inizio rosso e giallo



Marco Malvaldi

Chissà quante copie avrà venduto a Livorno questo brillante e originale e chimico scrittore pisano...
Che rinuncia ad imitare l'inimitabile Camilleri e usa garbatamente (per quanto sia possibile ad un pisano) il toscano di Pisa per far parlare un gruppo di vecchietti alle prese con delitti e misteri. Il barrista, forse proprietario del BarLume, li accudisce, li stramaledice, e compensa con lucidità matematica le geniali bischerate degli avventori bizzosi, rompicoglioni e ovviamente dalle battute fulminanti.
Qualche (in)evitabile attimo di autocompiacimento non toglie a Malvaldi il merito di aver escogitato una formula innovativa - nell'ambientazione, nel linguaggio, nella cornice - rispetto ad un giallo italiano troppo spesso impigrito su personaggi dolenti e antieroi finchè si vuole ma tutto sommato banali, e noiosi.
Grazie, Monicelli.
Altro?
Altro.

 

    serie BarLume

  • La briscola in cinque, Sellerio, 2007
  • Il gioco delle tre carte, Sellerio, 2008
  • Il re dei giochi, Sellerio, 2010
  • La carta più alta, Sellerio, 201
  • Il telefono senza fili, Sellerio, 2014
  • La battaglia navale, Sellerio, 2016
  • Sei casi al BarLume, Sellerio, 2016 - raccolta di racconti già pubblicati in varie antologie Sellerio
  • Trilogia del BarLume, Sellerio, 2018: La briscola in cinque, Il gioco delle tre carte, Il re dei giochi
  • A bocce ferme, Sellerio, 2018
  • Bolle di sapone, Sellerio, 2021

    Altri romanzi

  • Odore di chiuso, Sellerio, 2011
  • Milioni di milioni, Sellerio, 2012
  • Argento vivo, Sellerio, 2013
  • Buchi nella sabbia, Sellerio, 2015
  • Negli occhi di chi guarda, Sellerio, 2017
  • La misura dell'uomo, Giunti, 2018


 

Nel 2012 SKY avvia la produzione di una serie di film per la tv, I delitti del BarLume, con il bravo Filippo Timi nel ruolo di Massimo Viviani, il barrista: episodi non sempre all'altezza dei libri ma comunque ben strutturati e ambientati in modo plausibile; non mancano le differenze rispetto ai libri, alcune dovute alle esigenze di trasposizione, altre frutto di furberia televisiva (i frequenti richiami erotici, o lo sgradevole commissario che diventa un'algida ma fascinosa funzionaria).

Fulvio Paloscia

Quattro amici al bar


Un bar. BarLume. Il suo proprietario, Massimo. La banconista Tiziana. E quattro anziani frequentatori in attesa di un fattaccio perché scuota il torpore di una piccola e immaginaria località sul litorale toscano, Pineta.
Lo scrittore pisano Marco Malvaldi, classe 1974, professione chimico ma senza contratto, torna agli ingredienti che hanno reso un successo i suoi precedenti romanzi
La briscola in cinque (2007) e Il gioco delle tre carte (2008). Solo che ne Il re dei giochi, Sellerio, spariglia come sempre generi e registri, ma anche le certezze degli avventori del BarLume: perché l'incidente sulla statale pare non avere risvolti gialli. E invece...

Malvaldi, le indagini al centro dei suoi romanzi sono corali.

Potremmo parlare di investigatore composito, come Nero Wolfe: lui è la parte logica delle indagini mentre l'assistente Goodwin è l'uomo d'azione, poi ci sono il giardiniere e il cuoco. Anche nei miei romanzi c è una parte logica, Massimo, che incarna l'investigazione deduttiva e che deve tener conto degli insegnamenti dell'esperienza, rappresentata dai quattro vecchietti. Diciamo che siamo davanti ad un investigatore multitasking: l'intero bar, metafora della genialità come ' saggezza e gioventù' , diceva Lee Masters.

