri, si erano certamente allontanati come punto di riferimento del nuovo potere da instaurare, ma il modo come era stato sconfitto il putsch di Kornilov e la nuova influenza che i bolscevichi avevano saputo esercitare fra le masse e negli stessi soviet, riproponevano la validità delle Tesi di aprile nella loro interezza: e infatti la vittoria delle risoluzioni bolsceviche nei soviet di Pietrogrado e di Mosca stava a indicare come fosse ormai possibile ciò che fino a poche settimane prima sembrava irrealizzabile, cioè stabilire una solida maggioranza comunista nei soviet.

"Il problema del potere non può né essere eluso né rinviato perché è proprio questo il problema fondamentale, quello che determina tutto lo sviluppo della rivoluzione." (...) I bolscevichi, avendo ottenuto la maggioranza nei Soviet dei deputati degli operai e dei soldati delle due capitali, possono e devono prendere il potere statale nelle proprie mani (...) La maggioranza dei Soviet nelle capitali è il frutto dell'evoluzione del popolo verso di noi (...) Se non prendiamo il potere adesso, la storia non ci perdonerà. Non vi è apparato? L'apparato c'è: i Soviet e le organizzazioni democratiche."
Lenin aprì dunque una campagna martellante per conquistare il partito a quella che egli riteneva essere l'idea-forza di quel momento: la presa del potere. Che tuttavia nell'ultima frase citata vi fosse un eccesso di ottimismo, o, più probabilmente, una forzatura propagandistica, è dato dal fatto che la maggioranza bolscevica nei soviet era ancora piuttosto risicata: il successo ottenuto nel soviet di Pietrogrado fu reso possibile anche dalla circostanza, non secondaria, che alla votazione sul programma proposto dai bolscevichi aveva partecipato meno della metà degli aventi diritto.
E quando il 9 settembre si arrivò a dover eleggere il nuovo presidium del soviet di Pietrogrado, se i bolscevichi si confermarono maggioritari e uno di essi, Trotsky, poté diventare presidente, fu probabilmente merito di Kamenev, che con notevole abilità non fece porre in votazione i nuovi membri del presidium sulla base di programmi contrapposti (cosa che avrebbe probabilmente visto i bolscevichi sconfitti), ma secondo una proposta fondata su criteri proporzionali di composizione dell'organismo.
In realtà gli appelli di Lenin conseguirono un risultato molto più simile a quello ottenuto dalle Lettere da lontano che dalle Tesi di aprile: vennero in buona sostanza ignorati da un partito tutto impegnato a prepararsi per la partecipazione alla Conferenza democratica di Stato indetta da Kerenskij per metà settembre. Si trattava di quel preparlamento, cui abbiamo già accennato, che avrebbe dovuto impostare le elezioni per l'Assemblea costituente e che per i bolscevichi poteva rappresentare l'occasione per far passare una politica di compromesso con le altre forze di sinistra, cioè di rottura con la borghesia e di passaggio a un governo socialista: una linea, del resto, in sintonia con quella proposta da Lenin nei primi giorni di settembre.

Ma la dinamica dei fatti si evolveva ormai secondo ritmi frenetici, e nell'arco di giorni, appunto, richiedeva aggiornamenti anche drastici. E Lenin, sorprendendo tutti ancora una volta, prima di ogni altro seppe anticipare i tempi e imprimere l'ennesima sterzata, con quella "straordinaria fusione di duttilità e intransigenza" (Carr) che gli fu propria.
"Sarebbe il più grave degli errori credere che la nostra proposta di compromesso non sia stata ancora respinta, che la 'Conferenza democratica' possa ancora accettarla. Il compromesso è stato proposto da partito a partiti; non poteva essere altrimenti. Questi partiti l'hanno respinto. La Conferenza è solo una conferenza e nulla più. Non bisogna dimenticare che la maggioranza del popolo rivoluzionario, i contadini poveri ed esasperati, non vi sono rappresentati (...) Dalla nostra parte è la maggioranza della classe, che è l'avanguardia della rivoluzione, l'avanguardia del popolo capace di trascinare le masse."
Malgrado lo sforzo di tutto il partito, diversamente da quanto aveva richiesto con forza Lenin, si fosse concentrato su una scadenza istituzionale che non aveva dato alcun frutto, il C.C. bolscevico fece un'ulteriore sterzata a destra, affidando di fatto all'imminente Congresso dei Soviet e alla futura Assemblea costituente il compito di risolvere il problema del potere; il C.C. continuò dunque a ignorare e a censurare gli appelli di Lenin, che non solo si fecero più pressanti, ma posero come ineludibile e prioritaria la questione dell'insurrezione:

