Letteratura e Resistenza


VITTORINI

La struttura di Uomini e no è piuttosto complessa: si svolge su due piani resi tipograficamente con la distinzione tra capitoli in tondo e capitoli in corsivo. I primi hanno come protagonista Enne 2, i secondi un fantomatico Io che incarna l'autore, il partigiano Enne 2, l'Uomo e noi pensiamo - scrive Vittorini - a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all'offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e ch'era, in lui, per renderlo felice. Questo è l'uomo. (Cfr. E. Vittorini, Uomini e no, Milano, Oscar Mondadori, 1996, p. 174)

I capitoli in tondo portano avanti il racconto mentre i capitoli in corsivo propongono la sua trasposizione lirica. Pochissime sono le descrizioni presenti nel libro, quasi interamente occupato dal dialogo, ripetitivo, monotono, a tratti ossessivo.

La narrazione non riguarda tanto gli episodi di lotta resistenziale per le strade di Milano durante l'inverno del 1944, quanto la storia di un grande amore, come direbbe Giacomo Noventa, quello fra Enne 2 e Berta. È la storia della cosa che c'è da dieci anni tra una donna e lui (Enne 2), e appena sono solo nella mia camera, - spiega Vittorini - steso sul mio letto, il mio pensiero va a lui, e mi tocca alzarmi e correre da lui. (Ivi, p. 26).
Ma è necessario procedere per gradi e chiarire, per primo, il problema del protagonista: Falaschi sostiene che il narratore si insinua nel romanzo fino a confondersi con il protagonista (Cfr. La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit.), mentre Noventa parla di uomo vecchio e uomo nuovo che Vittorini vuole conciliare affinché non rivelino i loro tratti così discordanti da risultare incompatibili. Perciò Enne 2 e Io scrivono ognuno i loro pensieri nel quaderno dell'altro: li stampano ognuno nel carattere di stampa riservato all'altro: assumono ognuno il nome dell'altro: e - sostiene Noventa - un nuovo personaggio e un nuovo scrittore, si fa strada nel libro, che è poi quello che scriverà la nota finale del libro, che noi credevamo l'autore, e che sotto il nome di E. V. non parteggerà per Enne 2 né per Io. (Cfr. G. Noventa, Il grande amore in "Uomini e no" di Elio Vittorini e in altri uomini e libri, Milano, All'insegna del Pesce d'Oro, 1969, p. 25. La Nota dell'Autore cui si riferisce Noventa compariva nella prima e nella seconda edizione del romanzo, ma con la terza edizione è stata definitivamente soppressa.)

Entrambe le analisi sono piuttosto interessanti: quella di Falaschi è più facilmente condivisibile, quella di Noventa più fantasiosa e in qualche modo forzata. Servono comunque a chiarire i diversi livelli sui quali la narrazione si sviluppa. Da una parte c'è il tempo normale degli eventi di guerra che si consumano lungo le vie di Milano, i cui nomi tornano in modo ricorrente e quasi ossessivo: corso Sempione, piazza delle Cinque Giornate, Largo Augusto. Dall'altra parte ci sono il tempo interiorizzato e i luoghi irreali dove si sviluppa il rapporto fra Enne 2 e Berta: non è importante che Berta sia appena scesa dal tram e salga sulla canna della bicicletta di Enne 2, che corrano per le vie di Milano o siano nella stanza di lui, insieme devono combattere una guerra interiore contro le loro volontà, i loro desideri. Cercano di rifugiarsi in un tempo immaginario che superi la loro differenza d'età, e la loro diversa condizione: Enne 2 è libero, mentre Berta ha un marito. Non posso stare con te - dice Berta - e poi essere anche di quell'uomo (Cfr. Uomini e no, cit. p. 17), in questa semplice frase si consuma il loro dramma, nell'onestà di lei che vorrebbe parlare al marito, ma non riesce a farlo e per questo non può stare con Enne 2, di cui si è innamorata dopo il matrimonio. Questa serietà della vita (Cfr. F. Fortini, Rileggendo "Uomini e no", Berta, Enne due e Giacomo Noventa in "Il Ponte", 31 luglio - 31 agosto 1973, p. 984) di Berta impedisce ai due di essere felici e in qualche modo vanifica gli sforzi compiuti durante la lotta: Presuntuosi siete voi. - sostiene la vecchia Selva - Volete lavorare per la felicità della gente, e non sapete che cosa occorre alla gente per essere felici. Potete lavorare senza essere felici? (Cfr. Uomini e no, cit. p. 15)

L'attentato al tribunale, l'uccisione di un ufficiale tedesco, i morti nel Parco, il giovane fatto sbranare dai cani, ogni azione acquista e insieme perde senso, per Enne 2 che, non potendo vivere l'amore con Berta, si lascia uccidere. Berta non è l'unica donna del romanzo, a lei si contrappone Lorena, che appaga fuggevolmente il desiderio di Enne 2, ma non rappresenta che uno sfogo, mentre la vecchia Selva che accudisce la casa sembra essere la voce della saggezza. Allo stesso modo, accanto al Grande Amore fra Enne 2 e Berta, Vittorini accenna ad altri amori, come quello di Coriolano che vorrebbe portare con s&eacutela sua famiglia cioè la sua donna, o quello di Orazio che ha una ragazza e la vorrebbe sposare. È così ancora più evidente la potenza dell'amore come ricerca di una sfera privata, intima nella quale trovare la forza per affrontare la dura realtà degli eventi.

In questo complesso romanzo la realtà è affiancata, secondo Falaschi, a momenti di non-realtà, che si identificano nel mancato possesso dei fenomeni (fatto simbolizzato dal vestito di Berta lasciato appeso nella stanza di Enne 2) o che si personificano nei fascisti, simbolo di non-realtà ideologica, mentre i gappisti incarnano la verità ideologica. Fascisti e gappisti si confrontano per le vie di Milano dando vita a uno spazio che - secondo Falaschi - consiste in relazioni tra corpi. I fascisti sono legati alle immagini della città distrutta, deserta, dove si muovono senza meta, mentre i partigiani, capaci di sfidare il coprifuoco per ricostruire la società divisa, rappresentano l'immagine positiva della città che cerca di rinascere. Vittorini non analizza l'organizzazione dei gappisti fra loro, ma lascia intendere che esiste una legge, un qualche principio astratto al quale fanno riferimento e questo giustifica la promessa: Imparerò meglio (Ivi, p. 219) fatta da un giovane operaio che non riesce ad uccidere un nemico. Il romanzo termina con queste parole, che rappresentano l'iniziazione di un giovane antifascista alla lotta, e non con la morte di Enne 2. Il finale è in linea con le idee maturate dagli intellettuali durante la Resistenza e cioè la convinzione della necessaria fine dell'intellettuale separato e quella- scrive Falaschi - di un corso precipitoso e inarrestabile degli eventi sul binario giusto (Cfr. La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit. pp. 93-94).

