Pietro Ingrao

Il mio errore

Quando hai conosciuto Pintor?

Nel giugno del 1945. Il 30 maggio tornai dall'Esercito di liberazione, e lo stesso giorno mi nacque la prima figlia, Celeste. Godetti di una licenza brevissima e a metà giugno mi spedirono a lavorare come capocronista a l'Unità, nonostante fossi uno lento nello scrivere e non avessi assolutamente alcuna pratica di cronaca: avevo fatto con Gillo Pontecorvo l'Unità clandestina a Milano (e poi anche a Roma), che era altro dalla cronaca nera che incendiava le vicende di Roma. Allora - si può dire - andavamo a scuola di tutto.
Pintor faceva il resocontista politico: in Parlamento e in giro per l'Italia, con un'asciuttezza di scrittura che già allora colpiva. Presto divenne `notista' politico e poi inventò quegli editoriali asciutti e lancinanti, per cui - anni dopo - Enrico Berlinguer, quando gli chiesero qual era il miglior giornalista d'Italia rispose senza esitare: Pintor E Luigi da tempo non era ormai in odore di santità alle Botteghe Oscure.
Fu con te, con Rossanda e con Magri e Reichlin, e parecchi altri nella battaglia poi combattuta sul campo all'XI congresso. Fu sconfitto gravemente con te e mandato in punizione in Sardegna. Non furono gentili i vincitori.
La lotta nel partito, seguita alla morte di Togliatti, durava ormai da anni: riguardava la leadership e la linea. E nell'ombra, ma non tanto, agiva tutto il peso del partito sovietico.
Ma forse per capire bene tutta la portata di quello che avvenne agli inizi degli anni Sessanta bisogna risalire a cose più lontane: essenzialmente e prima di tutto al periodo aspro e decisivo in cui l'Italia partecipa al punto più sanguinoso e grave della storia mondiale del Novecento, e vive gli anni duri e alti della Resistenza, della Repubblica e della Costituzione.
Viene compiuta in quegli anni in Italia una rivoluzione delle leggi, che reca in grembo un'altra visione del soggetto umano in un percorso di liberazione, statuisce il ripudio della guerra d'aggressione, colloca in una nuova prospettiva i diritti del lavoratore e fissa una scala di principi liberanti che riguardano la vita privata e pubblica, prima di tutto la vita delle donne. Questa nuova prospettiva presto, quasi fulmineamente, venne di fatto negata e ferita pesantemente dal patto di De Gasperi con gli americani, con le implicazioni cogenti che si ricordano.
Furono per l'Italia i tragici e cruenti anni Quaranta - al tempo stesso terribili e sconvolgenti. Al loro spegnersi la repressione clerico-americana parve cancellare tutto (o molto) delle promesse democratiche con il ricatto della fame e le repressioni sanguinose della polizia. Ma l'evento della guerra e della Resistenza, e l'innovazione sociale che aveva accompagnato la ricostruzione, erano troppo grandi perché non incidessero nel corpo della nazione, e all'inizio degli anni Sessanta non mettessero in subbuglio il paese.
Cominciò anche il confronto sulle letture del cambiamento.
Il dibattito pubblico era cominciato già nel '62, quando Trentin presentò al dibattito una lettura aggiornata e puntuale dell'avanzata del fordismo dalla sponda americana. Amendola in verità non respingeva apertamente la lettura di Trentin, e tuttavia aveva in mente un'arretratezza del capitalismo italiano e guardava, in fondo, a una modernizzazione. Alla Conferenza operaia di Genova - in aperta polemica con l'iniziale impostazione di Barca - aveva agitato l'immagine dei `soldoni', cioè del salario nel senso più asciuttamente quantitativo. O almeno - noi antiamendoliani - tendevamo a leggerlo così, per sottolineare la ristrettezza di quella prospettiva, quando ormai nelle fabbriche e nelle piazze emergeva con virulenza una protesta che riguardava l'aspro insieme della condizione proletaria. E poi gli `ingraiani' - difatti, ormai si chiamavano così - sollevavano più largamente il problema del `modello di sviluppo': in fondo il tema di una riforma di potere nei luoghi di produzione e di una capacità di incidere `sul sistema'. Avanzavano i tumultuosi anni Sessanta, e si accendeva con fasi alterne lo scontro nella fabbrica fordista. E nel partito si scaldava e maturava la domanda del confronto.
Quando, all'XI Congresso, all'Eur - poteva essere mezzogiorno - dalla tribuna dissi con una lunga perifrasi che sul `diritto al dissenso' il compagno Longo non mi aveva convinto, nella sala si scatenò un uragano di applausi. Non erano per nulla tutti `ingraiani': speravano in un esito che salvasse contemporaneamente la liceità del confronto e l'unità del partito.
Non fu così. Due ore dopo, in Commissione politica, si scatenò l'attacco aspro agli `ingraiani'. Stranamente il primo a partire fu una persona mite (o così sembrava): Franco Calamandrei. Il più sottile fu Laconi, che non negò fondamento alla questione del dissenso pubblico, ma chiese come mai essa non era stata vagliata, in modo debito, nella struttura dirigente del partito: era quello nel rito il valico legittimante che si era chiamati a passare.
Poi venne il diluvio contro l'`ingraismo', in Commissione politica e al Congresso. Alla fine mi salvai per un pelo (ma era salvezza?) dall'esclusione dalla direzione del partito, proposta duramente da Alicata.
Gli altri `ingraiani' furono disseminati in punizione per l'Italia. Pintor fu spedito in Sardegna: come a dire: zappa e vanga, fa vedere qui quello che sei, tu, comunista arrabbiato. Erano i tempi in cui leggevamo - riscoperti - i Grundrisse e io faticosamente venivo scoprendo quanto più complicata era la trama sociale nelle periferie milanesi, che avevo conosciuto sotto le bombe degli Alleati, e nella difficile Torino. Il mio errore - assai pesante - venne dopo.

