PCI

Maria Luisa Righi

Giorgio Amendola

Giorgio Amendola nacque a Roma il 21 novembre 1907, figlio primogenito di Giovanni e della intellettuale lituana Eva Kuhn.

 

Non aveva neppure vent’anni quando il padre - dal 1919 deputato di Salerno vicino alle posizioni di Francesco Saverio Nitti - morì il 7 aprile 1926 in una clinica di Cannes per le conseguenze di un’aggressione fascista di cui era stato oggetto nel luglio del ’25.

Dopo la morte del padre, terminati gli studi liceali a Roma, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Napoli, dove iniziò - come ebbe a scrivere nel suo Una scelta di vita (p. 171) - «un periodo di grande raccoglimento, di lavoro fecondo, che concorse a dissipare quella confusione, non solo culturale ma anche morale che mi aveva dominato negli anni inquieti e torbidi dell’adolescenza».

Sollecitato da Nitti, iniziò a preparare una tesi di laurea sul credito al consumo. La crisi del ’29 venne ad infrangere l’ipotesi che un allargamento crescente del consumo potesse sostenere un incremento ininterrotto della produzione, ché anzi la vendita rateale, negli Stati Uniti, si dimostrava un elemento di aggravamento della crisi.

«Anche questo ha contribuito a farmi comprendere la fragilità della scienza economica capitalistica e a farmi avviare verso gli studi marxisti: per cui terminai nel 1930 la mia tesi di laurea da comunista, in un mondo in cui la crisi dominava l’economia di tutti i paesi capitalisti» [1].

Nel 1929, infatti, nell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, aveva preso la tessera del Partito Comunista.

 

Per il giovane Giorgio era stato un percorso lungo e travagliato. Il militante dell’Unione giovanile, come è stato messo in rilievo, partiva da posizioni convintamente «amendoliane», cioè «rifiutava con cognizione di causa politica non solo le proposte dei comunisti, ma anche le posizioni di Gobetti, critiche verso la politica “centrista” dell’Aventino» [2]. Decisivo era stato l’incontro con Emilio Sereni, allora giovane ricercatore dell’Osservatorio di economia agraria di Portici. Nel «durissimo braccio di ferro» con Mimmo, nel confronto con le sue serrate argomentazioni, Amendola lascerà infine cadere, come dirà, «il tentativo di arroccarmi su posizioni socialdemocratiche avanzate, come quelle dell’austro-marxismo» [3]. Insieme a Sereni e Manlio Rossi-Doria, costituì una cellula clandestina del partito a Napoli.

La domanda chiave della sua ricerca esistenziale - come mai uno Stato democratico aveva capitolato di fronte a un gruppo di avventurieri - trova in quelle discussioni una risposta che determinò la sua scelta di vita:

    «Bisognava andare più a fondo per comprendere il fenomeno, per comprendere che cosa era avvenuto; bisognava ricercare nella società italiana, nelle sue forze sociali, nei suoi contrasti di classe, nelle sue contraddizioni, nell’insufficienza della democrazia prefascista; bisognava ricercare nel modo stesso che, nel secolo scorso, si era formata l’unità italiana, i motivi della crisi politica che nel dopoguerra aveva permesso l’apparizione e la vittoria del fascismo. Io sono diventato comunista, da liberale che ero, perché il comunismo mi diede questa risposta: Gramsci mi diede questa indicazione e ci dimostrò quali erano le cause, i motivi di questa tragedia, che cos’era il fascismo, e come esso non fosse caduto dal cielo». [4]

Da allora, Amendola rimarrà fedele ad una lettura del proletariato come soggetto di una democrazia radicalmente antifascista.

Nel marzo del 1931 compì il suo primo espatrio clandestino, unico delegato napoletano al IV Congresso del Pcd’I di Colonia. Entrò quindi nell’apparato illegale del partito a Parigi, rendendo pubblica la sua adesione al partito comunista, con un articolo su «Stato operaio», del giugno 1931, che suscitò grande eco [5].

Amendola, consapevole del clamore che avrebbe suscitato nell’antifascismo liberaldemocratico la sua adesione al comunismo tratteggia, insieme alla «triste storia dell’“antifascismo democratico”», una vera e propria autobiografia politica.

Ancora nel 1952, nell’intervenire nella discussione sulla cosiddetta “legge truffa”, che tanto gli ricordava la legge Acerbo del 1923 - alla cui discussione il giovane Giorgio assistette «da spettatore confinato nella tribuna delle famiglie, giovane, ma attento spettatore» - proporrà la genealogia politica della sua famiglia come percorso progressivo dell’intero paese:

    «Il mio nonno materno era un mazziniano romano, combattente della Repubblica romana del 1848 [...]; mio nonno Pietro fu garibaldino [...]. Mio padre fu democratico antifascista. Io sono comunista. Mazziniani, garibaldini, antifascisti, comunisti: questa è la storia d’Italia, questa la via del progresso del nostro paese!» [6]

In Una scelta di vita citando a memoria questo passaggio, spiegherà:

«Sentivo in quel momento di dire qualcosa di vero, che corrispondeva alla linea di ascesa di avanguardie coscienti, emergenti a fatica dal mondo subalterno della vecchia Italia oppressa e divisa, per acquistare, attraverso una serie di lacerazioni familiari, una funzione consapevole nella vita del paese. Continuai per un pezzo a ripetere questa frase, in ogni occasione, finché Giancarlo Pajetta mi consigliò di cambiare disco. Il fatto è che io ci tenevo a questi titoli di nobiltà antifascista» [7].

Molti interpreti hanno teso a sottolineare gli elementi di continuità se non biografici, di stile e di cultura con la tradizione liberale. Ma Amendola evidenziò, sì, una “provenienza” ma soprattutto, e con insistenza, gli elementi di discontinuità che produsse nella sua generazione la riflessione sul fenomeno fascista e la pochezza dell’antifascismo democratico [8]. Il 12 luglio dello stesso anno, durante una festa di piazza per l’anniversario della rivoluzione francese, il suo sguardo «cadde su Germaine» Lecocq, che usciva da un cinema assieme alla madre e la invitò a ballare. «Fu un amore a prima vista», che durò tutta la vita (Germaine morirà poche ore dopo Giorgio).

Il 2 giugno 1932, rientrato in Italia, per la sua prima missione clandestina, fu arrestato a Milano. Grazie all’amnistia per il decennale della marcia su Roma, evitò il processo presso il tribunale speciale e fu confinato per 5 anni a Ponza. Qui lo raggiunse Germaine nel luglio 1934, e il 10 luglio i due si sposarono con cerimonia civile.

Nel 1937, dopo cinque anni, intervallati da numerosi soggiorni nel carcere di Poggioreale, ottenne la trasformazione del confino in ammonizione con residenza a Roma, e, da qui, alla fine di ottobre raggiunse clandestinamente Parigi.

Da allora e fino al 1943 svolse l’attività antifascista in Francia e a Tunisi. Dopo il patto Ribbentrop-Molotov, e la repressione delle organizzazioni comuniste, nel marzo 1940 Amendola si trasferì a Marsiglia, per riorganizzare le file dei comunisti italiani. Con l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno), cominciò a rompersi l’isolamento politico del PCI [9]. Nel settembre 1941, fu tra gli animatori del Comitato di Tolosa, cui parteciparono informalmente Sereni e Giuseppe Dozza, Pietro Nenni, Fausto Nitti e Silvio Trentin [10].

Nel novembre 1942 venne cooptato nel centro estero del PCI in seguito all’arresto di Agostino Novella.

Il 3 marzo 1943, a Lione, con Dozza, firmò per il PCI, il patto d’unità d’azione con socialisti (rappresentati da Saragat) e azionisti (rappresentati da Lussu).

Rientrò in Italia nell’aprile dello stesso, prima a Torino e poi a Milano, per la riorganizzazione del lavoro cospirativo in Italia. Membro della direzione provvisoria del partito, all’indomani dell’arresto di Mussolini e l’insediamento del governo Badoglio il 26 luglio, partecipò alla prima seduta del comitato delle opposizioni svoltosi a Milano. Lo stesso giorno Amendola fu inviato a Roma per partecipare come rappresentante ufficiale del PCI alle riunioni del Comitato romano delle opposizioni, dal quale - come scrive lui stesso - «apparivano ancora emarginati i comunisti» e prevaleva «la linea della “tregua” da concedere a Badoglio, quando invece occorreva incalzarlo subito con la richiesta di misure immediate»[ 11].
Forte del successo conseguito soprattutto al Nord dallo sciopero generale, Amendola e gli altri rappresentanti giunti da Milano sostennero la necessità di premere sul governo Badoglio affinché iniziassero le trattative per l’armistizio, venisse sciolto il partito fascista (con le altre istituzioni del regime), venissero liberati i detenuti e i confinati politici, fosse ripristinata la libertà di stampa e fossero ricostituiti i partiti antifascisti. Su queste basi, Amendola si incontrò la sera stessa con il consigliere politico del re, Vittorio Emanuele Orlando, che assicurò un sostanziale accoglimento delle richieste. Ma la liberazione dei detenuti politici avvenne senza un provvedimento ufficiale, e seguendo criteri di discriminazione politica: rilasciati subito socialisti e azionisti, per i comunisti furono necessarie altre pressioni ed iniziative politiche.