"Per riuscire l'insurrezione deve fondarsi non su di un complotto, non su di un partito, ma sulla classe d'avanguardia. Questo in primo luogo. L'insurrezione deve fondarsi sullo slancio rivoluzionario del popolo. Questo in secondo luogo. L'insurrezione deve saper cogliere quel punto critico nella storia della rivoluzione in ascesa che è il momento in cui l'attività delle schiere più avanzate del popolo è massima e più forti sono le esitazioni nelle file dei nemici e nelle file degli amici deboli, equivoci e indecisi della rivoluzione. Questo in terzo luogo."
Il braccio di ferro tra Lenin e il partito era arrivato a un punto decisivo, tanto che Lenin, nello scritto La crisi è matura decise di "aussprechen was ist" di dire come stanno le cose, e che cioè il C.C. aveva scelto di lasciarsi sfuggire l'occasione storica del compimento della rivoluzione, commettendo "un'idiozia completa o un vero e proprio tradimento"; Lenin quindi dichiarò di dimettersi dal C.C. e di riservarsi la più ampia libertà d'azione al fine di rivolgersi direttamente alla base del partito.
Questo epilogo clamoroso non rovesciò immediatamente le posizioni all'interno di un C.C. governato dalla destra di Kamenev e Zinovev, tuttavia innescò un processo politico di revisione nelle principali strutture di partito: quando il Comitato di Pietrogrado accolse a maggioranza la linea di Lenin e approvò all'unanimità un o.d.g. fortemente critico rispetto all'indebita censura attuata dal C.C. nei confronti di Lenin, fu il segnale che la battaglia di Lenin era probabilmente vinta.

E fu un autentico coup de théâtre quando il 10 ottobre egli si presentò alla riunione segreta del C.C. e "senza la solita barbetta e con una parrucca in testa guardò tutti con occhio severo come un pastore luterano."
Il fronte romeno, i lituani, il fronte settentrionale e il fronte di Minsk, erano i primi punti all'ordine del giorno, e solo al quarto vi era il momento presente, su cui Lenin prese la parola.
"Egli riscontra che dall'inizio di settembre si nota una certa indifferenza verso il problema dell'insurrezione."
Così, con questo umorismo sicuramente involontario, recita il verbale della seduta, che peraltro si concluse con l'approvazione a maggioranza (10 contro 2) di una risoluzione in cui si riconosceva come l'insurrezione fosse "inevitabile e completamente matura" e si invitava tutte le organizzazioni di partito a orientare la propria attività in questa direzione.
Da questa storica riunione uscì dunque vincente la linea insurrezionale, ma probabilmente non in quel modo assoluto che sovente si è portati a credere, dato che comunque si delegava alle istanze periferiche di partito il compito di scegliere le modalità dell'insurrezione. E infatti su come essa dovesse concretamente attuarsi si riaprì lo scontro, e più in generale un dibattito assai intenso che coinvolse, in un drammatico susseguirsi di riunioni, tutte le strutture del partito e dei soviet.

La posizione di Lenin è assolutamente intransigente:

"Non possiamo prendere a guida del nostro comportamento le considerazioni sulle condizioni di spirito delle masse, dal momento che si tratta di un fattore fluttuante e difficile da valutare (...) Le masse hanno dato la loro fiducia ai bolscevichi e chiedono ad essi, non parole, ma fatti, ossia una decisa politica tanto nella lotta contro la guerra, quanto per arrestare il dissesto economico."
Ci pare che qui si possa cogliere un aspetto essenziale della politica di Lenin. Di fronte alle obiezioni che molti - a partire dal quel Comitato di Pietrogrado che pure era stato determinante nel far prevalere la svolta insurrezionale - sollevavano sui tempi dell'insurrezione, rilevando la scarsa preparazione tecnica del partito e una certa passività fra le masse, Lenin rispondeva mettendo al centro del discorso la questione del partito: avanguardia politica delle masse che non si può limitare a prendere atto organizzativamente dello stato delle cose, ma agisce sul "punto critico" del processo rivoluzionario e dirige il cambiamento degli uomini e delle cose. Lenin vuole trasmettere al partito il senso dell'occasione rivoluzionaria, forse unica e irripetibile, come riprendendo "la tkacëviana formula 'adesso, o molto, molto tardi' [...] che nella rivoluzione vedeva il frutto di una concorrenza propizia di circostanze all'interno di una situazione oggettiva nazionale e internazionale, lo spazio d'incontro dialettico tra necessità e possibilità, con tutti gli elementi di casualità di cui questo spazio è costellato, e non il portato di un fatalistico corso delle cose o l'arbitrio di una volontà soggettiva."

