Rossana Rossanda

Quel ’36 che impose scelte di vita

C’è un momento sconcertante nell’esistenza in cui ci accorgiamo che d’ora in poi potremo raccontare i fatti che da ragazzi abbiamo vissuto, ma non più darne vera testimonianza, perché quel senso e colore che si davano reciprocamente idee ed eventi è tanto sbiadito che chi ascolta non lo coglie. Il vissuto è diventato davvero “passato”. E dice Borges, con qualche crudeltà verso gli storici, per questo esso è perduto per sempre; può farlo rivivere soltanto lo scrittore quando reinventa quel tono che era stato la sua verità. Il resto è materiale d’archivio.
A noi politici, a dire il vero, a volte accadono delle sopravvivenze: quando una vicenda, insabbiata come tutte nel volgere degli uomini e delle cose - ma le cose mutano meno degli uomini - mantiene tuttavia un significato, magari diverso da quello suo d’origine, ma che ancora funge da riferimento. Così fu per me la Rivoluzione d’Ottobre, avvenuta naturalmente molto prima che nascessi e che avrei incontrato soltanto a diciotto anni. E così è stato della guerra civile spagnola - la guerra di Spagna, come la chiamammo - della quale invece ho una memoria di ragazza che restò intatta fino a quando, nel 1962, andai mezzo clandestinamente a Barcellona e a Madrid, a Siviglia e nel Paese basco. E di quell’immaginato che avevo custodito dentro di me non trovai più nulla, se non uno spettro che un paese sonnacchioso preferiva tenere lontano perfino dal ricordo. Quando di quella inattesa Spagna e di quel che pareva il suo futuro parlai ai miei compagni - ero allora nel PCI - poco mi credettero; per la mia generazione e quelle che mi avevano preceduto essa era rimasta come in Morire a Madrid, il geroglifico di tutto quel che poi sarebbe accaduto.

Negli stessi anni sessanta la Spagna cessò di essere, come era stata per la leva antifascista più giovane, l’apprendistato della politica; quel decennio cominciava a dimenticare, ma vitalmente, perché preso da quel che ci cambiava intorno e chiedeva di essere ripensato - il passato si ricollocava quietamente al suo posto, e potevamo quietamente rivisitarlo. Adesso non è più così; quella degli anni ottanta è una smemoratezza aggressiva, che non vuole ricordare perché cancella con un segno di riprovazione ogni tentativo di rivoluzionamento, e per far questo risale sempre più su nel tempo, fino alla Rivoluzione francese, colpevole del primo “pouvoir à la rue”. Figuriamoci chi ricorda una guerra civile, finita nella vittoria della restaurazione, e quindi in tutti i sensi parentetica. Quando alcuni mesi fa mi avvenne di dire ai miei giovani collaboratori: “E quest’anno sarà il cinquantesimo anniversario della guerra di Spagna”, mi guardarono con lo stupore delle persone colte cui manca un libro in biblioteca.
Mi proverò lo stesso a raccontare perché la Spagna dal 1936 al 1939 determinò quasi tutto quel che la mia generazione sarebbe diventata.
Avevo quasi dodici anni quando Franco si levò contro la Repubblica e la Spagna si spaccò in due in ogni sua città e villaggio e, spesso, famiglia. In Italia il fascismo celebrava gli ultimi processi (quelli in cui furono imputati anche Moranti e Natoli), forse perché si sentiva meno sicuro.
Nel 1934 in Francia avevano tentato di passare le Croix de fer, ma era finita con la ricongiunzione delle sinistre e la vittoria del Fronte Popolare nel giugno del 1936. Poco prima l’Internazionale aveva cambiato rotta, passando dalla “classe contro classe” alle alleanze antifasciste: la Germania faceva paura. Noi, salvo a chi accedeva ai circuiti clandestini, ne sapevamo ben poco.
L’informazione inneggiava all’Impero e alla sparuta legione che avevamo spedito in aiuto di Francisco Franco. L’informazione era l’Eiar, perché i giornali si leggevano poco e con diffidenza; per cui nella mia memoria c’è una Phonola di legno lucido e stoffa marroncina che ci catturava a pranzo e a cena, dove noi bambini eravamo tenuti a star composti e zitti, riversando descrizioni spaventose di massacri di monache, vecchi e bambini per mano dei “rossi”. E c’era uno zio che teneva per la Repubblica, e quindi ascoltava digrignando letteralmente i denti; ma essendo nel privato quel che oggi diremmo “un fascista” - arrogante, moralista, insopportabile - io inclinavo a credere all’Eiar e la Spagna mi si delineò nella mente come tutto un grondare di martiri.
A scuola ci dicevano lo stesso; ma questo sarebbe stato un punto a favore dello zio, perché di quel che ci dicevano a scuola non credevamo nulla. Un paio d’anni dopo, adolescente che frugava in ogni biblioteca, la Spagna cambiò volto dentro di me e, mentre già la sua sorte volgeva al disastro, divenne tutto ciò che il fascismo ci negava: la libertà, il diritto, la speranza d’un’altra vita. E soprattutto la cultura.
Non si coagulavano sul suo fronte gli anni venti d’Europa, le incandescenti avanguardie che avevano portato oltre la prima guerra mondiale il grande pensato eversivo dell’inizio del secolo, la rivoluzione di tutte le forme? La repubblica erano Picasso, Machado, Garcia Lorca, le fotografie di Robert Capa, i reportages di Hemingway - e quindi le Brigate Internazionali, e dunque le prime vere domande sui “rossi” e le prime inquiete risposte da cui alcuni di noi imparavano che nessuna scelta, per essere giusta, è anche innocente.