L’8 settembre a Roma vide Amendola tra gli organizzatori della difesa della città e con Scoccimarro rappresentò il PCI nel CLN centrale. Membro della giunta militare tripartita, sarà organizzatore e animatore dei Gap (Gruppi di azione patriottica) romani e infine comandante delle brigate Garibaldi dell’Italia centrale.

Era a Roma quando, il 1° aprile 1944, Togliatti annunciava che egli non aveva alcuna pregiudiziale nei confronti di Badoglio, e che i partiti antifascisti dovevano accantonare la questione istituzionale e pensare alla formazione di un nuovo governo che unisse tutte le forze impegnate nello sforzo bellico. Era la svolta di Salerno.

Come racconterà lui stesso, nelle Lettere a Milano, «nel gruppo di direzione di Roma si formò subito uno schieramento favorevole pienamente, e con entusiasmo, alla iniziativa assunta da Togliatti» (p. 300), ad eccezione di Scoccimarro, che la riteneva un «compromesso». Lui stesso, nei mesi precedenti - a causa dello «choc della fuga di Pescara» -, aveva contrastato Novella e Negarville, i quali non avevano mai escluso una collaborazione politica con Badoglio. Dopo una riunione della direzione di Roma, Novella e Amendola inviarono, il 7 aprile, a Togliatti un messaggio solo recentemente ritrovato negli Archivi del PCI, presso la Fondazione Istituto Gramsci: «Approviamo entusiasticamente svolta…». Il telegramma procurò ai due «un monte di critiche» (Lettere a Milano, p. 310), e anche Togliatti non gradì; ad esso infatti rispose: «Per il momento non ponete questione autocritica interna». Amendola, che quando scrisse il suo libro non aveva a disposizione i testi dei messaggi tra Roma e Napoli, lo ricordava come un secco invito a rinviare le controversie per attuare disciplinatamente la linea approvata a Napoli.

Dopo la costituzione del secondo governo Badoglio, con l’ingresso dei comunisti, e alla vigilia della liberazione di Roma, il 5 maggio del 1944, Amendola lascia la capitale per raggiungere Milano come membro della direzione del PCI per l’Italia occupata.

In agosto venne arrestato a Parma e rilasciato dopo 10 giorni senza che i tedeschi sospettassero la sua vera identità.

Ispettore della Brigate Garibaldi in Emilia e in Veneto, alla fine del 1944 sostituì Arturo Colombi a Torino, come responsabile del triunvirato insurrezionale piemontese e rappresentante comunista nel CLN regionale. In questa veste organizzò gli scioperi preinsurrezionali dell’aprile 1945, che condussero alla liberazione di Torino il 28 aprile.

Dopo la Liberazione fu richiamato a Roma e nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Parri e nel primo De Gasperi fino al 1° luglio 1946.

Il V Congresso del PCI (Roma 29 dicembre 1945-6 gennaio 1946) lo riconfermò membro della direzione (di cui farà parte sino alla morte). Nominato membro della Consulta, venne eletto all’Assemblea Costituente, e poi deputato nel collegio di Napoli in tutte le successive legislature; dal 1969 fu eletto al Parlamento europeo.

Dal 1946 al 1954 fu segretario regionale della Campania, della Lucania e del Molise; e dal 1947 fino al 1954 fu responsabile della commissione meridionale del partito. Fu in questo periodo che il suo contributo politico assunse una propria fisionomia.

La costruzione del partito nuovo al Sud avvenne intorno alle lotte agrarie, in larga parte spontanee, ma alle quali Amendola si sforzò di dare una posizione aperta e interclassista, attraverso un articolato Movimento di rinascita del Mezzogiorno, promotore di inchieste popolari sulle condizioni del Sud, e il coinvolgimento di diversificate forze politiche, sociali e intellettuali. Di esso fu espressione la rivista Cronache meridionali che fonderà con Mario Alicata e il socialista Ernesto De Martino nel 1954. Il successo di questa impostazione si misurò nelle elezioni amministrative del 1952, che videro il PCI raddoppiare i consensi al Sud, e alle politiche del 1953, quando i voti del Mezzogiorno furono determinanti per la sconfitta della “legge truffa”.

In questi anni si consolidava la sua lettura, mutuata da Gramsci e Gobetti, dei limiti del processo di unificazione del paese e della borghesia italiana, che nelle condizioni di miseria del Mezzogiorno mostravano la loro più grave contraddizione. In questo quadro si definiva la “funzione nazionale” della classe operaia, la sola classe che potesse portare a compimento l’opera risorgimentale, secondo l’ispirazione che lo aveva guidato sin dalla sua scelta di aderire al partito comunista.

Dopo le elezioni del 1953 e la morte di Stalin, che vennero a mutare il quadro politico interno e internazionale, si avviò nel PCI un processo di rinnovamento, che culminò nell’allontanamento di Secchia dalla direzione e la nomina di Amendola alla responsabilità dell’organizzazione già nell’estate 1954. In questo ruolo, formalizzato alla conferenza di organizzazione, svoltasi a Roma, il 9-14 gennaio 1955, egli entrò a far parte della segreteria del partito, nella quale rimase fino al 1965.

La relazione di Amendola al Comitato centrale del 16-18 luglio 1954 in preparazione della conferenza di organizzazione fu un vero e proprio manifesto politico. Come ha sottolineato Roberto Gualtieri [12], Amendola collegò la critica all’attesismo rivoluzionario e l’esigenza di un rinnovamento nei metodi di direzione del partito ad un’analisi del nuovo terreno su cui il congresso della Dc aveva collocato la sfida per il cambiamento. La strategia, che il nuovo responsabile dell’organizzazione illustrò, puntava a rendere il PCI protagonista dell’organizzazione di un largo fronte politico e sociale capace di dar vita, in forme diverse e con strumenti molteplici, a iniziative e a proposte concrete miranti all’allargamento del mercato interno e allo sviluppo.

Il rilancio della “via italiana al socialismo”, favorito dal XX Congresso del PCUS nel ’56, vide in Amendola un sostenitore e un ammiratore convinto del coraggio di Chrušhëv - fatto, quest’ultimo, che determinò anche «un certo contrasto» - come ebbe a dire a Renato Nicolai nell’intervista Il rinnovamento del PCI, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 126 - con Togliatti. Entrambi condividevano però l’obiettivo di operare un profondo rinnovamento del partito. E la posizione di Amendola a capo dell’apparato organizzativo risultò determinante per selezionare il nuovo gruppo dirigente che diede testa e gambe al rinnovamento sancito all’VIII Congresso del PCI (Roma, 8-14 dicembre 1956).

Il piglio deciso con il quale operò tale rinnovamento, gli attirò l’accusa di autoritarismo, che egli non respingeva. «Era - secondo Arfé - un autoritarismo alimentato dall’insofferenza nei confronti della vita politica, della pigrizia intellettuale, dell’opportunismo spicciolo. Era un autoritarismo dietro il quale erano anche le esperienze che la sua generazione aveva vissute e sofferte e che avevano messo in evidenza l’astrattismo del democratismo dottrinario» [13].

Dal IX Congresso (Roma, 30 gennaio-4 febbraio 1960) divenne responsabile della sezione economica e della commissione lavoro di massa. Di nuovo ad Amendola era affidato il compito di guidare il rinnovamento, stavolta su programma che più sfidava la politica del PCI (e costituirà l’oggetto del contrasto che lo oppose a Ingrao), dopo la fine del centrismo. Amendola - che già nel febbraio 1959 aveva avanzato la proposta di una «nuova maggioranza di rinnovamento democratico» -, contribuì alla definizione della linea di relativa “apertura” del PCI all’ingresso dei socialisti nell’area di governo. Contribuì a definire il profilo di una possibile convergenza con le componenti più avanzate del centro-sinistra fondata sulla “programmazione democratica” e mirante all’allargamento del mercato interno e alle “riforme di struttura”.

Nella sua trentennale esperienza parlamentare egli valutò i governi e le scelte di politica economica su due elementi: la risposta agli interessi materiali delle classi popolari e il ruolo assegnato alle loro rappresentanze politiche. Due elementi che potevano concretamente essere valutati su un dato concreto: l’aumento dei redditi operai, come principale strumento per superare le tare storiche di un capitalismo asfittico e perennemente tentato da soluzioni autoritarie.

Nell’intervento che il partito gli affidò sulla “Nota aggiuntiva” di La Malfa, egli affermava: «Se si vuole che le forze del lavoro guardino a questa politica con fiducia, bisogna che questa politica corrisponda alle insopprimibili esigenze di vita delle masse lavoratrici per superare il livello attuale dei salari e degli stipendi» (25 maggio 1962).

Quando - di fronte alle prime avvisaglie di crisi economica nella primavera del ’64, e sotto la pressione del ministro Colombo e del Governatore della Banca d’Italia, Carli - il centro-sinistra ridimensionò i propositi programmatori, enfatizzando la “politica dei redditi” (di fatto un freno agli aumenti salariali), la reazione del parlamentare comunista fu energica.