Non a caso lo storico Rabinowitch, nell'esaminare minuziosamente quelli che egli chiama gli "ostacoli alla rivolta", pur non sottovalutando il peso consistente che ebbe la massiccia opposizione di Kamenev e di Zinovev alla proposta di Lenin, più che alle divergenze di questo tipo (e pure abbiamo appena visto quanto Lenin abbia faticato a ribaltare la posizione del C.C.), dedica la maggiore attenzione ai problemi per così dire strutturali di rapporto fra partito e masse; ci riferiamo in particolare alla prudenza di molti dirigenti bolscevichi sicuramente sulle posizioni di Lenin ma che, per la loro diretta partecipazione al lavoro dei soviet e degli altri organismi di massa, premevano sulla ricerca di una via pacifica al potere e comunque insistevano su alcune condizioni indispensabili per la riuscita dell'azione armata: che questa fosse promossa dai soviet e non dal partito, e che comunque dovesse presentarsi più come azione difensiva, contro la reazione, che come semplice liquidazione del governo provvisorio.


Queste considerazioni ebbero due importanti risultati: l'insurrezione doveva avvenire nei giorni di convocazione del II Congresso panrusso dei soviet, convocato per gli ultimi giorni di ottobre, e sarebbe stata guidata non dall'organizzazione militare bolscevica, ma, su proposta di Trotsky, da un Comitato Militare Rivoluzionario interpartitico e unitario: ne era presidente un SR, ma la direzione effettiva fu esercitata dai bolscevichi, in particolare Trotsky e Antonov-Ovseenko.

Questo organismo in effetti concentrò la propria attività sui problemi legati alla difesa della capitale, in particolare quello del controllo della guarnigione, ma questo lavoro era di fatto direttamente funzionale al piano di rovesciamento del governo provvisorio: quando infatti i rappresentanti delle unità militari di Pietrogrado, la sera del 21 ottobre, dichiararono di riconoscere il CMR e di schierarsi con esso, di fatto delegittimando l'autorità dello stato maggiore, si veniva a compiere, sotto il profilo pratico e giuridico, un aperto atto di sovversione.
La rivoluzione era virtualmente iniziata.

I complessi preparativi, coordinati dal CMR insediatosi all'Istituto Smolny, furono freneticamente portati avanti nei tempi stabiliti:
"Il 6 novembre sarebbe troppo presto. Bisogna che l'insurrezione si appoggi sulla Russia intera. Ora il 6 (24 ottobre) non saranno ancora arrivati tutti i delegati. Dall'altra parte l'8 novembre (26 ottobre) sarà troppo tardi. Allora infatti il congresso sarà già organizzato ed è difficile a una grande assemblea costituita prendere provvedimenti pronti e decisivi. Noi dobbiamo dunque agire il 7 (25 ottobre), il giorno dell'apertura del congresso, per poter dire: 'Ecco il potere. Che ne fate voi?"
Così, in quello che è il più bel libro sull'Ottobre (Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Einaudi, 1946, p. 69) John Reed descrisse l'intervento di Lenin al C.C. del 21 ottobre.

Il disperato tentativo di Kerenskij - che nel frattempo era andato al fronte per cercare rinforzi - di anticipare la rivoluzione e soffocarla sul nascere con un colpo militare, durò poche ore: gli operai armati liquidarono i presidi governativi senza quasi trovare resistenza, occuparono i punti strategici di Pietrogrado e infine arrestarono i membri del governo asserragliati nel Palazzo d'Inverno.


Il 25 ottobre 1917 "il II Congresso Panrusso dei Soviet proclamò che in Russia il potere era passato nelle mani dei Soviet degli Operai, dei Soldati e dei Contadini. La sera del 26 ottobre 1917 nella seconda e ultima riunione del Congresso furono adottati i decreti sulla pace e sulla terra, e fu approvata la composizione del Consiglio dei Commissari del Popolo, comunemente noto come Sovnarkom - il primo governo degli operai e dei contadini."


"La legge dello sviluppo combinato dei paesi arretrati - nel senso di una combinazione originale degli elementi di arretratezza con i fattori più moderni - si manifesta qui nella sua forma più compiuta e al tempo stesso fornisce la chiave dell'enigma della rivoluzione russa. Se la questione agraria, eredità della barbarie dell'antica storia russa, fosse stata risolta dalla borghesia, se avesse potuto essere risolta, il proletariato russo non sarebbe mai riuscito a prendere il potere nel 1917. Perché si costituisse lo Stato sovietico erano necessari il combinarsi e il compenetrarsi di due fattori di natura storica del tutto diversa: una guerra contadina, cioè un movimento caratteristico degli albori dello sviluppo borghese, e un'insurrezione proletaria, cioè un movimento che annuncia il declino della società borghese. Questa è la sostanza del 1917." (L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Mondadori, 1969, v. 1, p. 69)


v. anche Leon Trotsky, The history of the Russian Revolution