In Spagna si addensava il secolo, insomma; era l’anticamera della guerra, era la guerra. Non so quando questa equazione si fece nella testa di tutti, e del resto nel 1939 Franco vinceva nel frastuono dominante della conflagrazione mondiale. La Spagna finiva in sordina. Finiva? Si mutava da linea del fronte in un muro di fucilazioni; durarono per molti anni. Penso che quella guerra civile fu l’ultimo atto della dimensione personale, diretta, dell’orrore; dell’uno che ammazza l’altro non perché non lo conosce, ma perché sa chi è, l’avversario ex amico, forse cugino, cognato, fratello.
Poi la guerra mondiale avrebbe fatto compiere un salto di qualità allo sterminio, massificando e spersonalizzando le esecuzioni nelle camere a gas o a Hiroshima: la potenza dei mezzi di morte parve renderli più astratti, meno diretto e colpevole il gesto di distruzione. In Spagna si erano cercati casa per casa, nome per nome; e a lungo continuò, la polizia, a cercare, schedare, arrestare dopo il 1939. Gli sterminati archivi di chi era stato repubblicano o parente o amico di repubblicano esistono ancora; ne avrei avuto conoscenza dopo il 1960, come dei rapporti di polizia che ancora minuziosamente seguivano i comunisti in ogni quotidiano spostamento - vent’anni e più dopo che ogni fuoco era spento e il paese messo a terra, e anche i vincitori, diversamente dagli altri vociferanti fascismi, governano molto e parlavano pochissimo.
Questa interminabile resa dei conti avrebbe portato, nella stupefazione del mondo, all’esecuzione in pieni anni ’60 di Julian Grimau. Garrottato. Si disse che la guerra civile era stata la prova generale della guerra mondiale. Non so se fu così, ma certo questo fu il valore di rappresentazione o prefigurazione che ebbe per noi.

Fu una guerra civile fra classi sociali e ideologie, come tutte, ma in maniera esemplare, paradigmatica. Da una parte una conservazione senile, più la rendita che il capitale, più la finanza che la fabbrica, garantite da una monarchia divisa da questioni dinastiche ma mummificata da un’eternità. (“Nessun nostro re è stato mai giustiziato” mi dissero molto dopo, aggiungendo: “Questo spiega molte cose”). E accanto a quel sentore fra sacristia e cimitero che è l’Escurial, un esercito che non fece mai una guerra, puro strumento di repressione interna, e una polizia che vive come un ordine monastico, senza neppure il sospetto che possa darsi un rapporto di diritto fra cittadino e stato, la Guardia Civil. Dall’altra parte stava tutto ciò per cui vale la pena essere al mondo - la libertà, l’idea di uguaglianza e di riscatto degli offesi, il sapere, il fascino del pensiero critico e i territori dell’immaginario europeo. La trincea durò finchè, dopo l’Ebro, quel che restava della repubblica sarebbe ripiegato a piedi - residui di truppe, villaggi, famiglie che non sarebbero state perdonate - verso i Pirenei e li traversò per riparare in Francia. La quale non aveva aiutato la Repubblica nel periodo del Fronte popolare e, caduto questo, ne avrebbe cacciato i superstiti nei campi di concentramento, dove pochi anni dopo sarebbe finito per mano dei tedeschi Léon Blum.