«Che cosa vi aspettate? Anime delicate! - disse nel suo discorso parlamentare del 23 giugno 1964 - Vorreste che il movimento operaio si suicidasse senza avere la penosa incombenza di farlo fuori? [...] Altro che sfida democratica, onorevole Moro, di cui ella ha parlato nel 1962! [...]. Noi abbiamo salutato con favore il momento in cui la lotta si spostava su un terreno più avanzato; ma quando vediamo che dietro il discorso della sfida democratica riappare il vecchio volto della borghesia italiana, con quello che esso ha di gretto e di esoso, ebbene, diciamo a questa borghesia italiana: noi andiamo avanti, per la strada che corrisponde agli interessi della classe operaia, del popolo italiano.»

Ancora alla Conferenza operaia di Genova (30 maggio 1965), pur in una situazione di recessione economica, Amendola invitava il sindacato a non dimenticare i «soldoni», a non lasciare «la congiuntura all’avversario di classe», rinunciando alla difesa immediata degli interessi dei lavoratori per avviare «la trasformazione del sistema».

È noto che negli anni ’70 Amendola anteporrà la lotta all’inflazione agli aumenti salariali, e a sostenere una politica a favore degli investimenti, piuttosto che dei redditi delle classi lavoratrici. Alla base di questo mutamento, stanno certamente il fallimento delle ambizioni riformiste del centro-sinistra e la sconfitta del tentativo comunista di condizionarlo. Il «tintinnar di sciabole» del generale De Lorenzo, aveva mostrato tutte le fragilità della democrazia italiana. E Amendola ne ricavava la sconsolata conferma di un paese anormale, un’eccezione approssimata per difetto rispetto ai modelli di riferimento europei e occidentali.

La crisi del centrosinistra significò anche la sconfitta della prospettiva per cui Amendola si era speso con coraggio all’interno del partito. Alla morte di Togliatti, sarà eletto segretario Luigi Longo e non Amendola, che già nel ’56 era stato individuato dalla grande stampa come il più probabile successore.

Nel novembre 1964, rispondendo a Norberto Bobbio che contestava l’immobilismo del PCI, Amendola avanzò su “Rinascita” la sua celebre Ipotesi sulla riunificazione con il partito socialista. Anche se la proposta non ebbe seguito, l’articolo ebbe il merito, da un lato, di contribuire ad innovare le forme del dibattito interno e di sollecitare l’intero corpo del partito a misurarsi con i problemi di fondo dell’identità e della collocazione internazionale del PCI; dall’altro di rendere il PCI protagonista della elezione di Saragat alla presidenza della Repubblica (28 dicembre 1964).

All’XI Congresso del PCI (Roma, 25-31 gennaio 1966), le divergenze interne al gruppo dirigente comunista si coagularono nella contrapposizione tra Amendola e Ingrao. Dalla crisi del centro-sinistra Ingrao ricavava motivi per una radicalizzazione antieconomicistica dell’opposizione comunista e per una chiusura totale nei confronti del governo, Amendola ne traeva conferme alla sua lettura dei limiti della borghesia italiana e rilanciava l’ipotesi dell’unità delle sinistre. Il Congresso lo elesse membro dell’ufficio politico (di cui continuò a far parte fino al 1975), mentre Giorgio Napolitano, a lui particolarmente vicino, divenne coordinatore della segreteria.

Ancora nell’agosto del 1969, rilanciò, sempre con un articolo su “Rinascita”, la prospettiva di una “nuova maggioranza”, ribadendo la funzione di Partito di governo del PCI.

Nel gennaio dello stesso anno, Amendola divenne membro del Parlamento europeo - allora non eletto a suffragio universale, ma composto da delegazioni elette dai parlamenti dei vari paesi (insieme a lui, per il PCI, Silvio Leonardi e Nilde Iotti, unica donna tra i 18 parlamentari italiani).

Amendola, che già nel 1962 al Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano, aveva contribuito a modificare l’atteggiamento di iniziale contrarietà del PCI nei confronti della Comunità europea, diverrà il principale attore di quel processo di revisione e di approfondimento che condusse il Partito Comunista Italiano ad accogliere la prospettiva dell’integrazione europea.

A Giorgio Amendola si devono attribuire alcune tappe importanti di questo processo: il convegno del novembre 1971 su “I comunisti e l’Europa”, e la candidatura di Altiero Spinelli nelle liste del PCI alle elezioni politiche del 1976 [14].

Nel 1970, di fronte alle evidenti incertezze della DC nel perseguire una politica di alleanze e al susseguirsi di maggioranze di governo, Amendola sembrò affidare le speranze di cambiamento ormai soltanto alla classe operaia. «Assistiamo - dirà alla Camera il 14 aprile 1970 - ad un fatto di grande importanza, direi di portata storica: la classe operaia si fa carico di queste esigenze e le affronta. L’unità sindacale si sposta dal piano rivendicativo e contrattuale al grande terreno delle riforme di struttura». Ma in questo farsi carico si consumerà anche la parabola del partito comunista negli anni della solidarietà nazionale. Giovanni Gozzini, concludendo la sua introduzione ai Discorsi parlamentari, ha osservato: «Con il fiuto del politico di razza, capace di precorrere i tempi, l’ultimo Amendola sembra accorgersi di questa contraddizione e tenta di risolverla nel modo che gli è congeniale: radicalizzando la vocazione governativa della classe operaia e portando all’estremo l’autocritica, come se l’assenza democristiana potesse essere risolta da una supplenza delle sinistre» [15].

I mutamenti intervenuti nel rapporto tra politica e mercato (determinati dai nuovi livelli di integrazione economica internazionale) che erano venuti, sin dagli anni ’60, a ridefinire i blocchi sociali tradizionali e, soprattutto, a modificare i criteri di rappresentanza, con l’allentamento dei vincoli di appartenenza e con la definizione dei nuovi canali di consenso, rendevano impraticabile l’esercizio della funzione «nazionale» della classe operaia nelle forme praticate dal PCI nel dopoguerra.

Emblematico fu il suo difficile rapporto col movimento studentesco: se nel ’68 auspicava con gli studenti «un rapporto critico non viziato né da paternalismi né da civetterie» (in polemica con Longo, a cui rimproverava la tendenza a mettere il cappello sopra a un movimento che appariva estraneo alla tradizione comunista) [16]; successivamente prevalse in lui la preoccupazione di interrompere «troppo semplicistiche giustificazioni sociologiche, troppi cedimenti ingiustificati, troppe coperture culturali [che avevano] creato attorno al partito dell’estremismo armato una cintura protettiva» [17], come ebbe a scrivere nei giorni del rapimento Moro.

L’impegno che Amendola dedicò a quella che potremmo definire la sua ultima battaglia pedagogica non valse a mutare i termini del problema.

In una realtà profondamente mutata dai lontani anni della sua scelta di vita, Amendola rimane fedele a quella classe operaia in cui, in gioventù, aveva visto il solo soggetto politico portatore di rinnovamento. E non è un caso, che le critiche anche aspre che egli sentì di rivolgere ad essa - le battaglie contro quelle che considerava le residue zone d’ombra nella coscienza operaia: la tolleranza nei confronti della violenza e del terrorismo, le condizioni di effettivo esercizio della democrazia nelle organizzazioni sindacali, l’assenteismo, il lavoro nero, la difesa rigida del posto di lavoro, l’applicazione estensiva ed egualitaria della scala mobile [18] - avvenissero fuori dal Parlamento; le avanzava senza remore, ma tra i “suoi”, nelle sedi di partito, sulla stampa, nelle assemblee di lavoratori. Nelle altre forze politiche sentiva di non avere più interlocutori, e lo disse esplicitamente in aula nel dicembre 1974:

«Noi confessiamo di essere in difficoltà nell’assolvimento della nostra funzione. Fare dell’opposizione con le forze, col vigore, anche con le capacità che modestamente abbiamo esige infatti un interlocutore valido, che abbia almeno la capacità, il vigore e la cultura che abbiamo noi. Invece ci troviamo di fronte al vuoto, ad un coacervo di posizioni siffatto che sentiamo di doverci muovere con cautela - il nostro famoso spirito si responsabilità cui si fa tanto appello! - perché sotto di noi c’è una lastra sempre più sottile di ghiaccio che minaccia di rompersi e di inghiottirci tutti.» uel dicembre 1974, la sua presenza in parlamento rimase muta.

Negli ultimi anni della sua vita, dedicò molte delle sue energie alla ricostruzione della storia del PCI [20], sempre con il taglio della testimonianza, come tenne a precisare nella sua prima raccolta antologica di scritti: Comunismo antifascismo resistenza, uscita per gli Editori Riuniti nel 1967. Più tardi ad esso fece seguito il ponderoso Lettere a Milano: ricordi e documenti, 1939-1945 (1973 e più volte ristampato) e la Storia del Partito comunista italiano: 1921-1943 (1978), usciti per la stessa casa editrice. Ad essi si accompagnano: Gli anni della Repubblica, Roma, Editori Riuniti, 1976; Antonio Gramsci nella vita culturale e politica italiana (Napoli: Guida, 1978); e i libri-intervista: Intervista sull’antifascismo, a cura di Piero Melograni (Bari-Roma, Laterza, 1976) e Il rinnovamento del PCI. Intervista di Renato Nicolai (Roma, Editori Riuniti, 1978). Di carattere più spiccatamente autobiografico: Una scelta di vita (1976) e Un’isola (1980) entrambi per Rizzoli.