Fermati un momento. Dopo l'XI Congresso gli ingraiani furono mandati in punizione. Ma Ingrao, lui, che fece dopo le frustate? Che facevi con i Grundrisse come baedeker nei paesi dell'Umbria e nelle periferie operaie di Terni?

Intanto continuavo a dirigere il gruppo parlamentare comunista alla Camera. Avevo scelto io - già dalla fine degli anni Cinquanta - di andare a quel curioso luogo di lavoro; forse con una certa sorpresa di molti, amici e no: perché il `posto' in segreteria allora era considerato il massimo degli `onori' comunisti, più esattamente il luogo di potere dove si assumevano le decisioni più importanti: quasi si decideva l'essenziale della vita del partito.
Ma Botteghe Oscure - scusa il termine irriverente - era anche un enorme cortile, e insieme il luogo dove stavano le stanze delle decisioni. E là ogni giorno - soprattutto ogni mattina - si disponeva di molte cose che orientavano non solo le gerarchie, ma fissavano gli orientamenti politici reali, e molte delle scelte che poi camminavano e pulsavano nella vita di milioni (tanti erano!) di militanti. In quel gioco di stanze, e intreccio di colloqui, di consigli e di scelte, io non mi ci ritrovavo per nulla: non avevo né lo scintillio di Pajetta, né la decisione secca di Amendola, né le accortezze e le prudenze di alcuni degli stretti consiglieri di Togliatti.
E poi mi piacevano il confronto con l'avversario, e anche il dialogo, e la stessa - lasciamela chiamare così - `retorica' assemblearista. Perciò con qualche sorpresa generale, da Botteghe Oscure andai a Montecitorio. Altro mondo e altri linguaggi. E ci rimasi a lungo.
In fondo - se ci rifletti un momento - inseguivo una mia idea `collegiale' della politica, e soprattutto un mitico rapporto - mi affascinava tanto! - tra assemblea e popolo: anche tra assemblea comunale (e poi regionale) e popolo.

Ma tra il '66 e il '68 tu, in sostanza, perdi il collegamento reale con i tuoi amici cosiddetti `ingraiani'. Come avviene?