Chi indaga non è il detective simpatica canaglia di moda oggi, ma l'onesto cittadino.

Massimo e gli altri sono portatori di quella moderata onestà italiana che non commetterà mai un reato ma che, di fronte all'opportunità di risparmiare, non si mette certo litigare con un commerciante in caso di mancata erogazione di uno scontrino.

Sono evidenti le tracce di commedia all'italiana stile Amici miei.

C'è anche molto della commedia greca: nell'inventare i quattro ottuagenari, mi sono ispirato a Teofrasto, autore di un trattato sui caratteristi nel teatro greco, cioè su quei personaggi contraddistinti ognuno da elementi caratteriali dominanti che ne permettono un'immediata percezione e contestualizzazione.

C'è chi ha azzardato il paragone con il coro della tragedia.

Perché no? Il coro commenta quello che il protagonista fa. I vecchietti in effetti commentano le azioni di Massimo, come spesso avviene nei bar di paese dove tutti parlano di tutti. Ma sono anche convinti che i problemi si risolvano da soli.

Perché un bar?

Quando ho scritto La briscola in cinque, stavo lavorando alla tesi di laurea e avrei voluto essere dovunque fuorché davanti ad un computer a dissertare di chimica. Quindi fuggivo da quella situazione ripensando al mio vecchio desiderio di fare il barista, mestiere che mi incuriosisce per gli orari strani, perché permette di essere in contatto con la gente, e perché hai il modo di capire subito se ciò che stai realizzando è buono oppure no.

E perché un paese immaginario?

Per elasticità: volevo essere caustico nel parlare di sindaci idioti o di traffico malgestito senza che nessuno se ne avesse a male e mi querelasse. Mi sono comunque ispirato a Tirrenia.

I paragoni con Camilleri e la sua Vigata sono azzardati, scomodi?

Lusinghieri. Ma anche pesanti: temo che la gente si aspetti troppo dai miei libri. Mi viene in mente quel calciatore, Hakan Sukur, che venne in Italia annunciato come il Van Basten del Bosforo. Salvo poi rivelarsi un bluff.

Camilleri usa il dialetto siciliano, lei il vernacolo pisano.


Il dialetto di Camilleri è a tutto tondo. Io, invece, faccio parlare in vernacolo solo i personaggi provenienti da quello strato sociale che non può esprimersi altrimenti, ovvero tre dei quattro detective anziani: Ampelio pensionato delle ferrovie, Del Tacca ex impiegato comunale, Rimediotti. Aldo no: è un intellettuale, parla un italiano forbito e vetusto.

Come mai ogni suo romanzo è legato al gioco?

A parte la mia passione per la matematica e per lo studio del comportamento umano attraverso l'attività ludica, il gioco è la metafora di quello che accade nei miei libri: nel mio nuovo romanzo le regole contorte del biliardo italiano somigliano all'omicidio che avviene sottotraccia, in maniera indiretta.

Cos' è il giallo?

È un genere che può diventare grande letteratura: Simenon, Durrenmatt, Sciascia. Del resto in ogni romanzo c'è un equilibrio che viene perturbato, solo che nel thriller la perturbazione è più forte e questo permette di seguire meglio certi lati dell'animo umano. Il giallo è intrattenimento nel senso che non tutti siamo partecipi di un delitto. Per questo ci affascina.

E l' ironia?

È la consapevolezza che non esistono cose immutabili. La capacità di vedere le cose da un punto di vista diverso da se stessi.

la Repubblica, 30.06.2010

Marco Malvaldi

Ecco perché ho ucciso i vecchietti del BarLume

Come molti lettori, ormai, sanno o sospettano, all’interno della saga del BarLume ci sono parecchi personaggi presi di peso dalla realtà. Nonno Ampelio, il vecchietto che insieme agli altri tre compagni di semolini tormenta le giornate di Massimo il barrista, è ad esempio un fedele ritratto del mio vero nonno, Varisello.

