inizio rosso e giallo


Ben Pastor

 

Maria Verbena Volpi, all'anagrafe statunitense Verbena Volpi Pastor.
Nata a Roma nel 1950, dopo la laurea in Lettere con indirizzo archeologico si trasferisce negli Stati Uniti, di cui poi ottiene la cittadinanza (senza rinunciare a quella italiana); sposa un ufficiale dell'aeronautica militare di lontane origini basche (da lui mutua il cognome Pastor), insegna Scienze Sociali in varie Università (Ohio, Illinois, Vermont) e svolge un'intensa attività saggistica e didattica, spaziando dalla letteratura agli studi sulla "mente genocidiale", dall'etnomusicologia al femminismo in letteratura, dall'archeologia greca e latina alla storia dell'emigrazione italiana in Vermont.
Parallelamente al lavoro accademico si cimenta nel giallo storico scrivendo numerosi racconti per le principali riviste poliziesche, Alfred Hitchcock's Magazine, The Strand Magazine, Ellery Queen's Mystery Magazine.

Frequenta brillantemente le ghost stories con una serie di racconti che vengono molto apprezzati sia dalla critica che dai lettori, e infatti questi lavori verranno ripetutamente pubblicati in varie antologie di settore. Tra queste incursioni nelle storie di fantasmi si distinguono i racconti lunghi Remedios and the Men e soprattutto Achille's Grave (compreso nella raccolta Ghost Writing insieme a scritti, tra gli altri, di John Updike e Peter Straub), dove emergono con chiarezza due dei temi centrali della narrativa di Pastor: l'amore per l'antichità classica e la dolente riflessione sulla condizione esistenziale dell'uomo in guerra.

Nel 2000 pubblica negli USA Lumen, il primo romanzo della serie di Martin Bora, tormentato ufficiale-investigatore tedesco ispirato alla figura di Claus von Stauffenberg, l'organizzatore dell'attentato a Hitler nel 1944. Lumen ottiene un lusinghiero successo e quindi Pastor scrive altri libri con questo personaggio, che vengono tradotti e pubblicati in numerosi paesi.

Tutt'altra ambientazione ne I misteri di Praga e La camera dello scirocco, dove Pastor costruisce un complesso meccanismo poliziesco collocato alla vigilia della Prima guerra mondiale e ambientato nella Praga magica di Kafka e di Joseph Roth.
Ma la passione di Pastor per l'antichità non poteva non trovare uno sbocco letterario definito: ed ecco i gialli di una serie ambientata nel IV secolo d.C., con protagonista Elio Sparziano, uno storico che pare sia realmente esistito ma di cui non si hanno notizie a parte la sua probabile partecipazione alla stesura dell'Historia Augusta.

Da sempre gli scrittori di gialli si sono cimentati con la Storia - con risultati a volte eccellenti e spesso mediocri - e dunque Pastor non ha inventato nulla. Ma, oltre ad ambientare le vicende in tre epoche differenti, con notevole raffinatezza stilistica e un'insolita padronanza della cornice storica, Pastor inserisce coerentemente interrogativi e riflessioni.

I suoi riferimenti letterari sono molto vasti, ma, oltre all'amatissimo Simenon, nel suo sito (in cui, fra l'altro, fornisce vari riferimenti bibliografici rispetto al contesto in cui si svolgono i romanzi) elenca gli scrittori che preferisce: Joseph Conrad, William Faulkner, Nikos Kazantzakis, Federico Garcia Lorca, Alessandro Manzoni, Herman Melville, Yukio Mishima, Toni Morrison, Joseph Roth, Eudora Welty.

 



    Martin Bora:

  • Lumen (Lumen, 1999) Hobby & Work, 2001; Sellerio, 2012
  • Luna bugiarda (Liar Moon, 2001) Hobby & Work, 2002; Sellerio, 2013
  • Kaputt Mundi (Kaputt Mundi, 2002) Hobby & Work, 2003; Sellerio, 2015
  • La canzone del cavaliere (The Horseman's song, 2003) Hobby & Work, 2004, 2012; Sellerio, 2019
  • Il morto in piazza (The Dead in The Square, 2005) Hobby & Work, 2005; Sellerio, 2017
  • La Morte, il Diavolo e Martin Bora (Odd Pages, 2008) Hobby & Work, 2008 - racconti
  • La Venere di Salò (The Venus of Salò, 2005) Hobby & Work, 2006
  • Il Signore delle cento ossa (Master of One Hundred Bones, 2010) Sellerio, 2011
  • Il cielo di stagno (Tin Sky, 2013) Sellerio, 2013
  • La strada per Itaca (The Road to Ithaca, 2014) Sellerio, 2014
  • I piccoli fuochi (The Little Fires, 2016) Sellerio, 2016
  • La notte delle stelle cadenti (The Night of The Shooting Stars) Sellerio, 2018
  • La sinagoga degli zingari (The Gypsy Synagogue, 2021), Sellerio, 2021