L'accoglienza riservata a Uomini e no è densa di critiche a cominciare da quelle di Calvino, che rimprovera a Vittorini il non aver fatto d'Enne 2 autobiografia sincera, ossia distaccata e partecipe insieme, ma esaltazione romantica, con tutta la sua disperata (e libresca e decadente) corsa alla morte. (Cfr. I. Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza, cit. p. 43) Paoluzi ritiene il romanzo sbagliato per due ragioni: per risentire ancora, prima di tutto, l'urto della polemica immediata, poiché la Resistenza era finita pochi mesi prima, e per riecheggiare, in secondo luogo, modi stilistici propri di un Dos Passos o del primo Faulkner. Ma - aggiunge - la sua validità è tutta nel fervore umano che lo anima, nella sostanza della narrazione densa di pathos e di accorata partecipazione. (Cfr. A. Paoluzi, La letteratura della Resistenza, Firenze, Edizioni 5 Lune,1956, p. 62)

Concludo con Asor Rosa che scrive: La Resistenza si presenta come la semplice occasione di un discorso, che ancora una volta trova le sue motivazioni al livello della cultura e della ricerca intellettuale. I motivi storici, politici e sociali del fenomeno restano in seconda linea. [...] Il fastidio nasce dalla constatazione che l'opera non è che un ibrido, approssimativo connubio di progressismo e di avanguardismo, di esclusivo, chiuso spirito borghese e di moralistiche aperture verso il popolo. [...] Di fronte a Uomini e no vien perfino voglia di difendere la Resistenza, nella sua matrice, qui tradita, genuinamente popolare. (Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Torino, Einaudi, 1965, pp. 164-165)


CALVINO

Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino ribalta completamente l'impostazione del romanzo vittoriniano sviluppandosi sul piano dell'oggettività. Nell'urgenza di raccontare l'esperienza partigiana, Calvino si rende conto che il punto di vista soggettivo non funziona, quindi decide di cambiare prospettiva, di affrontare il tema di scorcio e scopre il dono di scrivere oggettivo.

All'inizio non crede che il personaggio scelto, un ragazzetto partigiano conosciuto nelle bande, possa diventare il protagonista di un romanzo, ma presto si rende conto che Pin lo rappresenta quasi specularmente tanto che - spiega - il rapporto tra il personaggio del bambino Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m'ero trovato ad avere io. (Cfr. Prefazione, cit. p. 1199)
Calvino, quando entra a far parte delle Brigate Garibaldi e si trasferisce sulle Alpi Marittime, è giovanissimo. Il suo antifascismo è legato piuttosto all'educazione ricevuta in famiglia che a una convinzione politica maturata personalmente e, anche se scrive Il sentiero dei nidi di ragno dopo aver militato nel partito comunista e collaborato a diverse testate giornalistiche, fra le quali &quotL'Unità", non può avere la stessa sofferta coscienza intellettuale di Vittorini o di Pavese, più maturi e, direi, più vissuti di lui. Questa è la tesi di Cristina Benussi nella sua Introduzione a Calvino (Roma-Bari, Laterza, 1989), mentre Falaschi, in quel saggio fondamentale più volte citato, si dice convinto che la distanza creata dall'autore fra la propria coscienza e la storia derivi non tanto dal suo esser stato comunque un borghese fattosi partigiano, ma dall'aver vissuto soltanto un aspetto della Resistenza che nel romanzo si propone di rappresentare nella sua interezza. È il problema del rapporto tra scrittore e popolo che Calvino riesce a superare perché, anche se borghese, ha fatto la Resistenza in mezzo a proletari, sottoproletari e studenti, esperienza della quale deve piuttosto spiegare le motivazioni.

Lasciandosi guidare da maestri quali Vittorini, Pavese, al quale fa leggere sempre ciò che scrive, e dagli autori stranieri sopra ricordati, Calvino racconta la storia di Pin. Si tratta di un bambino che vive il periodo della Resistenza, ma che deve confrontarsi prima con la Storia, con il mondo degli adulti: È triste essere come lui, un bambino nel mondo dei grandi, sempre un bambino - spiega Calvino nell'ultimo capitolo - trattato dai grandi come qualcosa di divertente e di noioso; e non poter usare quelle loro cose misteriose ed eccitanti, armi e donne, non potere mai far parte dei loro giochi. (Cfr. Sentiero, in I. Calvino, Romanzi e racconti, cit. p. 139) In queste parole sono sintetizzati tutti i temi affrontati nel romanzo: Pin spaesato dentro una realtà che non riesce a comprendere fino in fondo, ma che tente di avvicinare in modo spavaldo, cercando amici e compiendo azioni rischiose. Il furto della pistola P. 38 al tedesco che si intrattiene con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, è una sfida incosciente, compiuta per farsi accettare fra i grandi che lo deludono, costringendolo a rifugiarsi fra i suoi nidi di ragno. La pistola sarà, in qualche modo il filo conduttore della narrazione, come le donne, l'altra faccia del mondo dei grandi. Pin conosce fin troppo bene le donne (anche se non riesce a comprenderle) tanto che le utilizza come griglia per giudicare gli amici.

Emblematico è il finale del romanzo che riporta un dialogo fra Pin e Cugino, un partigiano che si rivela essere il Grande Amico. Chieste a Pin notizie della Nera di Carrugio Lungo, Cugino si dirige dalla donna, ma non si ferma con lei, anzi schifato ritorna dal bambino. Pin si fida ormai completamente e tiene la sua mano in quella soffice e calma del Cugino, in quella gran mano di pane (Ivi, p. 147) e insieme parlano della sola donna che è stata capace di infondere loro amore, la madre per Cugino, la mamma per Pin. Falaschi nota in questo la necessityà per Pin di vincere la sofferenza che la vita gli riserva proiettando le cose a distanza nel ricordo del passato e nella speranza per il futuro.

Calvino sviluppa la storia di Pin in tre momenti fondamentali: il furto della pistola, la breve permanenza in carcere, l'esperienza di vita non da partigiano, ma fra i partigiani. Pin effettivamente non capisce appieno quanto sta accadendo intorno a lui tanto che, parlando in carcere con Lupo Rosso, pensa: Un'altra parola misteriosa: sim! gap! Chissà quante parole così ci saranno: a Pin - spiega Calvino - piacerebbe saperle tutte. (Ivi, p. 35) La Resistenza, qualcosa di misterioso che, per Pin si identifica con persone dai nomi strani: Lupo Rosso, Cugino, Dritto, Mancino, Giglia, Pelle. Questi personaggi, dei quali non viene scandagliata la psicolagia, ma vengono descritti rapidamente sfruttando qualche particolare caratterizzante, tratto comune a tutta la letteratura sulla Resistenza, non sono nuovi per Calvino, che li ha già utilizzati per tre racconti, scritti nel 1945, a caldo, ma che saranno pubblicati soltanto nel 1949, nella raccolta dal titolo Ultimo viene il corvo: La stessa cosa del sangue, Attesa della morte in albergo, Angoscia in caserma.

Alcuni personaggi vengono semplicemente riproposti, come il traditore Pelle che si chiamava Pelle di biscia, altri vengono rimaneggiati come il Dritto che, sempre capobanda, aveva un nome diverso, Giglio e - spiega Benussi - durante il bombardamento sulla città, sperava di veder uccisi soltanto i fascisti, mentre nel Sentiero il desiderio di morte è esteso a tutti.

La narrazione viene portata avanti attraverso racconti brevi, che rappresentano le tappe della Storia che Calvino vuole illustrare. È il lavoro di uno scrittore artigiano che cerca di saldare insieme epica e poema nazionale per proporre un'epica nuova che nasca dall'esperienza popolare, come spiega molto chiaramente Falaschi, dopo aver riletto i due articoli di Calvino, Anderson scrittore artigiano e Omero antimilitarista, apparsi su &quotL'Unità" rispettivamente il 30 novembre 1947 e il 15 novembre 1946.