In sostanza sì. Tutto un nucleo di intellettuali militanti - da Rossanda a Magri, a Luigi, ad Aldo Natoli, a Valentino Parlato, e altri ancora - vivono una stagione esaltante, di scoperta politico-culturale, trascinati dalle accensioni e - molto - dalle ricerche culturali, alte e rischiose, che scuotevano allora la cultura della sinistra euroccidentale.
E quegli amici dell'XI fanno un gruppo - o, se ti piace, una frazione, che presto dalla battaglia dei libri (ricordi i testi Rossana, di Magri, quelli più lontani di Tronti, e tutta l'eredità di Panzieri, e l'eclettismo o, se vuoi, l'ambiguità di Quaderni Piacentini …) brucia dall'ansia di incidere nella sfera delle lotte reali di classe. E ciò proprio mentre, vicinissima - ma con quale forza autonoma- procede nella sua prova clamorosa e vincente il blocco della Fiom, che ha il suo centro nel gruppo famoso Trentin-Carniti-Benvenuto. Da Trentin io, per tutti quei turbinosi anni Sessanta, ebbi un lume prezioso e un aiuto paziente nel `leggere' non solo strettamente il conflitto sindacale dei metalmeccanici, ma quella ideologia dei diritti umani che si allargava dalla tutela della salute a quella rivendicazione così allusiva del guidare i metalmeccanici fra i banchi della scuola, e metter in mano a loro i libri.
Tale fu il `disordine' vasto che scuote l'Italia fine anni Sessanta, si dilata nei reparti della fabbrica fordista e nella cultura del tempo fino a giungere anche nella vita sociale più derelitta (i manicomi). Perché sorprendersi poi se quell'avanguardia intellettuale comunista fissò i suoi occhi anche nel `partito' e domandò il confronto e aprì una lotta?
Qui agì il mio errore pesante, e a suo modo misero. Io mantenevo ancora un contatto stretto con i miei compagni di lotta dell'XI, anche se avvertivo una divergenza nella valutazione degli eventi, prima ancora che nelle tattiche.
I compagni del «Manifesto» avevano messo in campo - e Rossana lo racconta limpidamente qui a fianco - un mensile: singolare anche, e coraggioso. Non capii bene se essi avessero misurato fino in fondo le conseguenze dell'iniziativa. Ma nonostante le mezze parole, le concessioni vaghe, le espressioni turbate o compunte di via Botteghe Oscure - dove Berlinguer già era insediato praticamente come segretario - io ero convinto che il gruppo dirigente quegli eretici del «Manifesto» li avrebbe espulsi dal partito. Lo dissi brutalmente e tenacemente ai miei amici.
Il mio errore grave fu nello schierarmi: quando - giunti allo scontro in Comitato centrale votai a favore della radiazione del gruppo del «Manifesto»: e - a guardarlo oggi da lontano - nulla davvero mi costringeva a quel gesto di capitolazione. Agì qualcosa di profondo: l'idea di una politica non solo concentrata rigidamente, nelle sue scelte fondamentali, in un ristretto gruppo dirigente, ma vista come blocco compatto, che non sopportava la divergenza e chiedeva agli adepti il riconoscimento pubblico della sua santità. Un tale `errore' non poteva durare. Per Botteghe Oscure doveva essere confutato pubblicamente: altrimenti sorgeva una minaccia per la causa. Qui pesava duramente tutta l'eredità - non cancellata -, tutta la tragica tradizione del leninismo-stalinismo (ambedue), che pure confliggeva clamorosamente con la ricchezza dissonante del movimento operaio di due secoli.
E, per essere chiari, l'errore mio profondo non stava solo e soltanto in quell'accodamento repressivo, ma in una radice più lontana: nell'accettare quella negazione del confronto libero delle differenze, quel bisogno del dibattito pubblico e riconosciuto sui dilemmi e sulle alternative di una rivoluzione sociale. Qui il mio errore fu profondo La costruzione (ardua) di un soggetto sociale alternativo e durevole non poteva svolgersi e sostenersi senza il confronto e l'urto che si esprime attraverso lo spirito di `frazione': giusta, sacrosanta parola - ora lo vedo - che segna sempre la costruzione di un'ipotesi dichiarata di `progetto sociale', e quindi di una ricerca che per essere feconda deve dichiararsi. E del resto partito e frazioni non potevano essere dissociabili l'uno dall'altro senza sfociare in soggettività repressive o mummificate.
Perciò il mio errore aveva radici profonde: indicava un grave limite storico, e tutta la pesantezza, distruttivo-repressiva, che in un mondo politico ricco di inventiva, come era quello del comunismo italiano, aveva assunto il retaggio del leninismo-stalinismo.

Ma votando contro la radiazione del «Manifesto» non saresti finito fuori dal partito anche tu?


Non credo. Altri non votarono la radiazione e restarono nel famoso e tormentato PCI. Mi mancarono allora coraggio e immaginazione.
I miei ex compagni del «Manifesto» invece questa l'avevano e Pintor diede molto nell'affermarsi clamoroso di quel foglio, perché nei suoi interventi, nei suoi famosi editoriali, aveva una capacità straordinaria di intrecciare la notazione quotidiana, quasi di cronaca (persino vicino all'ovvio!) e poi lo scatto del pensiero generale, che scavalcava anche la strettoia politica, per evocare una condizione umana.
Questo fu suo: questo incrocio tra la notazione del vissuto banale e la rappresentazione del nocciolo generale.