Morì a Roma, il 5 giugno 1980.

[1] Giorgio Amendola, Discorsi Parlamentari, Roma, 2000 (d’ora in poi DP), 30 luglio 1958, p. 402; cfr. anche Amendola, Una scelta di vita, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 194-96, dove però il nesso tra sconfessione dell’assunto della tesi e adesione al comunismo è più temporale, che concettuale.

[2] Valeria Sgambati, La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola, in «Studi storici», 1991, n. 3, p. 739. Amendola ha invece sempre sostenuto di essere partito da posizioni gobettiane.

[3] G. Amendola, Una scelta di vita, cit., p. 220 e seguenti, p. 254; cfr. Sgambati, op.cit., pp. 754-757.

[4] DP, 5 giugno 1952, p. 211. In realtà egli Amendola modo di leggere il saggio sulla questione meridionale solo dopo essere diventato comunista (G. Amendola, Antonio Gramsci nella vita culturale e politica italiana, Napoli, Guida, 1978, p. 28).

[5] G. Amendola, Con il proletariato o contro il proletariato? Discorrendo con gli intellettuali della mia generazione, in «Lo Stato operaio», giugno 1931, poi in «Lo Stato operaio» 1927-1939, a cura di Franco Ferri, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 433. La reazione di Rosselli alla notizia dell’adesione di Amendola al partito comunista, sono riportate da Amendola stesso a conclusione di Una scelta di vita, cit., pp. 263-64; la rievocazione di quegli anni svolta da Ugo La Malfa è riportata in Sgambati, op.cit., pp. 758-59.

[6] DP, p. 257. Sulla legge Acerbo, p. 255.

[7] Amendola, Una scelta di vita, cit., pp. 13-14.

[8] G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di Piero Melograni, Bari-Roma, Laterza, 1976, pp. 64-65.

[9] Amendola, Storia del PCI 1921-1943, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 457. Sullo stesso periodo, e in una prospettiva più autobiografica, Id., Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973, in particolare p. 39.

[10] Ivi, pp. 481-490, in particolare p. 484.

[11] Ivi, p. 561. In Lettere a Milano, cit. pp. 115 e ss.

[12] La relazione di Gualtieri al convegno organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci, il 14 luglio 2005 (in corso di stampa), è disponibile in bozza sul sito dei Democratici di sinistra all’indirizzo: http://www.dsonline.it/allegatidef/GUALTIERI26971.pdf.

[13] Il ricordo di Gaetano Arfè è disponibile sul sito dell’Anppia: http://www.anppia.it/arfe.htm.

[14] Sul contributo di Amendola alla politica europeistica del PCI, cfr. la relazione di Giorgio Napolitano al convegno organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci, il 14 luglio 2005 (in corso di stampa), disponibile in bozza sul sito dei Democratici di sinistra: http://www.dsonline.it/stampa/documenti/dettaglio.asp?id_doc=26995. Cfr. inoltre L’Europa da Togliatti a Berlinguer : testimonianze e documenti: 1945-1984. A cura di Mauro Maggiorani e Paolo Ferrari, Bologna : Il Mulino, 2005.

[15] Gozzini, Introduzione a Giorgio Amendola, DP, pp. xli-xlii.

[16] G. Amendola, Necessità della lotta su due fronti, in «Rinascita», 7 giugno 1968.

[17] Id., Isolare il terrorismo e combattere ogni forma di violenza, in «L’Unità», 22 marzo 1978.

[18] Cfr. ad es. Id., Interrogativi sul «caso» Fiat, in «Rinascita», 9 novembre 1979.

[19] DP, 6 dicembre 1974, p. 914.

[20] Su questo cfr. la relazione di Simona Colarizi, Giorgio Amendola storico, al convegno organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci, il 14 luglio 2005 (in corso di stampa), disponibile in bozza sul sito dei Democratici di sinistra all’indirizzo: http://www.dsonline.it/allegatidef/COLARIZI26971.pdf; e Gianfranco Petrillo, Da una svolta all’altra. Luigi Longo, Pietro Secchia e Giorgio Amendola fra autobiografia, storia di partito e storia nazionale, in «L’Impegno», a. XXI, n. 1, aprile 2001, disponibile on line all’indirizzo: http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/petrillo101.html.

Per approfondire, oltre ai testi citati, leggi anche:

Giorgio Amendola: comunista riformista. A cura di Giovanni Matteoli; scritti di Giuliano Amato … e altri; con un inedito di Giorgio Amendola; presentazione di Emanuele Macaluso, Soveria Mannelli : Rubbettino, 2001 [Relazioni presentate al Convegno tenuto a Roma nel 2000]

Cerchia, Giovanni, Giorgio Amendola: un comunista nazionale: dall’infanzia alla guerra partigiana, 1907-1945, Soveria Mannelli : Rubbettino, 2004

grazie a http://www.fondazioneamendola.it/



Bruno Gravagnuolo

Lo scontro fra Amendola e Ingrao

Che cos'è stato e che cosa rappresenta oggi Pietro Ingrao, nella percezione e nel giudizio di chi nel PCI lo ha conosciuto bene, e magari anche contrastato, pur dentro un legame fortissimo di fraternità e di stima? Lo abbiamo chiesto a due ex dirigenti comunisti, Alfredo Reichlin ed Emanuele Macaluso. Il primo, "ingraiano" di formazione, e redattore capo all'Unità di Ingrao. Il secondo di ascendenza "amendoliana" e riformista, e anche lui come Reichlin ex direttore dell'Unità. Due amici di Pietro, di collocazione e storia diverse, all'insegna della comune matrice togliattiana.

«Ingrao - dice Reichlin - è stato il simbolo di un legarne generazionale decisivo, quello tra il partito di Togliatti e una nuova leva di intellettuali italiani nel dopoguerra. In questo senso proprio l'Unità moderna, che lui ha inventato, non più classico giornale di partito, è stata una vera scuola di formazione culturale. Il terreno d'elezione di una classe dirigente per I'Italia, vera scuola di formazione culturale come era negli intendimenti di Togliatti."
Un'operazione innovativa e contrastata, che suscitò «gelosie», culminata con l'ingresso di Ingrao in Segreteria nel 1956. Perché?
«Perché - dice Reichlin - eravamo accusati di essere frivoli, evasivi, di non celebrare l'Urss e di fare un giornale borghese. Ecco, uno come Ingrao non era un burocrate, ma un grande organizzatore di cultura e di opinione e si vedeva nella passione con cui faceva il giornale
E le sfide politiche di Ingrao? La disfida con Amendola e «l'ingraismo?»
«Il punto centrale - spiega Reichlin - fu la battaglia aII'Xl congresso del 1966 sul "modello di sviluppo", da cui uscì sconfitto
Lì, oltre a porre la questione della democrazia interna, Pietro «pose il problema delle grandi trastormazioni del capitalismo italiano, non più arretrato, come diceva Amendola, ma bisognoso d'essere guidato e governato lungo l'asse di un inedito sviluppo, a partire dai punti alti già raggiunti in quell'Italia in movimento, e che fosse in linea con la modernizzazione necessaria del sistema-paese.» Insomma, erano gli anni del centro-sinistra, della nuova classe operaia, dei consumi di massa, del neocapitalismo. E Ingrao per Reichlin intercettava tutto questo, con largo anticipo sui tempi. Ma come?
«Proponendo di cambiare il tipo di sviluppo economico, superando i bassi salari, allargando il mercato e il ventaglio dei bisogni, fuori dai rivoli corporativi della protesta, e imprimendo un segno democratico al meccanismo dell'accumulazione.» In altri termini, una visione programmatoria di sinistra, dove per Reichlin «era lngrao il riformista e non Amendola, fermo invece all'arretratezza e alla democrazia mancata in Italia
Queste in sintesi per Reichlin le tre sfide di Ingrao, che restano:
«Pluralismo e democrazia interna nel PCI; strategia di alternativa economica; e la riforma istituzionale, un tema che intravide tra i primi, quando il sistema politico italiano entrò in crisi irreversibile».
E oggi che cosa manda a dire Reichlin al compagno Ingrao: «Gli mando gli auguri, ovviamente, e gli ripeto che sono stato felice quando mi ha inviato un biglietto nel quale, a proposito di un mio articolo su l'Unità, mi scrisse che malgrado tutti i dissensi lui "capisce la mia lingua". Sì, non siamo d'accordo su nulla oggi, ma ci capiamo. E abbiamo ancora in comune una vecchia passione: cambiare le cose del mondo.»