Un'altra notazione interessante è che il Sentiero, propone continuamente l'azione che - sostiene Benussi - viene piuttosto raccontata che vissuta, ad esempio nel momento in cui Pin si dirige all'osteria, subito dopo aver rubato la pistola, e pensa al modo più efficace e sorprendente per dare la notizia. Tante azioni che si susseguono, legate insieme dalla figura di Pin che si muove sullo sfondo di un paesaggio che deve diventare secondario rispetto a qualcos'altro: a delle persone a delle storie. La Resistenza - scrive Calvino - rappresentò la fusione tra paesaggio e cose. (Cfr. Prefazione, cit. p. 1188) C'è, nel Sentiero, il paesaggio della Riviera di Ponente, quello dei vicoli della Città vecchia, quello dei vigneti e degli oliveti sulle terrazze coi muri a secco, quello delle mulattiere che portano ai boschi, quello che va dal mare alle valli tortuose delle Prealpi liguri, non descritto in sé ma con e attraverso gli uomini che vi sono immersi: è - come dice Falaschi - un paesaggio antropizzato. Basti, come esempio, l'incipit del capitolo VI: Per terra, sotto gli alberi del bosco, ci sono prati ispidi di ricci e stagni secchi pieni di foglie dure. A sera lame di nebbia si infiltrano tra i tronchi dei castagni e ne ammuffiscono i dorsi con le barbe rossicce dei muschi e i disegni celesti dei licheni. L'accampamento s'indovina prima d'arrivare, per il fumo che si leva sulle cime dei rami e il cantare d'un coro basso che cresce approfondendosi nel bosco. (Cfr. Sentiero, cit. p. 68)

La lingua utilizzata da Calvino è una lingua - dialetto [...] scrittura ineguale che ora quasi s'impreziosisce ora corre giù come vien viene badando solo alla resa immediata; un repertorio documentaristico (modi di dire popolari, canzoni) che arriva quasi al folklore... (Cfr. Prefazione, cit. pp. 1189-1190) Simili esempi di commistione fra italiano e dialetto sono presenti anche negli altri autori presi in considerazione, tutti preoccupati dell'immediatezza e della verosimiglianza della narrazione.

In mezzo alle numerose azioni che racconta, Calvino propone anche un momento di riflessione, il capitolo IX, dove si svolge - secondo Guagnini - un dibattito ideologico. Le due posizioni messe a confronto sono quelle del comandante Ferriera, un operaio nato in montagna, sempre freddo e limpido (Ivi, p.98) e del commissario Kim, uno studente che ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti, eppure la sua mente s'affolla a ogni istante d'interrogativi irrisolti. (Ibidem) Le due figure incarnano l'uno l'immagine dell'operaio concreto, del rivoluzionario motivato da ragioni di classe e tutto d'un pezzo l'altro - spiega Guagnini - la lucidità intellettuale, l'esigenza di chiarezza, la necessità di una spiegazione della realtà in cui tout se tien anche se nella realtà restano poi degli spazi, delle zone, che richiedono una spiegazione più complessa. (Cfr. E. Guagnini, Letteratura, memorie e rappresentazione della Resistenza italiana nella letteratura, in Tra totalitarismo e democrazia Italia e Ungheria 1943-1995 Storia e letteratura, Budapest, 1995, p. 87) Quindi, attraverso Ferriera e Kim, Calvino cerca di spiegare la frattura tra la chiarezza con cui si presentato gli obiettivi di lotta agli operai e ai contadini e la necessità, invece, per gli intellettuali - scrive ancora Guagnini - di educarsi alla realtà, di dare un senso e un significato preciso alle loro idee. (Ibidem) Guagnini vede ancora, in questo capitolo nodale, la sottolineatura di quello che è l'anello debole della catena, cioè il sottoproletariato animato da un furore di riscatto che, se esasperato, potrebbe far perdere l'obiettivo principe della lotta.

Questa l'opera compiuta da Calvino che era partito dall'idea di combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d'una Resistenza agiografica ed edulcorata. (Cfr. Prefazione, cit. p. 1192)

 

CASSOLA

La ragazza di Bube di Carlo Cassola viene scritto nel 1959 e pubblicato nel 1960. Sono trascorsi quindici anni dalla fine dell'esperienza resistenziale e questo permette a Cassola di affrontare il tema in modo diverso. Raccontando la storia di Mara e Bube, Cassola analizza il rapporto tra politica e morale, che risolve nel sentimento.

La vicenda è ambientata nella Val d'Elsa subito dopo la Liberazione. Arturo Cappellini, che tutti chiamano Bube, è un ex-partigiano che, finita la guerra, torna a casa e va a far visita alla famiglia del compagno Sante, ucciso durante la lotta. Bube ha bisogno di parlare con il padre di Sante, infaticabile militante comunista, ma trova Mara, la sorella di Sante. L'incontro casuale si trasforma presto in qualcosa di diverso: un semplice gioco per Mara, un bisogno umano, prima che vero amore, per Bube.

Sono giovani entrambi, ma Bube ha dovuto crescere in fretta. Privo di altri punti di riferimento, Bube si è lasciato conquistare e trascinare dall'ideologia del partito che lo ha trasformato nel partigiano Vendicatore e, anche a guerra finita, un forte sentimento di fedeltà e di cameratismo lo porta a perpetrare la violenza. Prima viene coinvolto nel pestaggio di un vecchio prete fascista, padre Ciolfi, poi in un omicidio. A seguito di un alterco fra alcuni comunisti e un maresciallo dei carabinieri, che solo in un secondo tempo si scoprirà esser stato decorato dalla Resistenza, nasce una sparatoria dove troveranno la morte il maresciallo, un compagno e il figlio del maresciallo, rincorso e ucciso da Bube in un attimo di cieca violenza.

Questo fatto irrazionale e doloroso cambierà completamente la vita di Bube e di riflesso quella di Mara. La ragazza che ha accettato la corte di Bube quasi per caso, per curiosità, si trova coinvolta in una vicenda che dapprima non capisce ma, una volta compreso il significato più profondo, ne fa la propria ragione di vita. Mara e Bube hanno appena il tempo di un breve incontro d'amore in un capanno, che Cassola descrive con una delicata e fresca sensualità, prima della fuga di Bube, in Francia, su consiglio dei compagni.

Rimasta sola, Mara comincia a riflettere sul suo rapporto con Bube e, combattuta fra il padre che la incoraggia e la madre che cerca di allontanarla dal pensiero di un amore doloroso, sarà proprio nel dolore di Bube che troverà la forza di esprimere tutta la grandezza del sentimento che prova.

Se la prima metà del romanzo è completamente dominata dalla figura di Bube, nella seconda è prepotentemente Mara la protagonista. Ciò viene esemplificato chiaramente nel primo incontro di Mara e Bube in carcere. Espulso dalla Francia, Bube viene arrestato alla frontiera e, in attesa del processo, è sfiduciato, confuso senza punti di riferimento: Tu per me... senti sempre quello che sentivi allora? Voglio dire, durante la mia lontananza - chiede Bube - non è che hai cambiato idea... capisci cosa intendo dire? E perché avrei dovuto cambiare idea? (Cfr. C. Cassola, La ragazza di Bube, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1995, pp. 215-216), risponde Mara senza esitazione.

In effetti Mara è stata tentata di cambiare idea dopo aver conosciuto un giovane operaio, Stefano che con la sua cultura superficiale e i suoi modi gentili, ha colmato, per un breve periodo la sua solitudine. In Stefano Mara vedeva la possibilità di fuggire in qualche modo dalla realtà, ma quando questi le parla di matrimonio e di figli, torna con i piedi per terra e capisce che il suo destino è con Bube.

