Walter Veltroni

Incompatibili comunismo e libertà


Vale la pera pubblicare (1999) questo florilegio anticomunista (le evidenziazioni sono nostre) non tanto per le argomentazioni che svolge - alcune delle quali anche sensate - quanto perchè l'autore non è un uomo di destra, ma, addirittura, colui che è stato il Segretario del partito nato dalle ceneri del PCI e che ha partorito il Partito Democratico.
In Italia l'anticomunismo ha conosciuto figure importanti, intellettualmente di grande rilievo (da Salvemini a Croce, da Matteotti a Saragat, da Montanelli a Guareschi), ma annovera tra le sue fila anche personaggi minori, faccendieri, e, naturalmente, tanti voltagabbana: particolarmente fastidiosi risultano coloro i quali sono stati comunisti fedeli e disciplinati (pure troppo...) e che magari - come si diceva ironicamente - si sono iscritti direttamente alla Direzione del Partito. Buona parte del gruppo dirigente dei DS, insomma: fino a ieri allievi diligenti di Togliatti e Berlinguer, oggi a raccontarci la favola che loro erano socialdemocratici da sempre. Che tristezza...
Certo, chi ascoltasse Veltroni parlare ne ricaverebbe l'impressione di una persona a modo, simpatica, ragionevole, ma che dire di un individuo che sostiene di non essere mai stato veramente comunista quando fu nientemeno che il responsabile dell'Ufficio Stampa e Propaganda del PCI?!
Spregevole
è l'unica parola appropriata.




Su "La Stampa" del 15 ottobre '99, Gianni Riotta scrive: "È arrivato il momento di riconoscere che la rivoluzione russa non fu un successo tradito, ma lo stravolgimento di tanti nobili ideali". Riotta ci chiede di riconoscerci in questa affermazione. Lo faccio volentieri e sinceramente. Ma l’ho già fatto, nella mozione che ho presentato per il prossimo, primo congresso dei Democratici di sinistra. Il secolo che muore, il Novecento, viene in quel documento definito come "il secolo del sangue. Il secolo in cui degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli Ebrei. Il secolo di Auschwitz, delle vittime delle persecuzioni del nazismo. È il secolo della tragedia del comunismo, di Ian Palach, dei gulag, degli orrori dello stalinismo". Lo stalinismo come il nazismo, i gulag e Auschwitz, il comunismo come tragedia del Novecento. Cosa si può dire di più netto e chiaro?

Né si tratta solo di giudizi retrospettivi. Parlando alla festa nazionale dell’Unità, a Modena, davanti al popolo diessino con le sue bandiere e i suoi striscioni, dicevo che "il secolo che si sta concludendo ci ha insegnato, in modo tragicamente chiaro, che giustizia e libertà sono due valori inscindibili: non può esserci vera libertà dove non c'è giustizia; e non può esserci vera giustizia senza libertà, senza democrazia, senza rispetto rigoroso e integrale dei diritti umani. Lo abbiamo detto più volte in questi mesi, a voce sempre più alta, senza guardare alla lingua, alla religione, o al colore delle bandiere dei nostri interlocutori". E citavo la Birmania e Cuba, la Turchia e la Serbia, Timor Est e la Cina, definendo lo sconosciuto ragazzo di Piazza Tien-An-Men, che ebbe il coraggio di pararsi da solo e inerme davanti ad una colonna di carriarmati, come "il simbolo del migliore Novecento".

Ma Riotta va oltre e ci chiede di "sciogliere il legame con la politica di tutto il PCI". Noi abbiamo fatto di più. Abbiamo sciolto il PCI. Lo abbiamo fatto dieci anni fa, con la svolta di Occhetto. Con uno strappo violento. Non solo con una drammatica scissione politica, ma attraversando un percorso di dolore umano autentico, mettendo in discussione biografie individuali e collettive e allo stesso tempo provando un senso di liberazione. Dicemmo, noi che avevamo poco più di trent’anni, che una storia, grande e tragica, era finita, per sempre. Tra noi c’erano, e ci sono, idee diverse sulla velocità e il senso di marcia di quel cambiamento. Tuttavia quella storia finì.

Il PCI che ho conosciuto era una strana creatura. Principale partito della sinistra, ha raggiunto il trentacinque per cento, senza mai governare. Era un luogo nel quale potevano convivere i comunisti con gli iscritti e gli elettori del PCI. Non erano tutti la stessa cosa. Quanti erano, nel trentacinque per cento di elettori del ’76, quanti anche tra i dirigenti, coloro che credevano alla ideologia comunista, al socialismo realizzato, al partito unico, alla dittatura del proletariato, alle nazionalizzazioni, al patto di Varsavia? Quanti? Non era il PCI di Berlinguer, anche, il luogo nel quale si ritrovava una riserva di energie ideali e morali di una società civile democratica che non amava chi era, da tanti anni, al potere in Italia?