Tocca a Macaluso, che non condivide la visione programmatoria attribuita da Reichlin a Ingrao: «Ingrao fu un'anima chiave del PCI, ma non la sola. E fu forza e debolezza del PCI. Ha attratto infatti verso la legalità il sovversivismo movimentista, ma ha anche infiacchito la vocazione di governo del PCI
E il modello di sviluppo?
«Il programmatore era Amendola. Ingrao viceversa contrapponeva al capitalismo un modello alternativo, un po' come Riccardo Lombardi. La sua ipotesi politica poggiava sull'alternativa secca di sinistra al centrosinistra. E Pietro non accettava la sfida delle possibilità intrinseche al centrosinistra, al contrario di Amendola e di un certo Togliatti
E la democrazia interna al PCI e nel paese?
«Fornì a riguardo un grande contributo, ma fu condizionato come tutti noi dal rito dell'unità di partito, come sul Manifesto. Quanto alle riforme istituzionali, le mise a fuoco con merito. Ma il limite fu un impasto di decisionismo e radicalismo democratico
E infine, presente e futuro di Ingrao per Macaluso: «Mi addolora che sia uscito dal Pds. Doveva restare, anche se in minoranza. Ma è un bene che abbia trovato in Rifondazione una comunità politica per esprimersi. Gli auguro con tutto il mio affetto che possa continuare a essere se stesso. A riflettere, e a combattere

l'Unità, 26 marzo 2005

Lucio Magri

L'XI Congresso del PCI

Come ho accennato in un precedente articolo, tutti i nodi del confronto avviato nei primi anni sessanta, ancor vivo Togliatti, emersero in forma politicamente più esplicita e si collegarono tra loro dopo la sua morte. Fino a diventare riconoscibile competizione fra due linee diverse, che si affrontarono, nel 1966, all’XI Congresso del PCI.
La discussione sul neocapitalismo, ad esempio, si polarizzò solo allora in due analisi e in due giudizi sull’esperienza dei governi di centro-sinistra da cui derivavano scelte strategiche e tattiche chiaramente divergenti.
Sul fatto che il centro-sinistra, già a due anni dal suo avvio, stesse mortificando e corrompendo le sue originarie ambizioni riformatrici, non vi era dissenso. Era evidente a tutti: le accanite resistenze delle forze conservatrici avevano trovato subito grandi complicità nella Democrazia Cristiana (e, come dopo avremmo meglio saputo, nei poteri occulti, il ‘tintinnar di sciabole’), costringendola e permettendole di imporre al Partito socialista un ruolo del tutto subalterno: i confini, nelle scelte essenziali di politica estera ed economica, erano ormai ben segnati.
Ma si doveva per questo considerare ‘fallita’ l’operazione di consolidamento di un nuovo blocco politico e sociale destinato a durare nel tempo, capace di guidare una particolare forma di modernizzazione del paese, di integrare nuovi ceti e nuovi interessi, al sud come al nord, di organizzare nuovi assetti istituzionali sulla commistione tra un capitalismo privato ormai dinamico e un largo intervento della spesa e della proprietà pubblica? E la stessa riduzione delle intenzioni riformatrici - ad esempio quella della ‘programmazione’ economica – era solo conseguenza del vizio originario – la discriminazione a sinistra - o era la necessaria conseguenza del programma stesso, già in sé rivolto solo alla redistribuzione delle risorse offerte dallo sviluppo economico in atto, e privo invece della volontà e della capacità di intervenirvi per modificarne le finalità e il modo di funzionamento? Su questo il giudizio divergeva nettamente.
La ‘sinistra ingraiana’ attribuiva al centro-sinistra un valore effettivo di novità, un disegno di integrazione culturale e sociale di una parte del movimento operaio, una capacità di durare e perciò un pericolo, per lo stesso PCI, di subalternità e omologazione. La storia successiva, di lungo periodo, avrebbe nel complesso confermato quella interpretazione.
La ‘destra amendoliana’ considerava al contrario il centro-sinistra un tentativo abortito, oltre il quale già riemergeva l’incapacità delle classi dirigenti italiane di guidare la modernizzazione del paese, di conquistare il consenso su basi nuove, e proprio perciò nutriva maggior fiducia in un rapido e pieno recupero della tradizionale unità tra comunisti e socialisti.
Da tale difformità di giudizio nasceva una divergenza di strategia. Occorreva tallonare l’esperienza di centro-sinistra facendo leva sulle promesse mancate, sui molteplici interessi che esso deludeva, sull’allargamento dell’intervento pubblico che - sia pure in forme spesso clientelari - esso comunque produceva (i ‘mille rivoli dell’opposizione’ secondo la definizione dello stesso Amendola)? Oppure occorreva mettere in campo, sia pure senza rotture e senza dogmatismi, un progetto alternativo più organico e di lungo periodo, un ‘modello alternativo di sviluppo’, con proprie coerenze interne, orientato da una critica più radicale al moderno capitalismo (controllo operaio sull’organizzazione del lavoro, selezione dei consumi, nuove istituzioni di partecipazione democratica)?
E ne veniva dunque anche una diversa gerarchia nella ricerca delle alleanze sociali e politiche: ceti medi tradizionali o nuova intellettualità di massa, piccola proprietà contadina o nuove figure di lavoro misto nel Mezzogiorno; il nuovo Partito socialista e le forze laiche minori, o le nuove forze emergenti nel mondo cattolico ispirate dal papato giovanneo e dal Concilio?
Anche rispetto a questi interrogativi il tentativo ingraiano di ridefinizione del togliattismo si dimostrò, negli anni successivi, più fondato. Se però quel tentativo venne battuto, si deve anche ad una sua (nostra) debolezza di analisi, di proposta, di scelta tattica.
Di analisi, in quanto vedemmo come già compiuto e lineare un processo di modernizzazione invece ancora in corso e contraddittorio, sopravvalutammo la capacità egemonica del riformismo italiano (e demmo un giudizio troppo seccamente liquidatorio dell’esperienza socialdemocratica del nord-Europa) e dunque trascurammo il nesso concreto in cui si univano le nuove contraddizioni del capitalismo e i permanenti conflitti della società italiana.
Di proposta, perché conseguentemente mancò l’attenzione necessaria a tradurre una linea in concreti programmi riformatori.
Di scelta tattica: perché tutto si concentrò su un conflitto interno al partito in cui l’antagonista unico e riconosciuto era solo ‘la destra amendoliana’ e il cui risultato - anche se non voluto - era di fatto la valorizzazione del continuismo, della mediazione burocratica, del pragmatismo.
Non a caso mi sono così a lungo soffermato, anche con qualche spunto autocritico, sulla ricostruzione di quello scontro politico ravvicinato, apparentemente estraneo al tema che qui ci occupa - il gramscismo nel PCI - perché esso portava in sé un confronto di strategia sulla rivoluzione in Occidente: il nesso tra riforme e rivoluzione; la rivoluzione come processo graduale ma per tappe (ognuna delle quali cristallizzata in un assetto generalmente strutturato, e in ogni momento espressione di una prospettiva radicale e generale, esplicitamente alternativa, di trasformazione della società, anziché processo graduale ma uniforme, commisurato prevalentemente su conquiste sociali immediate e sui rapporti di forza politico-istituzionali che ne derivavano); definizione di un blocco storico in formazione e non solo di un sistema di alleanze congiunturali.
Ma proprio per dare a questo confronto uno sbocco adeguato, un fondamento storico teorico rigoroso e una proiezione programmatica, sarebbero stati di grande valore la piena comprensione e l’utilizzo di alcuni stimoli del pensiero di Gramsci che il ‘gramscismo’ (cioè la traduzione togliattiana) avevano messo ai margini e nella nuova situazione storica acquistavano nuova e piena evidenza. E che invece, un po’ tutti .- destra e sinistra - trascurammo o rimuovemmo. Accenno, brevemente, a due punti.
Anzitutto il concetto di ‘rivoluzione passiva’, così centrale nella riflessione gramsciana e molto complesso. Nel centro-sinistra, e più in generale nel neocapitalismo di quegli anni, esistevano - proprio come nel Risorgimento italiano sul quale era nato il concetto di rivoluzione - sia l’elemento del ‘ritardo storico’ perdurante rispetto agli altri paesi dell’Occidente e dunque l’ipoteca pesante esercitata dalle vecchie classi dominanti (quindi la tendenza permanente a ‘fermarsi a mezza strada’), sia l’elemento di una modernizzazione effettiva, la quale anzi, sollecitata da quello stesso ritardo, assumeva in quel momento in Italia un ritmo più incalzante e un carattere di maggiore novità. Essi andavano dunque letti e affrontati su entrambi questi fronti: prendendo sul serio e valutandola nei punti più alti l’ambizione al mutamento, e al tempo stesso anticipando la fase del suo prossimo declino, le contraddizioni di fondo che già emergevano nella promessa della ‘società opulenta’ e nel lavoro alienato, i primi segnali di un conflitto sociale, anche gli ostacoli che già si intravedevano all’indefinita espansione di quel modello di accumulazione, e anticipando, quando ancora i rapporti di forza lo consentivano, un progetto e una pratica più nettamente alternativi.
In secondo luogo la visione gramsciana della moderna lotta di classe come parte inseparabile di una vicenda mondiale avviata dalla rivoluzione russa, che era presente anche a Lenin e a Togliatti, ma di cui Gramsci aveva colto criticamente il carattere non lineare, e in cui aveva previsto tutti i rischi di blocco e di degenerazione. Togliatti, dopo una lunga fase di stallo e di ambiguità, aveva, a pochi giorni dalla morte, nel memoriale di Yalta, recuperato drammaticamente la coscienza del problema, capito che ‘i conti non tornavano’ negli sviluppi e nell’assetto del comunismo mondiale. La successiva discussione dell’XI congresso su questo terreno fu invece, più che reticente, mediocre. Un dissenso emerse, ma quasi solo circoscritto ai temi immediati della politica internazionale (la critica a una visione della coesistenza come accettazione dello status quo, al sostegno troppo accomodante verso le borghesie nazionali del Terzo mondo). Ma senza che si riaprisse una riflessione sulle questioni di fondo che vi erano sottese (la priorità che cominciava ad affiorare in Urss della politica di potenza rispetto alla costruzione di nuove strategie di trasformazione dei paesi ex-coloniali, il passaggio dal krusciovismo alla glaciazione brezneviana, e dunque la necessità di rimettere in discussione il modello di sviluppo e le forme politiche del socialismo reale). Proprio nel momento in cui fatti enormi - la rottura tra Urss e Cina e il tentativo drammatico della rivoluzione culturale, il Vietnam e Cuba, il conflitto razziale e generazionale negli Stati Uniti) richiedevano invece con più urgenza (e offrivano qualche speranza), di riaprire con maggiore coraggio quel capitolo. Di riallacciare cioè il filo con un Gramsci rimosso (quello della lettera del ’26, ovviamente, ma più in generale quello dell’analisi del rapporto tra governanti e governati, della priorità dell’egemonia sul dominio nella definizione delle istituzioni politiche del socialismo, o quello di una lettura differenziata delle culture e delle forme sociali premoderne).
Insomma tutto un ‘giacimento’ non ancora sfruttato e che tale rimase.