Il romanzo di Cassola viene accolto calorosamente dal pubblico, ma non altrettanto dalla critica che esprime giudizi contrastanti. Asor Rosa, per esempio, parla di crisi del populismo in Cassola e ne individua i motivi nella rappresentazione del popolo come vittima e non come protagonista della storia: Dietro l'anticomunismo di Cassola c'è infatti - spiega - una radicale sfiducia nell'operare umano, nelle possibilità effettive di una trasformazione del mondo. La Resistenza [...] viene nelle sue opere rappresentata semplicemente come l'occasione perduta, come il pretesto storico di un nuovo tradimento delle ingenue speranze popolari. (Cfr. Scrittori e popolo, cit. p. 261) Il populismo di Cassola viene definito esistenziale poiché in un ribaltamento di piani dall'oggettivo al soggettivo Cassola dà del popolo un'immagine autobiografica, trasferendo nel popolo il proprio mondo interiore. Quindi al posto di un'attenzione vera per il popolo, Cassola propone un'Arcadia dei sentimenti. Secondo Asor Rosa, Mara è il tipico personaggio cassoliano che viene presentato come vittima e non può incarnare, alla fine del romanzo, un ideale etico perché in lei carattere e moralità coincidono e la sua presunta forza interiore è semplice istinto.

Francamente mi sembra una visione eccessivamente negativa poiché, anche se le prime reazioni di Mara sono istintive, ripensandole riesce a prenderne coscienza e, anche se la sua determinazione nasce dalla sofferenza, si dimostra un personaggio attivo.

Annoni definisce Cassola il narratore elegiaco per eccellenza che crea, per le sue storie, atmosfere cecoviane a tinte smorte e disegna le sue figure d'operai secondo moduli dolenti di realismo esistenziale. (Cfr. C. Annoni, La narrativa della resistenza: probabile catalogo in "tVita e pensieri", giugno-luglio, 1970, p. 32) Se l'antifascismo, la Resistenza e il dopoguerra sono vissuti come semplici elementi della quotidianità, dove l'unica speranza di miglioramento viene dal comunismo, interessante è la descrizione del gruppo operaio all'interno del quale si distingue la figura del leader (nel nostro caso è il padre di Mara). Cassola non propone il solito intellettuale tormentato e inquieto, ma un semplice operaio al quale si preoccupa di fornire una seppur elementare coscienza. La ragazza di Bube non sembra convincere Annoni, che predilige l'atro lavoro cassoliano di argomento resistenziale, Fasto e Anna, e considera il romanzo di Mara un prodotto consumistico confezionato apposta per soddisfare il bisogno di facili emozioni della società degli anni Sessanta.

Concludo con Geno Pampaloni, autore dell'Introduzione all'edizione del romanzo che ho letto. Pampaloni vede, nel modo di Cassola di considerare la Resistenza, il riaffiorare del groviglio di sentimenti e risentimenti prefascisti del popolo toscano e in Bube, cresciuto in quel mondo, la fusione di giudizio moralistico e sentimento poetico che si incarna in un'immagine metaforica: l'errore compiuto da Bube. Il grosso sbaglio fatto è vissuto da Bube, non tanto con rimorso, quanto con un senso di fastidio. Mara, da parte sua, non analizza l'errore ma lo accetta e al giudizio sostituisce il sentimento. I due giovani sono stati traditi dal partito che ha rubato loro la giovinezza. A questo punto il significato politico del romanzo coincide con quello poetico: una generazione sconfitta nella sua giovinezza.

 

FENOGLIO

Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio è un'opera incompiuta, pubblicata postuma, nel 1968 da Einaudi a cura di Lorenzo Mondo. Esistono, fra le carte di Fenoglio, due versioni del romanzo che Mondo sceglie di cucire insieme; in seguito Maria Corti, compiuto un enorme lavoro di scandaglio dell'intera produzione fenogliana, decide di pubblicare le due versioni insieme ma distinte, l'una di seguito all'altra; infine Dante Isella opera un montaggio fra i capitoli I-XX della prima stesura e XXI-XXXIX della seconda. Io ho letto quest'ultima versione e credo, per le finalità del lavoro che sto svolgendo, di poter tralasciare le pur affascinanti disquisizioni sui problemi di datazione delle due redazioni PJ1 e PJ2 che la Corti ha tentato di ricostruire e Falaschi ha, a sua volta, riportato; mi limito a dire che PJ1 sembra esser stato scritto nell'immediato dopoguerra e che PJ2 pare abbia avuto inizio nel 1951; esiste inoltre una versione in inglese dei primi capitoli.

A questo lavoro si intrecciano gli altri scritti partigiani di Fenoglio quali i Racconti della guerra civile, I ventitre giorni della città di Alba, Una questione privata.

È ancora una volta di Falaschi il merito di un'analisi accurata e calzante de Il partigiano Johnny cui dedica un intero capitolo. Pregio di Fenoglio è quello di riuscire a rispettare la verità dei fatti anche scrivendo opere autenticamente letterarie. Quindi Fenoglio sembra essere la sintesi perfetta fra i memorialisti e gli scrittori veri e propri. Fenoglio infatti supera lo scarto tra realismo e lirismo con un realismo solido, deciso che gli permette di unificare il piano oggettivo e quello soggettivo, di considerarli contemporaneamente.

Il racconto ha un andamento veloce, ariostesco direbbe Calvino, e soltanto in rare occasioni si concede una pausa. Tutta la narrazione, pur non essendo scritta in prima persona, è incentrata sulla figura di Johnny che sembra, secondo Isella, un incrocio fra Robin Hood e Don Chisciotte (Cfr. La lingua del "tPartigiano Johnny", ora in B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi tascabili, 1996) ; come loro Johnny ha detto addio al mondo civile per impegnarsi nella lotta, lasciando tutto alle proprie spalle, casa, città, famiglia.

La decisione viene presa in due tempi. Prima: Johnny uscì dal cinema, di corsa vedendosi mortalmente pallido e sentendosi jelly. Prese per la collina, iroso con se stesso, remorseful verso i suoi genitori, per tutto il tragitto frantumando mentalmente il corpo di Viviane Romance che ora gli appariva una sporca illecebra fascista per la perdizione. Non sarebbe più sceso in città, pensava salendo alla collina nella notte violetta, se lascerò quella collina sarà soltanto per salire su una più alta, nell'arcangelico regno de partigiani. (Cfr. Il partigiano Johnny, cit. pp. 26-27) Quindi: Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l'avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com'è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito -nor death itself would have been divestiture- in nome dell'autentico popolo d'Italia ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell'uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra. (Ivi, p. 52)

A monte della decisione di Johnny ci sono i colloqui con il professor Chiodi e Cocito, due personaggi del romanzo dove credo si nascondano, non soltanto per l'omonimia dei nomi, Leonardo Cocito e Pietro Chiodi, professori rispettivamente di italiano e di storia e filosofia nel liceo di Alba dove aveva studiato Fenoglio.

La frequentazione del ginnasio-liceo è, secondo Isella, un'esperienza fondamentale per Fenoglio che, proprio sui banchi di scuola scopre l'inglese che diventerà la sua lingua. Lo scrittore piemontese appartiene a quella generazione di italiani abituati ad esprimersi normalmente in dialetto, per i quali l'italiano è la lingua appresa sui libri di scuola, strumento di promozione sociale da una parte, ma dall'altra lingua dell'imposizione totalitaria.

L'inglese rappresenta l'incontro con un mondo nuovo tutto da scoprire, di una nuova cultura tutta da assaporare. Isella parla dell'inglese come della lingua della rivincita intellettuale per Fenoglio che ne apprezza più i valori espressivi che l'aspetto comunicativo. Questo nuovo strumento duttile e facilmente scomponibile poiché lingua non grammaticalizzata, idea personalissima di Fenoglio, permette all'autore la massima libertà espressiva tanto che prima scrive in inglese e poi traduce in italiano, compiendo indubbiamente uno sforzo enorme, ma ottenendo un effetto assolutamente originale. La tecnica di Fenoglio è quella di non tradurre per intero, ma di lasciare, disseminati nel testo, resti di frasi o di parole in inglese, spie della prima ispirazione, quella più vera. La narrazione acquista così una vivacità e una forza straordinarie, che ricalcano la solida convinzione morale e la caparbia determinazione del giovane partigiano Fenoglio nel combattere, durante la guerra civile, contro il Male che il nemico incarna.