Mio nonno, insieme ad altre caratteristiche come la passione per il ciclismo, la professione di ferroviere e il nome improbabile, aveva in comune con Ampelio il fatto di essere sempre, costantemente e serenamente sincero. In altri termini: quello che pensava, lo diceva, che glielo chiedessero o meno.

La cosa creava degli imbarazzi piuttosto di frequente, dato che mio nonno (ateo, socialista e grandissimo bestemmiatore) viveva in casa con mio zio, don Piero Malvaldi, parroco di Forte dei Marmi.
I suoi bersagli non godevano di privilegi di rango: mio nonno, che era democratico nell’animo, se la prendeva sia con l’arcivescovo (al quale, dopo aver indicato la croce d’oro e pietre preziose che portava al collo, chiese «ma per quelli come lei ‘un c’era il voto di povertà?») sia con le beghine (come la Siria, una donnetta anziana che un giorno si presentò in canonica tenendo per le zampe un pollo spennato, come cena per mio zio e per il di lui padre; mio nonno, alla vista, si voltò verso l’interno della casa ululando «Pierooo, ci son du’galline per te»).

Con la stessa incorruttibile severità, mio nonno difendeva i rari e preziosi pisolini pomeridiani di mio zio, piazzandosi fuori dalla porta e impedendo ai vari questuanti di suonare il campanello («primo, perché sennò Piero si sveglia, e secondo, perché se sòna mi conzuma la corrente»), e invitandoli a tornare in seguito con modi, diciamo così, spicci.

Insomma, per farla breve, mio nonno era un terrificante rompicoglioni; una persona straordinariamente vera, vitale e coerente, che era un piacere vedere e sentire in azione per una mezz’oretta, specialmente se se la prendeva con qualcun altro. Però viverci insieme, ve lo assicuro, era tutto un altro paio di maniche.
Allo stesso modo, nello scrivere i romanzi del BarLume io, attingendo ai ricordi di famiglia e alle centinaia di occasioni in cui ho visto mio nonno e le persone che mi giravano intorno dare il meglio, passo parecchio tempo immerso in una marmellata di aneddoti, ricordi e altri aspetti della mia vita da bambino e da adolescente: dopo un po’, non se ne può più.

Viene la voglia di uscire da casa, di passare un po’ di tempo con persone tue coetanee, di andare al cinema, di fare altro. Soprattutto, nello scrivere il BarLume ho l’impressione di non inventarmi praticamente niente, e di godere di un vantaggio sleale: quello di aver vissuto in una famiglia con degli elementi decisamente rutilanti, in un paese in cui ognuno, contrariamente a quanto recitano i poliziotti californiani quando arrestano qualcuno, aveva il diritto di dire la sua.

Viene la voglia, quindi, di vedere se sono in grado di fare qualcosa da solo, senza appoggiarmi al bastone di mio nonno, e di trovare nel mio cervello la materia prima da trafilare, cucinare e condire per ricavarne un po’ di sano intrattenimento.

Purtroppo, ogni volta che ci provo vengo smentito brutalmente dai fatti.

Un po’ per le trame: perché, come per il precedente, anche la trama del mio ultimo libro è stata pensata da mia moglie. Un po’ per i personaggi: perché, nei miei libri, continuano ad essere maggioranza rumorosa i caratteri presi dalla realtà. Che siano miei amici di lunga data, di cui mi permetto addirittura di conservare il nome, o amici conosciuti nel mio ruolo di piazzista della letteratura, o anche persone che mi sono rimaste indigeste, non fa differenza: chi mi conosce sa che rischia, prima o poi, di finire in un mio libro, e di essere trattato come io ritengo che meriti.

In fondo, alla fine, chi scrive romanzi non fa altro che questo: racconta una colossale balla da adolescente, in cui gli amici hanno il ruolo di eroi, i nemici sono invariabilmente brutti e viscidi, e la trama si conclude in modo tale che i secondi fini dell’autore siano soddisfatti, e che la persona che ci legge rimanga nello stato d’animo in cui vogliamo pilotarla.

la Stampa - Tuttolibri, 07.10.2013