Nella fase preparatoria dell’XI congresso una discussione, che per anni era stata molto aperta, aveva dunque ormai assunto la forma di un contenzioso corposo, che attraversava i vari livelli del partito fino al suo vertice, e saldava opzioni culturali e scelte politiche. Perciò il confronto già diventava più aspro, chiamava almeno i quadri di qualche peso a schierarsi o a dissociarsi, producendo un clima interno abbastanza pesante.
Ma il confronto divenne un vero scontro che divise e segnò poi per anni il partito ed emarginò - a volte per le spicce - una componente, solo nel corso del congresso nazionale. Quando l’intervento di Pietro Ingrao - anzi poche frasi conclusive - pur ottenendo una sorprendente risposta di consenso o quanto meno di stima nell’assemblea - provocò invece una reazione veemente e compatta dell’intero vertice del partito. Cosa aveva scatenato una tale reazione? Ingrao aveva detto: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano, ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».
A tanti anni di distanza è difficile capire la portata dello ‘scandalo’. Quelle parole non mettevano in discussione il principio del centralismo democratico. Nello stesso partito bolscevico, infatti (da sempre retto dal centralismo democratico e da una disciplina ferrea nei comportamenti), ancora dopo la rivoluzione - fino al X Congresso che stabilì regole più restrittive in nome di una situazione eccezionale - ma anche dopo, e con Stalin segretario - fino alla seconda metà degli anni venti - era normale, in fasi congressuali o su temi importanti, la pubblica espressione di posizioni diverse, perfino organizzate in piattaforme alternative, e con la presenza delle diverse posizioni nei successivi gruppi dirigenti, fatto salvo l’impegno rigoroso di tutti a difendere e a praticare poi le decisioni prevalse. Solo nell’epoca successiva, nella pratica staliniana, prevalse invece il principio che il dibattito sulla formazione della linea dovesse svolgersi all’interno del vertice, garanzia di unità e continuità, e la linea prevalente dovesse trasferirsi poi senza distinzioni, né possibilità di emendamenti, dall’alto verso il basso; e i gruppi dirigenti si formassero, attraverso un meccanismo di cooptazione, senza alcuna connessione esplicita con posizioni politiche differenziate. Una nuova forma dunque di centralismo democratico, anche a prescindere dalle epurazioni violente.
Nel partito togliattiano, anche dopo l’VIII congresso, tale prassi era rimasta immodificata. Ma gradualmente venne compensata da una gestione illuminata e più tollerante, i cui confini erano comunque posti dal gruppo dirigente ristretto e dal segretario, sia pure con un effettivo sforzo di convincere e di tener conto dei dissensi, e generalmente con una grande cura nello scegliere i quadri sulla base di risultati organizzativi e capacità intellettuali dimostrate, anziché di conventicole o prove di fedeltà.
L'innovazione che Ingrao proponeva era dunque molto meno che un ritorno all’originaria forma del centralismo democratico, certamente non era quella di accettare correnti da misurare nel voto con mozioni contrapposte. Ma era qualcosa di più della pratica ormai prevalsa nel PCI: proponeva cioè la trasparenza del dibattito, perché fosse liberato da una forma spesso cifrata che limitava molto il numero di coloro che potevano capirlo, per offrire a tutti i militanti la possibilità di formarsi un’opinione e di farla pesare, e per accrescere un diretto scambio tra l’elaborazione interna e gli interlocutori esterni all’organizzazione. Ma tanto bastò per suscitare il timore di una rottura dell’unità, di un mutamento della forma di partito come guida di grandi masse, organizzazione di combattimento e forza educatrice. Una discriminante sulla quale si riteneva che non c’era niente da sperimentare, né mediazione possibile.
Molti, anche tra quelli che condividevano gran parte delle sue idee, già allora, o più tardi, rimproverarono a Ingrao la scelta di toccare un nervo tanto sensibile, a rischio di ottenere un effetto opposto alle intenzioni, come di fatto avvenne. Anche io, che pure la condividevo, sono più volte tornato a interrogarmi. Ma, col passare degli anni, essa mi è parsa sempre più giusta: per ragioni che allora non avevamo forse ben chiare ma già rendevano la questione del partito ineludibile e dirimente, proprio in quel passaggio storico.
Anzitutto sul piano teorico, se si voleva sul serio rinnovare la tradizione di una forza comunista, ma con rigore e senza liquidarne, o semplicemente lasciandone deperire, l’identità.
Cerco di spiegarmi. In tutta la storia del movimento operaio marxista, socialdemocratico prima e comunista poi, è sempre stato cruciale il tema del partito, del potere politico, delle vie della sua conquista e delle forme del suo esercizio. Su di esso si svilupparono le discussioni più accese e si consumarono le rotture più profonde e permanenti non solo tra riformisti e rivoluzionari, ma anche all’interno di ciascuno dei due campi (ad esempio tra Lenin e Luxemburg, tra Kautsky e Bernstein). Non a caso, perché in tutti era profonda la convinzione che, a differenza della borghesia - che si era costituita, come classe in sé e per sé, prima e soprattutto attraverso l’esercizio di un potere economico che alla fine trovava un’espressione più o meno compiuta in istituzioni politiche - il proletariato non poteva dall’inizio costituirsi, e poi affermarsi come forza egemonica senza la sedimentazione di una coscienza e di un’organizzazione politica, e infine senza la conquista, l’esercizio e la trasformazione radicale dello Stato. Come si poteva però formare tale coscienza, come organizzarla stabilmente, come conquistare il potere, come esercitarlo in modo tale da trasformare veramente l’organizzazione sociale e il senso comune che il capitalismo aveva profondamente segnati, ma nel contempo sviluppando una democrazia più avanzata e avviare un deperimento dello Stato come istituzione seperata? Interrogativi che la Rivoluzione di Ottobre rese drammaticamente attuali.
Lenin vi si era impegnato teoricamente con tutte le sue energie, ma anche inciampando in contraddizioni mai pienamente risolte: la teoria del partito come intervento di una coscienza esterna, ortodossamente kautzkiana; il radicalismo democratico di Stato e Rivoluzione; poi l’accentuazione autoritaria nel Rinnegato Kautsky; infine, alla vigilia della sua morte, l’angosciosa preoccupazione della degenerazione burocratica del nuovo potere. Cercando, e credendo, di aver trovato una soluzione nell’equilibrio tra partito unico e potere dei Soviet. Un equilibrio che però non resse alla prova della guerra civile e dell’isolamento della rivoluzione russa e si ruppe presto a favore del primo elemento.
La socialdemocrazia classica aveva pensato invece di trovare una soluzione allo stesso problema, che pure riconosceva, nelle risorse offerte alla supremazia politica del proletariato dal suffragio universale, dall’istruzione di massa, dalla forza del sindacato - prima di fronte alla guerra, poi di fronte al fascismo - manifestò la propria impotenza a risolverlo. La questione - che era non tanto quella della conquista più o meno violenta del potere, quanto quella delle forme del suo esercizio - restò dunque sul tappeto, insormontabile, come discriminante nel movimento operaio, ed anche nel momento delle più grandi lotte comuni per la difesa della democrazia ‘borghese’, contro il fascismo, restava costitutiva di due identità inconciliate.
Proprio sul crinale degli anni sessanta la denuncia dello stalinismo, e la scelta della ‘via italiana’ della ‘democrazia progressiva’ come via pacifica e costituzionale, parvero sciogliere per il PCI il nodo. Ma solo in parte e superficialmente, perché presupponeva, da un lato, il graduale processo di autoriforma democratica nel modello politico dell’Unione Sovietica e una crescita della sua egemonia mondiale, dall’altro un approfondimento della democrazia politica e dell’autonomia culturale delle classi subalterne negli stessi paesi occidentali. Due condizioni - distinte ma reciprocamente connesse - che già alla metà del decennio, e ancor più dopo, erano però rimesse in discussione dai fatti. Perché il ‘campo socialista’ appariva diviso e congelato, e perché cominciava a diventare evidente la capacità di manipolazione delle coscienze offerte al capitalismo dai nuovi mezzi di comunicazione e dai nuovi modelli di consumo, dall’uso del governo come organizzazione del consenso dall’alto, e dalla burocratizzazione di partiti e sindacati. L’espropriazione della proprietà privata e la pianificazione statale - il ‘socialismo reale’ - non garantivano dunque affatto un’estensione progressiva della democrazia politica, mentre la democrazia politica - nel ‘capitalismo reale’ - si restringeva e si svuotava. Nella ‘via italiana al socialismo’ il problema dunque si riproponeva: pur liberato dalla illusione della ‘conquista del Palazzo d’Inverno’, dal carattere necessariamente violento della rottura rivoluzionaria, da un’idea totalitaria di potere, l’interrogativo restava aperto. Come garantire un’autonomia piena, la supremazia politica, di una classe che la società riproduceva invece subalterna, come ridurre - nel binomio di cui un’egemonia si compone: consenso e dominio - al minimo il dominio, sviluppare al massimo il consenso consapevole? Il nocciolo duro del concetto di ‘dittatura del proletariato’ - che non era un’invenzione di Stalin, e neppure di Lenin, ma elemento fondante della tradizione comunista, da Marx fino a Gramsci e alla stessa Luxemburg - era stato rimosso più che superato.
La sola via percorribile era offerta dalla riflessione gramsciana: sul rapporto partito-consigli, coscienza esterna-movimenti politici di massa, democrazia politica e trasformazione degli apparati che collegano Stato e società. Ma la condizione pregiudiziale era la riforma del partito stesso (concepito da Gramsci come intellettuale collettivo, soggetto di una ‘rivoluzione morale e culturale’), la rimessa in discussione al suo interno della separazione tra apparato e masse, del gruppo dirigente come depositario di una linea, del carattere subordinato e ‘collaterale’ dei movimenti sociali e culturali di massa. Senza questo strumento, che non era il modello togliattiano del partito di massa, la via democratica impallidiva nella ‘via parlamentare’, l’obiettivo del socialismo declinava in un ‘ideale’, la ‘diversità comunista’ si riduceva a una discriminante morale: uno spostamento teorico e pratico graduale e inconsapevole, parallelo a quello che già aveva cambiato la stessa tradizione socialdemocratica portandola apertamente nel secondo dopoguerra su posizioni non più socialiste in senso proprio, di semplice gestione del potere entro i confini di una pratica redistributiva, più o meno radicale.