Hai scritto che era un «eversore». Perché?


Perché mi sembrava avesse dentro il suo guscio un dubbio sull'ordine, o meglio sull'architettura delle cose. Nei suoi romanzi - o memorie? - ci sono a un tratto come delle `sentenze' (nel doppio senso: di moralità generali o decisioni sovrane e fatali prese non si sa dove) in cui il seguito delle parole si asciuga: si restringe a `massima' sapienziale o addirittura a ghiaccia constatazione. Non ho mai compreso bene come uno che si portasse all'interno quel livello di dubbio avesse poi il gusto così forte dell'intervento battente sul giornale, della presenza persino quotidiana nell'arena di lotta. Detto assai sottovoce: sembra difficile immaginare come abbia potuto addormentarsi nella morte.
È perché mi sembrava che avesse una potente passione per l'agorà. Forse oggi respingerebbe questo nome: ma era un uomo pubblico.
Alcune volte l'ho visto in mezzo alla sua gente, alla sua parte. Mi pareva che mutasse volto. Si abbandonava al contatto umano, stavo per dire alla sua corrente, al mondo (posso dire: indisciplinato?) che l'amava in modo struggente. Era come se avesse bisogno di dare spazio al suo estro politico, a una relazione che non fosse fabbricata solo con il metro e con gli indici Dow Jones.
Del resto adesso lascio stare Pintor: è figura troppo asimmetrica, troppo singolare nella sua combinazione di talento e di passioni, di pamphlettista e di romanziere, di minoritario per tendenza e pure così `kantiano', da essere in alcuni passaggi dei suoi libri persino gnomico.

Prima però ti interrompo io, con una domanda un po' rozza. Tu e Pintor siete molto diversi. Dove sta la differenza? E tutti e due siete stati ostinatamente militanti.

Sarei tentato di risponderti con una risposta `geografica'. Io sono uomo di monti abbastanza brulli elevati su una costa pingue, anfrattuosa, esposta alle incursioni di saraceni, normanni, aragonesi, austriaci e giù di lì. Luigi è nato in un'isola, che ha - come dire?- le sue stimmate nel Mediterraneo, ed è - lui - di casato nobile. Stirpe di generali, custodi delle sacre corti.
Io quando s'è rotta le gambe - palesemente - la `giraffa' comunista italiana sono andato a frugare in Europa: ancora sul `modello di sviluppo' e su una organizzazione strutturata di classe, capace però di poggiare su sistemi di rappresentanza politico-sociale multipla e progressiva: sempre con l'assillo di incidere sulla trama complessa dei poteri politici (nazionali e sovranazionali) in cui si articola e agisce il nucleo dominante del capitalismo mondiale. Una lettura - diciamo così - puramente `economico-classista' non è mai riuscita a entrare nella mia zucca. Qui io resto incollato persino a una lettura elementare del `gramscismo'. E ancora oggi mi stringe l'assillo dei luoghi politici (o - se si vuole - economico-politici) in cui far passare una strategia opposta a quella dell'impero americano: per essere sincero, sempre con una forte riserva sulla legittimità delle regole, e sulla validità dei codici che io stesso, in Italia, ho contribuito indefessamente a costruire. Per giudici e regole non ho patito mai idolatrie. Li accetto, li riconosco, perché non so andare oltre. In fondo anche mio nonno garibaldino fu un siciliano che non riuscì ad andare oltre Roma. Infine, per me, agisce la persuasione che le regole sono espedienti approssimativi rispetto all'indicibile dell'accadere e oscillare umano. Certo: alla fin fine mi sono adattato e mi adatto. In questa visione tutto sommato abbastanza precaria delle cose, il dubbio è vitale: e quindi conta avere bene a mente che ci muoviamo per approssimazioni assai sommarie. Perciò la poesia è la scienza più esatta.
Ecco perché il mio errore - di me che penso, al fondo, in questo modo - risultava clamoroso quando in quel 1969 cedevo nientemeno che al `centralismo democratico', e abbandonavo la necessità essenziale del confronto e del dubbio.
Lì moriva anche la mia curiosità di persona: quella domanda perenne che è la passione più grande che mi sono trascinata nella giornata. La domanda, guardando la strada: chi sei tu che sfili per il viale della città? Che cerchi, che vuoi, ora che guardi per aria? E che si dicono quei quattro stravaccati sulla panchina? Può essere questa l'ora migliore per origliare le vostre risposte, stante il chiasso che fanno le televisioni?

intervista da La Rivista del Manifesto, luglio-agosto 2003