Riguardo alla rappresentazione del nemico, Falaschi sostiene che nessun altro autore di letteratura resistenziale ha saputo rendere con tanta evidenza l'odio profondo provato verso i fascisti, ma riconosce in Fenoglio l'assoluto rispetto della verità storica che gli impedisce di sminuire o falsare l'immagine del nemico.

Tratto peculiare dello stile di Fenoglio è, si è detto, il realismo, che viene reso concentrando tutte le azioni nel presente, soffermandosi su ogni dettaglio, su ogni particolare e legando le situazioni non con rapporti di causalità ma di successione temporale: l'azione descritta ha senso se si pensa a quanto è successo prima e a quanto accadrà dopo. Tutto si svolge con un ritmo frenetico, i personaggi sembrano muoversi di corsa in un ambiente che assume una dimensione epica dove, secondo Isella, spazio e tempo perdono le dimensioni consuete. Il Partigiano - scrive Isella - è tutta una trama di annotazioni di cieli, di venti e di luoghi, boschi, crinali, acque, sentieri e strade, capanni e paesi, e della vita segreta degli animali della terra e dell'aria; non, però nel taglio del paesaggio [...] ma come contemplazione assorta dello squadernato libro della natura in cui leggere le cifre misteriose del nostro destino. Da naturalistico il segno si fa visionario, metafisico. (Cfr. La lingua del "Partigiano Johnny", cit. pp. 510-511)

Anche il tempo è quello, eterno, dello svariare della luce e delle sue ombre, albe e tramonti, sole e luna, nuvole e sereno, pioggia e neve, nel succedersi senza fine dei giorni e delle stagioni. (Ibidem) Per questa sua struttura particolare, Isella, vede il rapporto fra l'opera di Fenoglio e la letteratura sulla Resistenza simile a quello fra Moby Dick e la letteratura marinara.

Falaschi, invece effettua un'analisi comparata fra Fenoglio e Hemingway e giunge alle seguenti conclusioni: Il protagonista di Hemingway vive situazioni assolute ed è un eroe, quello di Fenoglio vive situazioni estreme (assolute solo per lui) ed è un uomo. [...] Hemingway tende insomma a dimostrare, Fenoglio a raccontare; il realismo del primo è mediato, quello di Fenoglio immediato e diretto. (Cfr. La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit. pp. 168-169)

Johnny, partigiano azzurro e apolitico, immagine reale del partigiano Fenoglio, badogliano e anticomunista (per il periodo della Resistenza), è il motore del romanzo, ma attorno a lui ruotano molti altri personaggi come il Biondo, il comandante della brigata, Ettore, Ivan, Luis, Pierre i compagni i Johnny che sono anche, con nomi leggermente diversi, i compagni di Fenoglio ad illustrare, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la carica realistica del racconto.

Due le donne in cui si imbatte Johnny, Elda e Fulvia. La prima è l'immagine del mondo contadino o, al limite, piccolo borghese, delle Langhe dove si parla il dialetto e bisogna darsi da fare per vivere, la seconda, una torinese che, solo momentaneamente, risiede nelle Langhe, è l'immagine della ragazza di buona famiglia, studentessa, dolce e cortese se non proprio raffinata. Elda subisce la violenza di un contrabbandiere per recuperare delle sigarette, questo gesto in qualche modo la nobilita identificandola come coraggiosa amica dei partigiani, Fulvia legata all'immagine stantia di un salotto borghese sembra incarnare semplicemente un episodio riportato, da Fenoglio, per dovere di cronaca. Johnny la incontra mentre si dirige verso Alba per ottenere informazioni sulla città occupata dai fasisti, ma si intrattiene solo brevemente nel suo salotto: i luoghi chiusi gli vanno stretti. La vita di Johnny è nell'azione.

 

grazie a Gisella Sardon, Trieste

 

Matteo Speroni

La sofferenza e l’umanità di Pavese oppresso dalla ferocia della guerra

È a un titolo dolce e rassicurante, La casa in collina, che Cesare Pavese affida il suo racconto più alto e le sue riflessioni più profonde sulla guerra, come se la violenza e il clamore del conflitto, nell’animo tormentato dello scrittore, avessero bisogno di essere attutiti dalle curve morbide, dai prati e dalle siepi della vigna (così Pavese chiama la collina in Feria d’agosto), a lui tanto familiare.

Sui colli, nelle Langhe, a Santo Stefano Belbo, Pavese era nato, nel 1908. Nella zona del Monferrato era andato a ritirarsi nel periodo incerto e tumultuoso che seguì l’armistizio dell’ 8 settembre 1943, quando restare in città, a Torino, sarebbe potuto essere pericoloso, soprattutto per uno come lui che, tra 1935 e il 1936, era stato mandato al confino, a Brancaleone Calabro.
E nei dintorni boscosi di Torino trova rifugio Corrado, il protagonista del romanzo La casa in collina, pendolare tra la città bombardata, dove di giorno lavora come insegnante, e una villa dove si ritira la sera, ospite di due donne, la «zitella quarantenne Elvira» e la madre. «Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali», dice Corrado, dichiarando subito, in uno specchio nel quale si riflette lo scrittore, il desiderio di allontanare dagli occhi la ferocia della guerra, una distanza necessaria ad alleviare emozioni troppo forti.
Corrado è un uomo in lotta con i suoi sentimenti, attratto e spaventato anche dalle donne, soprattutto dall’incontro con Cate, un amore del passato ritrovato per caso in una locanda sui colli, dove serpeggiano, all’inizio cauti e mascherati, fervori antifascisti. Cate ora ha un bambino, Dino, diminutivo di Corrado, che mai si saprà se è figlio proprio del Corrado protagonista, nato dalla precedente relazione tra i due. Ma sarà Dino, appena ragazzino, a compiere il passo che Corrado non farà mai, unirsi ai partigiani. Quasi si proietta sul giovanissimo (e forse figlio) Dino il coraggio che Corrado non ha, a dispetto della sua lucidità: «Non è colpa dei tedeschi - esclama a un tratto -. I tedeschi hanno soltanto sfasciato la baracca, tolto il credito ai padroni di prima. Questa guerra è più grossa di quello che sembra».