A porre all’ordine del giorno, anzi a portare in primo piano, la scottante questione del partito vi erano però, al momento dell’XI Congresso, anche altre ragioni più prosaiche e immediate, ma non meno importanti.
Nella storia del PCI, come in ogni altro partito comunista, l’attenzione e la cura sui problemi dell’organizzazione erano straordinarie, dettagliate erano l’informazione e la verifica sul suo stato in ogni momento. Curiosamente però, nei documenti e nei dibattiti congressuali la riflessione sull’argomento restava sempre quasi sospesa, il discorso sorvolava sull’analisi fattuale e indicava solo un dover essere quasi sempre ripetitivo ed esortativo. Ma lo stato del partito, al momento dell’XI Congresso, in realtà non era affatto buono (sempre, si intende, valutandolo col metro dell’epoca, cioè commisurato ad una forza ancora straordinaria, con milioni di iscritti, sezioni attive in ogni contrada e quasi in ogni luogo di lavoro, attività e discussione costante per buona parte dei militanti, un imponente complesso di giornali, libri, riviste in grado di competere sul piano dell’informazione e della formazione con la forza di governo, una molteplicità di organizzazioni collaterali in ogni campo della vita sociale).
Malgrado infatti un’espansione elettorale notevole, una ripresa delle lotte sindacali, nuovi movimenti di giovani sui temi dell’antifascismo e dell’antiimperialismo, l’emergere di intellettuali di alto livello e prestigio con una impostazione teorica più esplicitamente e più modernamente marxista, l’organizzazione di partito appariva in declino, lento ma costante.
Quantitativamente: gli iscritti che erano più di due milioni nel 1955 - pur nel pieno della repressione scelbiana e vallettiana - erano invece calati a 1.600.000 nel 1965. Qualitativamente: per il forte calo tra i giovani (la Fgci scesa da 358.000 a 173.000), per una minore presenza del partito in fabbrica, per una difficoltà di lavoro nelle aree metropolitane, e una vera crisi del partito contadino e bracciantile al sud del paese. La presenza organizzata si andava così concentrando in alcune regioni del paese grazie al prestigio dell’amministrazione locale. Nella formazione dei gruppi dirigenti si andava esaurendo il peso della ‘grande scuola del carcere’ ed era concluso l’afflusso della generazione partigiana promossa dal ‘rinnovamento’ del 1956: il rivoluzionario di professione cominciava a diventare, necessariamente, un politico di professione, un ceto, ed era ormai arduo, data la crisi del modello sovietico, formarlo con una cultura autonoma, o selezionarlo attraverso l’esperienza di direzione delle lotte di massa (come era avvenuto nel dopoguerra).
Le nuove figure sociali - studenti, giovani operai, tecnici - anche quando erano molto vicine al partito ne sopportavano meno il vincolo e i rituali. Un fenomeno di separazione tra partito e società, tra un ceto politico e masse organizzate, era già avvertibile e riconosciuto. Insomma il ‘partito nuovo’, straordinaria e anomala invenzione e costruzione togliattiana, già manifestava le prime crepe e un rischio di involuzione graduale. Dunque: o si trasformava o deperiva.
Da qui nascevano, sul piano pratico, due temi cruciali e incalzanti su cui discutere e scegliere in fretta e chiaramente. Il primo tema era quello del rapporto tra il partito e le organizzazioni di massa: la scelta di una autonomia reciproca riconosciuta e praticata, come condizione indispensabile sia per ricucire le lacerazioni prodotte nei movimenti sociali dalla rottura politica del ’47, sia per alimentare un serbatoio continuo di nuove esperienze, nuove conoscenze, nuovi quadri nel vivo della società. Su tale versante la sinistra ingraiana promosse un dibattito acceso e alcune iniziative vitalissime anche grazie a dirigenti sindacali di grande valore. Una battaglia rinnovatrice che ebbe risultati rilevanti. Non ci sarebbe stato il ’69 operaio senza quel decennio di incubazione. Anche se l’autonomia ormai riconosciuta non riuscì a tradursi realmente in uno scioglimento delle correnti di partito nella Cgil e a costruire dunque una nuova e piena vita democratica del sindacato.
Il secondo tema era invece quello della riforma del partito stesso, del suo modo di lavorare e di discutere, in definitiva della sua concezione: e il primo passaggio stretto era proprio quello di nuove regole. Ecco perché quell’esigenza non era eludibile, non solo come esigenza democratica, ma come elemento costitutivo di una nuova strategia, per fronteggiare col rinnovamento la nuova ‘rivoluzione passiva’ in cammino, rovesciarne il segno, resistere alla sua pressione omologante.
D’altra parte - ed è importante sottolinearlo - all’esigenza di una nuova forma-partito corrispondevano, proprio e forse solo in quel momento, delle condizioni particolarmente favorevoli per rispondervi.
Il partito, pur attraversato da un vivace dibattito, aveva ancora, a tutti i livelli, un patrimonio politico-culturale comune e largamente condiviso, una grande tensione morale e un radicato, quasi eccessivo, senso dell’unità come valore da salvaguardare, e una discreta abitudine, più recente, a discutere senza cristallizzare subito le posizioni, anzi spesso a considerarle con curiosità e reciproca disponibilità a lasciarsi convincere, formando in ogni occasione, su ciascun tema, maggioranze non predeterminate.
L’ampiezza del suo radicamento e il fervore di una pratica permanente permetteva inoltre, in una certa misura, di verificare sui fatti il valore di ogni proposta o di ogni analisi, quindi un terreno sul quale anche un gran numero di semplici militanti erano in grado di orientarsi, giudicare, dire la loro. Il gruppo dirigente al suo vertice aveva una grande autorevolezza e, per merito specifico di Togliatti, era composto da personalità spiccate e sperimentate in grado di stimolare e governare un aperto confronto; i suoi quadri intermedi, pur abituati a una disciplina a volte passiva e non sempre di gran livello, erano però ancora abbastanza immuni dal carrierismo e dalla rincorsa a cariche istituzionali.
D’altra parte, ai lati e di fronte al partito, c’erano forze (giovani, la moderna classe operaia, intellettuali) portatrici di nuove culture e di nuove esperienze, a volte critiche, ma ancora fortemente attratte dalla forza e dall’originalità del comunismo italiano, pronte a parteciparvi ma desiderose di avere lo spazio e le sedi per portarvi un contributo creativo.
Una revisione delle regole e della pratica del centralismo democratico poteva quindi essere sperimentata senza immediati pericoli per l’unità dell’organizzazione, né di degenerazioni frazionistiche. Era certo un tentativo, nel lungo periodo, non privo di rischi, soprattutto se l’elaborazione e la pratica politica non fossero poi state sufficientemente forti per riunificare a sempre nuovi livelli un corpo così vasto e complesso, e per opporre una resistenza adeguata all’influenza sempre più insinuante dell’avversario. Ma era un rischio ragionevole ed evitabile, comunque largamente compensato dai frutti che quell’investimento poteva dare.
Quell’ipotesi non solo fu negata e rifiutata, ma venne combattuta con una blindatura della maggioranza, con una richiesta esplicita di fedeltà, con una emarginazione, selettiva e ‘a bassa intensità’, ma dura e tenace, dei dissenzienti. Un confine invisibile che si protrasse nel tempo, interiorizzato nei rapporti tra le persone, si radicò nella memoria collettiva, anche quando la cosiddetta ‘sinistra ingraiana’ ormai era dispersa o ridotta a poca cosa.
Il prezzo fu alto: non solo perché lo spazio al dibattito e alla ricerca si restrinse anziché allargarsi, ma perché vennero esorcizzate idee o stimoli che negli anni successivi avrebbero potuto offrire un contributo prezioso; e perché, all’esterno del partito, si confermò un’immagine di monolitismo organizzativo che funzionava come metafora di un irrisolto legame con il modello terzinternazionalista e con il ‘socialismo reale’.