Ci si guardi intorno, ci si guardi all’interno. Quanti di coloro che scrivono sui giornali, che insegnano all’università, che producono, hanno votato il PCI in quegli anni? Errori giovanili? Un abbaglio collettivo?

Si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile, è stato così. Tuttavia era una contraddizione. Perché quel PCI solo allora, dopo la Cecoslovacchia, cominciò a fare i conti con fatica con la realtà del socialismo realizzato. E più da esso si allontanava, più la contraddizione si faceva esplosiva. Noi trentenni "finimmo" la storia del PCI, perché la contraddizione era diventata insostenibile. In primo luogo per noi, per una generazione che aveva l’Urss come avversario e la democrazia occidentale nel Dna, nel vissuto, nella formazione culturale. Io ero ragazzo, negli anni Settanta, ma pensavo che avesse ragione Ian Palach e non i carri armati dell’invasione sovietica. Io ero ragazzo, allora, ma consideravo Breznev un avversario, la sua dittatura un nemico da abbattere. Ci sembrava che Berlinguer facesse, in quel tempo, cose coraggiose. Tutti i giornali italiani "aprirono" a nove colonne quando Berlinguer disse al congresso del Pcus che "La democrazia è un valore universale". Sembrò a tutti che la dichiarazione della preferenza per la Nato del ’76 fosse uno straordinario atto di coraggio politico. In quei tempi lo era. Come le carte del Kgb contro Berlinguer dimostrano.

Ma il PCI e la sua storia erano stati altro. Erano stati le lacrime per Stalin e l’appoggio alla repressione della rivolta di Ungheria. Era stato il linciaggio politico di Giuseppe Di Vittorio in una Direzione, quella del ’56, la cui lettura degli atti provoca brividi lungo la schiena.

Comunismo e libertà sono stati incompatibili, questa è stata la grande tragedia europea del dopo Auschwitz.

E se oggi dovessi guardare alle idee che hanno attraversato la storia della sinistra italiana di questo secolo dovrei, in cerca di culture ancora feconde, comporre un mosaico complesso: Gobetti, Rosselli, Gramsci, Spinelli, Colorni, Ernesto Rossi, Lombardi, Parri, Dossetti, don Milani. Esperienze diverse, spesso conflittuali tra loro, certo. Ma sono i filoni di pensiero che hanno mostrato di essere tanto vivi da attraversare il ventre del Novecento e giungere fin qui.

Una settimana fa, su queste colonne, Barbara Spinelli ci chiedeva di prendere atto che la sinistra italiana non è nata nell’Ottantanove. Ha ragione. Culturalmente è vero.

Ma politicamente la sinistra italiana di oggi nasce dalla fine del PCI, della sua contraddizione interna. Dal dissolversi di quello che Riotta chiama "lo spettro dell’Urss", che "ha impedito, per un secolo, alla sinistra italiana di crescere libera e maggioritaria". Dal liberarsi di energie che hanno consentito ciò che non era mai successo: che le culture riformiste si incontrassero, contaminassero, unissero.

Concludendo la sua celebre storia del Novecento, "Il secolo breve", Eric Hobsbawm osserva, non senza angoscia, che noi uomini e donne di questa fine secolo "non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto e sappiamo anche perché. Una cosa però ci è chiara. Se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. È il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa a una società cambiata, è il buio".

So bene che l’ombra del comunismo continuerà a pesare a lungo, come un’ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana.

Ma so anche che si tratta di un’ombra che nessuna nuova parola, detta o scritta, può dissolvere completamente. Solo il tempo potrà farlo. Un tempo nel quale la politica, anche la politica dei Ds, deve sforzarsi di fare i conti con la propria innovazione culturale e con le grandi sfide del domani: se non vogliamo che l’ombra del passato si tocchi, fino a confondersi, col buio del futuro.

La Stampa, 16 ottobre '99

Adalberto Minucci

Le tesi di Veltroni su comunismo e libertà sono incompatibili con la verità


L
’ormai celebre frase di Walter Veltroni, pubblicata sulla Stampa del 16 ottobre scorso: «Comunismo e libertà sono stati incompatibili», accoglie senza batter ciglio il luogo comune della propaganda di destra, secondo cui è esistito un solo «comunismo», quello dell’URSS.