Pavese aveva patito, con il confino, il tallone di ferro dei «padroni di prima», la sua colpa era stata l’amicizia con l’antifascista Tina, Battistina Pizzardo. Sull’esperienza dell’esilio a Brancaleone Calabro, Pavese scriverà, tra il 1938 e il ’39, Memorie da due stagioni, che uscirà nel 1948 con il titolo Il carcere, assieme proprio a La casa in collina (composto invece tra il 1947 e il ’48), sotto il titolo comune Prima che il gallo canti.
Un libro in un certo senso anomalo, Il carcere, nella produzione di Pavese, non per stile o intensità emotiva, ma in virtù dell’ambientazione, un paesino affondato nel Sud, terra estranea allo scrittore piemontese, dove all’amata collina si sostituisce d’imperio il mare, elemento osservato con spirito guardingo ma in fondo fiducioso da Stefano, l’ingegnere protagonista del racconto, alter ego di Pavese: «Tra una casa e l’altra appariva il mare, e ognuno di quegli squarci coglieva Stefano di sorpresa, come un amico inaspettato».
Anche il confino, come la guerra nel romanzo La casa in collina, è vissuto da Pavese/Stefano con una rassegnazione attiva, ossimoro nel quale l’autore cerca lo spazio per la sua integrità psicologica, minata dalle voragini in agguato che lo porteranno al suicidio per avvelenamento da sonniferi, la notte del 26 agosto 1950. Per Pavese la resistenza, quella contro la sofferenza interiore, è stata compagna di vita. E in questa battaglia, a un certo punto, Pavese incontra l’altra Resistenza, quella di chi ha scelto di schierarsi contro le camicie nere e i nazisti.
Fatto inevitabile per uno scrittore le cui frequentazioni, dai tempi del liceo classico D’Azeglio a Torino (suo professore era stato Augusto Monti) al lavoro alla casa editrice Einaudi (fino dagli inizi, con Giulio Einaudi e Leone Ginzburg), sono sempre state donne e uomini per cui cultura e libertà di pensiero erano connaturate alla stessa esistenza. Le tensioni di questo «mestiere di vivere», durante una dittatura che ha portato l’Italia alla guerra e alla catastrofe, Pavese le raccoglie nel lungo racconto La casa in collina, nel quale, tra dubbi e passioni, vibra la volontà insopprimibile di non sacrificare la propria umanità.

Nell’ultimo capitolo, scrive: «Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; Non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo, ogni guerra è una guerra civile».

grazie a: Corriere della Sera, 20.04.2015

Bartolomeo Di Monaco

L'Agnese va a morire

 

È una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall'esperienza storica della Resistenza. Tutto è sorretto e animato da un'unica volontà, da un'unica presenza, da un unico personaggio. Si ha la sensazione che le Valli di comacchio, la Romagna, la guerra lontana a poco a poco si riempiano della presenza grande, titanica di questa donna. Come se tedeschi e alleati fossero presenze sfocate di un dramma fuori dal tempo e tutto si compisse all'interno di Agnese.

Chi si ricorda di Renata Viganò? Nata a Bologna il 17 giugno 1900, vi morì il 23 aprile 1976; fu scrittrice precoce. Quando aveva 13 anni pubblicò «Ginestra in fiore», una raccolta di poesie e nel 1916 «Piccola fiamma». I suoi studi, per ragioni economiche, si fermarono al liceo ela Viganò si impiegò come infermiera negli ospedali della sua città, non mancando però di coltivare la sua passione per la letteratura. Collaborò a molti giornali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, militò nella Resistenza come staffetta e infermiera (è lei la «Contessa» alla quale Agnese porterà uno dei suoi messaggi) e da questa esperienza trasse lo spunto per il romanzo di cui ci occuperemo, che nello stesso anno vinse il premio Viareggio. Dal libro fu tratto un film dal titolo omonimo, con la regia di Giuliano Montaldo.
Altri suoi libri dedicati alla Resistenza furono «Donne della Resistenza» del 1955 e «Matrimonio in brigata» del 1976.
Siamo all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. L’Agnese è una lavandaia e un giorno che ritorna a casa trainando la carriola piena dei panni lavati, incontra un giovane soldato e lo conduce a casa sua, dove l’attende il marito Palita, per sfamarlo. Ma i tedeschi stanno cercando i disertori: «tutti quelli che hanno fatto festa il 25 luglio li porteranno in Germania.» Tenere in casa il giovane è un rischio. Viene a dirglielo la Minghina che abita lì accanto. «In casa mia tengo chi voglio.» è la sua risposta.

Così Agnese vede i tedeschi quando arrivano nella sua corte e scendono in fretta dal camion: «L’aia, la campagna, il mondo furono guastati dai loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi come di vetro sporco. I mitra sembravano parte di essi, della loro stessa sostanza viva.» Essi portano dietro di sé la morte, anzi sono la morte. Gli occhi di Agnese li trasfigurano. Non trovando il giovane soldato, che intanto era andato a nascondersi, si portano via Palita, il marito: «Palita non torna. Palita muore. Palita è morto.» Non si rimprovera, tuttavia, di avere dato ospitalità al soldato «che cercava la via di casa»; «era giusto dargli da mangiare e da dormire.»

La scrittura asciutta, netta ha disegnato uno dei risvolti più crudeli succedutisi dopo l’armistizio: i rastrellamenti e le rappresaglie che percossero quella parte dell’Italia ancora non liberata dagli Alleati, seminando morte e disperazione laddove si era nutrito un barlume di speranza: «Sull’argine passò un gruppo di uomini, circondati e spinti avanti dai tedeschi; dietro venivano delle donne piangenti, e pregavano e imprecavano.» L’armistizio, che aveva illuso molti sulla fine della guerra, segnò invece uno dei periodi più tragici per le popolazioni civili. Durò poco più di un anno, ma bastò a spargere il terrore dappertutto.

È il periodo in cui la Resistenzapaga il suo scotto più sanguinoso. I tedeschi, pur di sorprendere i partigiani, mettono a ferro e a fuoco molti paesi, spesso con la complicità delle spie. Si muore nella speranza che dal sacrificio possa rinascere la libertà. Agnese si fa partigiana. Vengono tre uomini a trovarla e le rivelano che Palita era uno di loro e che forse sono state la moglie e le figlie di Augusto Minghina a fare la spia. Agnese si offre di sostituire il marito perché: «Palita non ritornerà.»

Il romanzo esce nel 1949, aquattro anni dalla fine della guerra. Si avverte che il ricordo è ancora vivido, così i sentimenti. Sulla scrittura, la malinconia effonde un delicato lirismo, frutto di una esperienza tragica, ma sentita e corale: «Piangeva. La gatta nera dormiva ai piedi del letto dalla parte di Palita, e lei dormiva poco e piangeva. Al mattino ricominciava a pensare le altre cose della vita, una dura vita tra il pericolo e la fatica, per lei quasi vecchia, sola.»

È così che, quando ne è richiesta, Agnese inizia il suo lavoro di staffetta: «Al mattino presto si mise le scarpe, il paltò da inverno che la faceva ancora più grossa, e infilò la sporta piena nel manubrio della bicicletta. Partì ondeggiando paurosamente sul terreno gelato.»; «Si avventurò traballando sulla passerella, e prese la bicicletta in spalla. A metà credette di cadere nel fiume, le assi oscillavano, e la corrente rapida sotto di lei le faceva girare la testa. Riuscì a star dritta, a raggiungere la riva; trascinò ancora la bicicletta su per la salita dura dell’argine, poi giù dall’altra parte.» Nella sporta ha delle saponette di esplosivo. Se si pensi che questa storia non nasce dalla fantasia ma da un’esperienza di vita vissuta, noi avvampiamo di ammirazione e di stima. Agnese, dai «piedi larghi e piatti»; «larga, pesante»; «piuttosto ruvida e scontrosa.», riassume in sé la parte migliore della Resistenza, quella altruista, di completa dedizione, incurante dei pericoli, pronta al sacrificio. Su quel ponte traballante ci siamo anche noi. Il paesaggio che si muove intorno a lei è di crudeltà e di sacrificio. Non di rado incontra tedeschi e fascisti con le armi in pugno che hanno ucciso e impiccato. Quando si tratta di partigiani, un cartello appeso al collo ne porta la scritta come una condanna che deve servire da intimidazione e monito.