Davvero quella guerra civile aveva disegnato i termini dello scontro che sarebbe stato quello della seconda guerra mondiale; la quale non fu soltanto né specificamente “interimperialistica”: avvenne per grandi scelte di campo, nazismo e fascismo da un lato, con la loro minaccia di un ordine razzista e totalitario, democrazia e socialismo (che non si chiamava ancora “reale”) dall’altro. In Spagna era stata prefigurata anche la natura ultima della lotta, il mare di sangue, la fine dei conflitti che restavano al fronte: da allora la guerra sarebbe entrata dappertutto. Prefigurò anche la fragilità dell’alleanza delle forze repubblicane, la diffidenza per i comunisti, che - secondo lo schema classico - fucilarono anarchici e trotzkisti in nome di un’idea “allargata” e moderata di fronte, quando tutto era già perduto, scavando un solco che non è ancora cancellato dalla memoria. Il più bel libro di Orwell resta quello sulla Catalogna.
E infine la guerra di Spagna sperimentò fino in fondo quel che già l’Italia e Germania avevano, in misura appena meno drammatica, provato: quanto rapidamente precipiti quello che i potenti non hanno costruito. La confederazione anarchica, la CNT, aveva nel 1936 quattro milioni e mezzo di aderenti, era forse la formazione politica più intrinseca al paese dall’inizio di secolo, e ne aveva a lungo dominata la scena, ma nulla di essa rimase, né sarebbe risorto dopo la morte di Franco. Vivono di ricordi i pochi seguaci di Federica Montsény.

La guerra di Spagna avrebbe rotto le ossa agli spagnoli e poi li avrebbe murati fuori dalla storia che trascorreva il mondo. Franco ebbe l’intelligenza di non entrare nel conflitto accanto ai suoi amici Mussolini e Hitler, e fece in modo da essere dimenticato da un’Europa diventata teatro di scontri e poi di rovine; a guerra finita offrì solide basi agli americani, e il suo fascismo fu dimenticato da tutti coloro che fecero il processo all’altro. Quel che restava delle organizzazioni clandestine attese che la vittoria antifascista giovasse anche a loro, che erano state letteralmente sgozzate eppure ancora tenevano (una guerriglia durò fino al 1949, ma nessuno se ne accorse).
L’ex repubblica mandò i sopravvissuti in un’emigrazione, specie in Francia, nel Messico e nell’URSS, dove avrebbero perduto di vista il paese che, tramortito, continuò a vivere una sua torpida vicenda, inerte e scettico ai proclami dell’estero. Quando negli anni sessanta anche la Spagna cominciò a muoversi, premuta dall’ondata internazionale e dagli imperativi dello sviluppo, fu Franco a stabilire la successione, furono l’esercito e il re a gestirla con un gioco su molti tavoli: il delfino più pericoloso fatto saltare dall’Eta, che all’epoca della guerra civile non esisteva, quello più meschino, Arias Navarro, dal segretario della Falange, Adolfo Suarez. Il quale ristabilì la democrazia. I partiti si riformarono, ma non furono né quelli di prima, né con gli uomini di prima, né con i rapporti di forze di prima.
Ma se i tempi della Spagna si snodarono su un ritmo diverso dal nostro, quella cesura che era stata la guerra civile ci aveva marcato per sempre. Là si trasformò la presa di coscienza politica e anche quella che sarebbe stata la gran parte della leva dirigente della resistenza, per primi i cosiddetti giovani comunisti; ma, eccezion fatta per la Democrazia cristiana, gli altri nelle Brigate Internazionali, e i fascisti con Franco, ci furono in qualche misura tutti. E tutti segnati. La sola volta che sentii un’emozione in Luigi Longo fu quando brevemente parlammo della Spagna: come se gli evocasse qualche orrore che neppure la guerra mondiale, con i suoi genocidi, aveva sminuito.

Ma le generazioni immediatamente seguenti alla mia si formarono sulla guerra mondiale, e poco dopo sul dopoguerra, e dopo ancora in quello scenario di pace e di espansione nel quale i nuovi bisogni non riconobbero più il suono di quelli vecchi. Guerra e dopoguerra spostarono guerre e rivoluzioni definitivamente fuori dall’Europa: fino a ieri non erano passati cinquant’anni ed è come se un secolo fosse trascorso da quel passaggio della Spagna dentro di noi. Perché la prima metà del novecento è stata una continuità, uno sbocciare velenoso o liberatorio di semenze piantate in tempi lontani - per questo chi oggi vuole cancellare la memoria risale e risale nel passato, fino alle prime radici di quel che ci portò fino al 1945 o al 1950. La seconda metà del secolo è una cessazione, un precipitare di chiusure di fase, una radicale rimessa in causa, prima da sinistra poi da destra, dei termini di quello scontro fra reazione e progressismo che ci aveva alimentati.
E per questo ci accompagna con un oblio. Così per chi non abbia sentito passarsi accanto negli anni trenta, da uomo o da ragazzo, gli scenari tremendi ma aperti che ci avrebbero imposto scelte di vita e di morte, quell’estate del 1936 e l’emozione delle notizie che venivano da Madrid non si possono, credo, capire.


Illustrazione Italiana, ottobre 1986