Riferita all’Italia è una affermazione che può far trasecolare anche il democratico più alieno da simpatie per il PCI: un qualsiasi cittadino italiano che abbia un minimo di conoscenza delle lotte per la libertà in questo paese.

È possibile che Veltroni non abbia più la lucidità per valutare che cosa hanno significato per la libertà degli italiani la Resistenza al nazifascismo, la conquista della Repubblica e della Costituzione democratica, le lunghe lotte per imporne 1’attuazione contro chi voleva affossarla, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il divorzio, i grandi movimenti per la pace e contro il terrorismo? E anche, non dimentichiamolo, le battaglie contro le censure di Stato al cinema, al teatro, all’insegnamento scolastico, all’arte in genere.

Naturalmente è giusto non addossare tutte le responsabilità dei tentativi di involuzione vissuti dal paese nei decenni passati alla Dc e ai suoi alleati di governo, e riconoscere a uomini e gruppi del mondo cattolico e democratico il merito di aver avuto una parte nella difesa della democrazia. Ma nessuno può ignorare - o fingere di dimenticare - che proprio i comunisti italiani hanno dato un contributo essenziale alla libertà e, mi si lasci dire, alla civiltà del paese.

Ma Veltroni può citare una sola occasione, un solo caso, in cui il PCI abbia gravemente attentato e colpito la libertà degli italiani? Probabilmente dopo attente ricerche, egli cita tre casi nostrani: le «lacrime per Stalin», l’accettazione dell’invasione di Budapest e una drammatica riunione della Direzione su Di Vittorio.

Per Stalin, molte lacrime furono versate per l’ancor recente ricordo di Stalingrado. Ma molti ragazzi della mia generazione, iscrittisi al PCI poco prima della morte, non piansero affatto: in qualche modo, per letture o testimonianze, avevano già molti dubbi su quel sistema di potere e scelsero il partito che difendeva i lavoratori e le libertà in Italia, e l’idea togliattiana della «democrazia progressista». Quanto alla posizione sull’Ungheria, fu certamente il prodotto di un condizionamento grave, che tuttavia aprì un dibattito drammatico nel quale molti di noi espressero posizioni apertamente critiche, secondo una logica che doveva portarci lontano: per esempio alla netta condanna dell’invasione di Praga e più tardi alla rottura sull’Afghanistan.

Se anche gli altri partiti avessero avuto reazioni analoghe di fronte alle decine di aggressioni a paesi indipendenti da parte degli Usa e della Nato, forse saremmo oggi a livelli di maggior civiltà. Infine il caso Di Vittorio. Voglio ricordare che discussioni e critiche assai aspre caratterizzarono anche altri casi di singoli dirigenti del partito: e tuttavia essi continuarono a mantenere posizioni di grande rispetto e un ruolo di primo piano negli organismi dirigenti.
 Ma allora, diciamolo, c’era una Direzione vera, che sapeva discutere, litigare e decidere. Oggi, in tempi di leaderismo, le «decisioni» vengono prese altrove e in altri modi, come dimostra anche questa sortita del segretario dei Ds.

Detto questo, non c’è dubbio che l’affermazione di Veltroni rappresenta la fine di un gioco a carte truccate che i sostenitori della «svolta», i nuovisti, i fondatori di nuove sigle e nuove Cose, hanno portato avanti (seppure con sempre minor convinzione) sino ad oggi. Un po’ banalmente, si potrebbe dire che il gioco è consistito nel tirare il sasso e nascondere la mano. Si ricorderà che, subito dopo la Bolognina, molti di noi rivolgevano a Occhetto e ai suoi seguaci la critica di voler «sciogliere» il PCI. Apriti cielo! Furono accusati di perfidia, di voler spingere militanti ed elettori all’abbandono. Più tardi, su altre questioni (il ruolo di Togliatti, o dello stesso Berlinguer), si è ripetuto lo stesso tira e molla.

Ora il discorso di Veltroni pone fine a ogni possibilità di equivoco. Ed è quasi patetica l’Unità che, in un estremo tentativo di continuare il gioco, intitola il proprio editoriale: «La nostra storia - cosa lasciare, cosa no».

Temo che questa volta si sia lasciato tutto.

A favore del disimpegno, se l’impegno dei comunisti italiani non crescere sino a riempire il vuoto.

ma anche...

video

   
   

un piccolo aggiornamento (marzo 2014):

il suddetto signore, sempre vestito comme il faut, ha girato/curato un film su Enrico Berlinguer. Addirittura se ne sente parlar bene. Mistero della fede.