Il romanzo è ispirato da un forte desiderio di testimonianza, in cui la figura del singolo travalica i confini della individualità per divenire parte integrante della storia di quegli anni. La Viganò scrive un’opera di valore anche letterario nel momento in cui la voce della sua storia individuale entra nella coralità di un momento fondamentale della vita democratica del nostro Paese. Fenoglio, Vittorini, Benedetti, Petroni, Tobino, per fare i primi nomi, formano con la Viganòuna sola voce e recano una testimonianza che grazie al loro insieme diventa omogenea nell’ispirazione e corale. È la forza di questo libro: la sua appartenenza alla Storia ne fa una testimonianza di valore universale, come è accaduto ad altri libri quali: il «Diario di Anna Frank», uscito nel 1947; «Se questo è un uomo» di Primo Levi, uscito per l’editore De Silva sempre nel 1947 (pensate: fu rifiutato da Einaudi, che poi comprò i diritti, visto il successo, e lo pubblicò nel 1958) e «Dal liceo ad Auschwitz- Lettere di Louise Jacobson», uscito nel 1989. Ma anche i diari di Noëmi Szac-Wajnkranc e di Leon Weliczker, pubblicati in Italia nel 1962 dall’editore Lerici con il titolo: «I diari del ghetto».

La donna che dal treno che la porterà in Germania mostra la sua bambina morta e chiede invano ai soldati della stazione che sia seppellita, è il simbolo doloroso e impotente di una efferatezza bestiale che si è impossessata dell’uomo fino a ridurlo alla follia. Spinge il corpo della sua bambina fuori del finestrino, «poi lo lasciò andare, e sentimmo il colpo che fece sul marciapiede, e i tedeschi che gridavano. La donna cascò giù su quelli che stavano sotto, la tenevano stretta perché voleva sbattere la testa contro lo sportello, e si strappava i capelli e i vestiti. Finalmente si mise ferma, e sembrò morta anche lei.»

Veniamo a sapere tutto di questo treno della morte – uno dei tanti – dal racconto che «il figlio di Cencio», miracolosamente fuggito, fa ad Agnese, dalla quale è andato per rivelarle che il marito Palita è morto di stenti: «A un certo punto la gente cominciò a morire. […] Trovammo morta per prima la madre della bambina: s’era impiccata con il suo fazzoletto da testa».

Da quel momento Palita comparirà spesso nei suoi sogni, confortando il suo lavoro di partigiana.

Sono quadri che non chiedono lacrime, ma suscitano solo orrore. È il pregio di una tale scrittura: essa rende muta la sofferenza ed innalza a spettro la follia dell’uomo.

Un ritratto preciso dell’ipocrisia e della viltà umane, si trova all’inizio del capitolo IV allorché l’autrice disegna i miliziani fascisti che mettono fuori le unghie solo contro i deboli e quando sono assenti i tedeschi. Vogliono provare a se stessi che contano qualcosa, mentre nella vita normale non valgono niente.

A contrasto troviamo la descrizione di una delle riunioni dei partigiani, riunioni dimesse e clandestine: «Tutti sedevano attorno alla tavola come se giocassero a briscola, e avevano infatti davanti le carte, e il bicchiere pieno. Parlavano a lungo, senza fermarsi mai. L’Agnese non riusciva a tener dietro ai loro discorsi. Si sedeva in disparte, con la calza in mano».

I tedeschi sono inferociti giacché intuiscono la sconfitta e hanno paura di tutto. «L’Agnese capiva bene quella paura. E sorrideva.»

Il romanzo è costruito dentro questa atmosfera di ferocia e di paura. È una tenaglia mortifera nella quale si muove la donna, senza temerne la stretta, fasciata da una invulnerabilità che le si è impressa sulla pelle in forza della sua audacia e del suo sentimento di bene operare. Ci vogliono nervi saldi per rimanere lucidi nell’esasperante attesa dell’arrivo degli Alleati: «Le notizie erano sempre le stesse: «Continua la vittoriosa avanzata delle nostre truppe. Su tutto il fronte scontri di pattuglie», e voleva dire che non avevano fatto niente. «Gli scali ferroviari di X […] martellati», e voleva dire che gli aerei avevano distrutta una mezza città.» L’Agnese fa perfino fatica a dormire «per il disagio di star distesa, così grossa, sul sottile strato di paglia.» Agnese non ha nulla dell’eroina, ha sentimenti semplici, è silenziosa, quando non le è richiesto un lavoro, sta in disparte. Anche quando si celebra il matrimonio di notte tra Tom e Rina, nessuno riesce a vederla. Si chiedono se è presente: «Sono qui, rispose lei. Era una grossa cosa bruna, confusa coll’ombra. Per fare onore agli sposi, s’era tolta la vestaglia e aveva indossato il suo logoro vecchio vestito di casa.»

Nella Resistenza operano anche uomini e donne la cui forte personalità e le grandi qualità strategiche e di comando erano ignote nella loro vita civile. Sono sgorgate nel momento del bisogno. Il comandante del gruppo partigiano che opera nella zona dell’Agnese era «piccolo, scarno, coi capelli biondi e grigi.» La donna stentava a credere che in lui si nascondesse tanta energia e tanta risolutezza. Dava gli ordini ai suoi uomini con una tale lucidità e una tale calma, pur in mezzo all’imminente arrivo dei tedeschi, da meravigliare Agnese. Anche Walter aveva mostrato coraggio e volontà, pur «così piccolo di statura, apparentemente inadatto, inadeguato, e invece tanto forte e onesto e bravo, col suo viso da bambino e i capelli quasi grigi.»

La portano con sé, dopo che ha ucciso un soldato tedesco e per rappresaglia le hanno bruciato la casa e ucciso quattro persone. Il comandante la chiama mamma Agnese. Si sono rifugiati nei canneti delle Valli di Comacchio, descritte in modo mirabile nel primo capitolo della seconda parte. Dormono dentro casupole fatte di canne, martoriati dalle zanzare: «si sentiva il mormorio delle zanzare, e lo sbattere delle mani nei movimenti istintivi per schiacciarle.» Agnese si rende utile, fa loro da mangiare, accudisce il rifugio. Agisce umilmente, sottomessa: dopo aver servito tutti: «prese la sua minestra, si sedette sulla legna, in disparte, e cominciò a mangiare adagio, guardando nel piatto.»

La Viganòci fa vivere dal di dentro la vita partigiana, attraverso questa donna che è vissuta davvero; non è frutto di fantasia, come ci spiega in appendice. Gli uomini sono liberati dal mito e dall’eroismo, e presentati come individui prigionieri di una necessità: «E loro stavano soli, slegati dal mondo come prigionieri.»; «Verso sera cantavano, con voce bassa, perché nessuno li sentisse, e il canto sembrasse poco più del fruscio delle canne, un po’ di vento più forte in mezzo alla valle.»

Spesso devono abbandonare il loro rifugio per l’arrivo dei tedeschi. Così descrive una loro incursione l’autrice, con stile assai efficace: «Un figura bruna comparve sull’argine, un’altra, un’altra, tante. Tanti soldati tedeschi sull’argine. Si vedevano neri contro il cielo meno nero, si riconosceva la forma degli elmetti, il gesto del braccio che teneva il fucile.» Solo chi ha visto queste cose, come è accaduto all’autrice, può descriverle con una tale attenzione ai particolari.

La casa dove Agnese si rifugia dopo essere scampata all’incendio del canneto viene bombardata dagli Alleati: «passarono gli aerei alleati, sopra, al ritorno dal bombardamento, e avevano qualche bomba rimasta.» Sono le folli distorsioni prodotte dalla guerra. La casa era isolata, non costituiva un obiettivo militare. La si bombarda per gioco, per provare la mira («Scommetto che ci prendo in quella casa là»).

Agnese non si lamenta mai, quando può semina ottimismo; è diventata «la responsabile» di un gruppo di staffette; è infaticabile, anche se è stanca: «Da quando lavorava tanto, il cuore le dava noia, faceva fatica a mettersi in sella.»