Del resto, non a caso, nella storia del comunismo italiano da quel momento, poco a poco, venne prevalendo una linea e una cultura più accentuatamente parlamentarista, in cui il moderatismo programmatico e l’omologazione culturale erano dettate dalla ricerca di alleanze: la ‘doppiezza togliattiana’ si veniva sciogliendo in una sola direzione. Non solo, ma anche quando, per la spinta delle cose, il segretario del partito (Longo nel ’68, Berlinguer con il discorso sull’austerità o quello sulla degenerazione dello Stato, ma soprattutto dopo l’81) cercarono di correggere - dopo averla assecondata - quella deriva, si trovarono sempre di fronte - per contrappasso - anzitutto a quello stesso nodo irrisolto: l’impoverimento dei gruppi dirigenti, l’inadeguatezza dello strumento partito, la resistenza passiva di una organizzazione sulla quale pure avevano un autentico carisma. Morirono, soprattutto Berlinguer, con un grande popolo che li adorava, ma nel partito ‘in minoranza’: destino di quasi tutti i grandi leaders comunisti, quale che sia il giudizio che si possa dare su ciascuno di loro: Lenin, Gramsci, a suo modo perfino Stalin.
Concludendo, nel PCI, in un passaggio decisivo della sua storia, è esistita, anche grazie all’originaria impronta gramsciana - unico caso tra tutti i partiti comunisti - una minoranza di sinistra ma antidogmatica, innovatrice e influente. La sua battaglia culturale e politica per un certo periodo ottenne un’ampia attenzione e anche alcuni risultati duraturi: il ’68 italiano, particolarissimo per la sua durata e per l’intreccio tra contestazione giovanile e intellettuale e movimento operaio, ne fu una verifica. Lasciò idee e sollevò tematiche anticipatrici. Ma, nell’ambizioso tentativo di produrre una svolta complessiva nella linea e nelle forme organizzative di quel grande partito, fu duramente sconfitta, isolata, e poi si disperse, tanto da oscurarsi in parte nella memoria.
Era evitabile quella sconfitta? Probabilmente no, per il peso di una storia lontana e per cause oggettive e sovrastanti, nel quadro nazionale e internazionale. Forse però i suoi effetti avrebbero potuto essere più limitati e meno permanenti.
Vi concorsero cioè anche ritardi, o errori, che col senno di poi sono meglio individuabili e sui quali dovremmo riflettere non solo per spirito di verità, ma per trarne qualche lezione. Alcuni di essi sono del resto emersi nella ricostruzione della vicenda che ho brevemente tentato, non neutrale certo, ma spero non troppo partigiana: si poteva far meglio.
Per renderli più evidenti e poterne discutere li voglio riassumere in questo modo.
1) Sul piano teorico, l’errore non è stato quello di essere stati troppo coraggiosi e impazienti, ma di esserlo stati troppo poco. Per non avere reso più consapevole ed esplicito che ciò che si proponeva non era solo una declinazione della togliattiana ‘via italiana al socialismo’, ma il suo sviluppo e superamento.
Per non avere ad esempio, per tempo, fatto chiarezza sul tema aspro del nesso tra via democratica in Occidente e rimessa in discussione del tipo di ‘società socialista’ al quale era ormai concretamente approdata la rivoluzione nell’Unione Sovietica (che non prometteva una graduale autoriforma, ma esigeva un salto di qualità, dunque comportava autonomia piena e battaglia politica e culturale). Per non avere, inoltre, individuato le radici di quella che pur ci sembrava una deriva fuori tempo verso la socialdemocrazia (cioè l’economicismo e lo statalismo: nella forma, anziché del totalitarismo, di un parlamentarismo gradualista che oscurava la prospettiva di una critica radicale al capitalismo); ma nel contempo senza la capacità di elaborare un insieme di grandi obiettivi riformatori coerenti e insieme concreti per dare al ‘nuovo modello di sviluppo’ la credibilità di un progetto politico su cui individuare e costruire un blocco storico (cosicché quella parola d’ordine apparve, e in parte era, un’astrazione ideologica, la proposta di una alternativa immediatamente anticapitalista e proletaria).
Per non avere, soprattutto, capito e fatto capire che la ‘riforma del partito e delle sue regole’ - pietra dello scandalo - non era solo la rivendicazione di un diritto al dissenso, ma l’architrave di una strategia complessiva, e un interesse di tutto il partito. Il ‘riformismo rivoluzionario’, che pure era l’anima di quella proposta strategica, restava così non pienamente elaborato, monco.
2) Sul piano politico, l’errore fu di non avere realmente approfondito un’analisi della fase (su scala mondiale e su quella italiana), cioè di non avere ben definito il disegno dell’avversario ma anche le contraddizioni in cui inciampava, né valutato correttamente i rapporti di forza politici e sociali esistenti. E dunque di non aver saputo rendere espliciti itinerari, tempi, soggetti, alleanze che dessero a una proposta strategica il carattere di una politica praticabile e comprensibile per un grande partito di massa, tutelandone e accrescendone la forza anziché dividendola e isolandola.
3) Sul piano pratico - a differenza degli altri punti, qui l’autocritica si concentra su alcuni di noi, giovani intellettuali più o meno brillanti ma politicamente marginali e inesperti, come me - il limite fu di non aver capito a sufficienza che una battaglia politica di grande portata non è solo una competizione tra idee ma altrettanto costruzione di esperienze, esercizio di direzione reale delle forze cui ci si rivolge, e non aver saputo dimostrare la cura e la pazienza - nel linguaggio, nei comportamenti, nel lavoro quotidiano – necessarie per conquistare autorevolezza, per stabilire un legame di massa, per mostrare la volontà di rivolgersi all’insieme del partito, per trovare gambe reali sulle quali le idee potessero camminare, e produrre fatti che le accreditassero o le correggessero.
Tutti questi errori e ritardi - per tornare al nostro argomento - riflettevano, a ben vedere, un limite del ‘gramscismo’, ovvero ciò che del pensiero e del metodo gramsciano era rimasto amputato, per i limiti dell’epoca, nell’interpretazione togliattiana, che anche noi avevamo introiettato; o alla quale reagivamo amputando altri aspetti di quella lezione, cioè temi come quelli dell’articolazione di un blocco storico; della rivoluzione come processo mondiale di lunga durata ‘per tappe’; della ‘conquista di casematte’; del lungo ma necessario lavoro di formazione di nuovi quadri operai; dell’analisi dei diversi apparati egemonici in cui si articola lo Stato, della questione degli intellettuali. Insomma, riducendo i tratti distintivi tra Gramsci e il marxismo occidentale rivoluzionario ed eterodosso degli anni ’20, che in quel momento scoprivamo.
So bene che tutte queste riflessioni interesseranno oggi assai poco coloro che - nella sinistra moderata o in quella radicale - dal tema del comunismo si sono ormai liberati con l’abiura più sommaria, o semplicemente distaccandolo dalla sua specifica tradizione teorica e dalla sua storia concreta. Ma chi, come noi, a quella storia ha partecipato, e si ostina a rifiutare così l’abiura come la rimozione, ha il dovere di restaurare la memoria nella sua complessità, di cercare di distinguere il grano dal loglio, anche di azzardare, per ciascuno dei suoi passaggi, la ‘storia controfattuale’, di chiedersi cioè: poteva andare diversamente? Quali scelte possibili avrebbero potuto in parte diversamente guidare il corso delle cose? È un compito che sarà degli storici. Ma, particolarmente nel caso del PCI, gli storici non potranno - e infatti non riescono - a fare il loro lavoro per bene, solo frugando negli archivi, leggendo verbali molto impoveriti o censurati, mettendo in fila gli avvenimenti della storia ufficiale e senza l’aiuto della testimonianza e della riflessione di tutti coloro che, in sostanza, essendo in posizione minoritaria, restavano sconosciuti o agivano sottotraccia.