I partigiani non abbandonano i compagni fatti prigionieri; se vi è una qualche possibilità fanno di tutto per liberarli, come nel caso di Walter e compagni che, presi prigionieri dalla brigata nera, sono picchiati a sangue e torturati. Walter ha i piedi rotti quando giungono i partigiani, i quali non perdonano i soldati fascisti e con una raffica di mitra li falcidiano dentro la loro caserma. Non mancano altre imprese che mostrano un tale risoluto coraggio, come quella di collocare il comando della brigata partigiana in una casa in cui è stanziata anche «una compagnia tedesca di sussistenza.»

Si pensa – siamo nell’inverno del 1944 – che gli Alleati, salendo la penisola, arrivino anche da loro e liberino le città. Non si bada ai rischi e ai sacrifici. Non sempre tutto va liscio: perfino gli Alleati ci si mettono a complicare le cose, come la volta che arrivò un messaggio del generale Alexander con cui si comunicava che quell’inverno gli Alleati non si sarebbero mossi fino alla primavera e che i partigiani sciogliessero pure le loro formazioni per poter tornare a casa. Sarete chiamati in primavera, diceva il messaggio. Ma chi poteva tornare a casa, ricercati com’erano dai nazifascisti? E i partigiani stranieri, come avrebbero potuto tornare a casa? Certe volte si sentivano soli, abbandonati, e che il peso di quella guerra gravava troppo sulle loro deboli spalle: «Ci piantano così, adesso che comincia la cattiva stagione. Ci hanno dato da bere tante «balle». Siamo stati proprio degli stupidi a rischiare la vita per far comodo a loro.» Il morale scende e ci vogliono uomini come il Comandante a imprimere coraggio: «Faremo da noi.», non esita a dire. E Agnese, mentre distribuiva loro la minestra: «Io non capisco niente, ma quello che c’è da fare, si fa.» E lo faceva: «era una brutta vita. Aveva preso molta acqua, in tutto il giorno. Non arrivava in tempo ad asciugarsi i vestiti, lo scialle, che già era ora di ripartire. I piedi li aveva sempre bagnati: anche adesso doveva portare le ciabatte, con le scarpe si stancava troppo.» Non si tirava mai indietro: «Se c’è bisogno, ci vengo.», diceva. Manca poco che la prendono i tedeschi, ed è Clinto che la libera con una raffica del suo sten. Altri invece non ce la fanno più a resistere a quella dura vita, come accade a Tonitti, che si getta fuori da una finestra: «Quelli che non ne potevano più volevano morire.»

Sono aspetti della vita partigiana che spesso restano in ombra lasciando il posto al lato più eroico, appariscente e mitico di quell’impresa: «I tedeschi non sapevano che fra quegli uomini e quelle donne, in giro fra la neve, molti, quasi tutti, erano partigiani. Staffette inviate con un ordine nascosto nelle scarpe, dirigenti che andavano alle riunioni nelle stalle dei contadini, capi che preparavano l’azione dove nessuno l’aspettava. La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche.» Ma a molti, i quali ebbero la fortuna di non morire, costò una prova di nervi non indifferente, una resistenza contro la paura e la fatica che pesò su di loro più della morte. Quest’ultima rappresentò in molti casi una liberazione anzitempo; chi restò misurò invece tutta l’arditezza di una volontà continuamente scossa dalla fatica di vivere. I quattro tedeschi, «giovani, biondi, ragazzi dell’ultima leva.», che avevano disertato e si erano uniti ai partigiani, ora cercano di fuggire anche da loro; si portano dietro «quattro mitra e due sten», vengono presi e fucilati. «Chi resterà vivo dopo questa guerra?», si domanda l’Agnese. Arriva a pensare che il suo Comandante sia cattivo, perché non si commuove di fronte alla morte: «Fa un sorriso, e chi è morto è morto.» Ma la sua freddezza è necessaria. Quando gli Alleati non ascoltano i suoi messaggi in cui li invita a non bombardare la zona occupata dai partigiani, alcuni dei quali sono colpiti e moriranno, ad un certo punto, recuperati quattro loro aviatori paracadutati dall’aereo in fiamme, ne rimanda oltre le linee uno solo, lasciandogli questo messaggio per i suoi superiori: «Al primo mitragliamento di barche nella valle, io fucilo, ha capito? Lo dica pure, fucilo i tre ufficiali che rimangono qui -. Finalmente gli apparecchi smisero di tirare sulle barche.» Sono incidenti che accadevano spesso; gli Alleati mitragliavano nonostante che sapessero che erano zone occupate dai soli partigiani. L’autrice fa intendere che qualcuno lo faceva intenzionalmente.

Il canneto coi suoi canali è il grande protagonista del romanzo. Lo scivolio continuo delle barche, caricate quando di armi quando di cibo, sulle sue acque, la nebbia che fa da muro ai movimenti, il ghiaccio dell’inverno che ostacola la navigazione, accompagnano il sentimento del coraggio e delle difficoltà degli uomini della Resistenza. Allorché qualcuno non ce la fa, il Comandante non esita a mandarlo oltre le linee, per raggiungere gli Alleati: «Se tutto va bene, ci rivedremo «dopo». Verrete voi a liberarci insieme agli inglesi.» Il viaggio di costoro in mezzo alla neve e alla tormenta è rappresentato con parole ancora dense di commozione e con immagini di una apocalittica tragicità.

Qualche volta sui canali, nascosti dalla nebbia, s’incrociano le motobarche o le slitte tedesche. Si ode prima il rumore dei motori. Ci si deve appostare, prepararsi allo scontro. Da una parte e dall’altra qualcuno muore.

Muoiono anche i sentimenti, a volte. È il caso di Antonio, detto «La Disperata», il quale si fidanza con una contadina, ma questa, scoperto che è partigiano, lo lascia. I genitori non vogliono che lo frequenti, è pericoloso, e non lo vuole neppure lei. Così il giovane risale in bicicletta e se va «senza voltare la testa». Pensa a come è diversa l’Agnese, sempre pronta ad agire, umile, che ogni volta che si offre per qualche missione dice: «Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona.» Ed erano «cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e quasi vecchia.» Allora il giovane partigiano chiude gli occhi e cerca «di immaginarsi come poteva essere l’Agnese da giovane.»

Agnese non sa ancora che tutti i suoi compagni sono caduti nella rete di un rastrellamento; non si contano i morti. Vengono ad avvertirla e il suo primo pensiero è quello di andare dagli scampati per aiutarli. È così umile e silenziosa che qualche volta, presi dalla fretta di sistemarsi, i compagni si dimenticano di lei: «Nessuno pensò che all’Agnese non rimaneva posto per dormire».

Il Comandante un giorno confida a Clinto: «Sai, mi pento di non averle detto quello che penso di lei. Non le ho mai dato molta soddisfazione. Farle capire almeno quanto ci ha servito, di che utilità vera è stata».

La sua è una dedizione totale, assoluta: «Quasi tutti i giorni l’Agnese andava via in bicicletta, con la sporta infilata nel manubrio: la bicicletta era vecchia, coi copertoni pieni di toppe. Spesso lei restava a terra in mezzo alla strada, e andava avanti a piedi, camminando per molti chilometri.» Tutti i partigiani sono diventati suoi figli. La chiamano mamma Agnese, ma solo lei li sente davvero come figli. Sono i portatori di una sofferenza che dovrà servire per un’Italia migliore: «voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo, quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerre.»

Di questa donna silenziosa resterà, per una fatale coincidenza, «un mucchio di stracci neri sulla neve.» Nemmeno sappiamo dove i suoi resti riposano.

grazie a: https://www.paginatre.it/