  • ordine cronologico in base agli avvenimenti narrati:

  1. La canzone del cavaliere
  2. Il Signore delle cento ossa
  3. Lumen
  4. I piccoli fuochi
  5. La strada per Itaca
  6. La Morte, il Diavolo e Martin Bora
  7. Il cielo di stagno
  8. Luna bugiarda
  9. Kaputt Mundi
  10. Il morto in piazza
  11. La Venere di Salò
  12. La notte delle stelle cadenti
  13. La sinagoga degli zingari

    Karel Heida e Solomon Meisl:

  • I misteri di Praga (Brink Tales, 2002) Hobby & Work, 2002; Mondadori , 2015
  • La camera dello scirocco (The Wind Rose Room, 2007) Hobby & Work, 2007; Mondadori, 2016

 

 

    Elio Sparziano:

  • Il ladro d'acqua (The Water Thief, 2006) Frassinelli, 2007; Mondadori, 2017
  • La Voce del fuoco (The Fire Waker, 2008) Frassinelli, 2008; Mondadori 2017
  • Le Vergini di Pietra (The Stone Virgins, 2007) Sperling & Kupfer, 2010; Mondadori 2017
  • La traccia del vento (The Cave of the Winds, 2012) Hobby & Work, 2012; Mondadori 2018
  • La grande caccia (The Great Chase, 2019) Mondadori 2020

 

Ben Pastor

Martin Bora e dintorni

Quando il mio editor italiano mi chiese di scrivere una nota finale a Luna bugiarda, confesso che ci pensai un po' sopra prima di accettare. Un romanzo, qualunque romanzo, possiede in se stesso la sua ragion d'essere; ogni ulteriore commento andrebbe lasciato alla discrezionalità del lettore e a quella soltanto. D'altro canto, devo riconoscere che in un Paese come l'Italia, così dolorosamente toccato dalla Seconda guerra mondiale, un mystery come Luna bugiarda potrebbe forse suggerire, nel suo piccolo e in punta di piedi, qualche spunto di riflessione non inutile sul nostro tormentoso passato e quindi sul nostro presente. Un presente che di quel passato è la diretta conseguenza, con tutti i suoi meriti e demeriti, i suoi picchi di luce e i suoi angoli oscuri: a riprova che, se esiste qualcosa che non cessa mai di restare d'attualità, questo è proprio il passato (e, a maggior ragione, quello recente).
Sicché, eccomi qui, a raccontarvi due o tre cose su Martin Bora - e più in generale sulla mia attività di autrice italiana che vive negli Stati Uniti e scrive "gialli militari" ambientati in Europa fermo restando, naturalmente, che il giudizio sulla qualità del racconto spetta soltanto a chi, questo racconto, ha avuto la cortese pazienza di leggerlo pagina dopo pagina (nella speranza, da parte mia, di essere riuscita a non deluderlo).
Sono molti i motivi per cui penso che sia giusto narrare le storie di un uomo che conosce il significato dell'onore. O meglio, della dignità interiore che si converte in azione. Credo che sia importante - anche nel mondo del romanzo - mostrare come, in circostanze terribilmente difficili, sia possibile (nonché doveroso) prendere delle decisioni di natura etica, soprattutto quando da esse può scaturire la salvezza per altre persone. Esiste il vecchio detto ebraico: "La vita che salvi può essere la tua"; ma il detto: "Non c'è amore più grande..." suggerisce forse meglio il significato che ha per me la figura di Martin Bora, e quello che cerca di avere per i lettori.
Ora, perché scegliere un soldato, e perché sceglierne uno appartenente all'esercito tedesco? Un eroe improbabile, penserà qualcuno. Un eroe alquanto probabile, è la mia risposta. Di fronte alla natura totalitaria del regime nazista e ai rischi mortali che qualunque forma di opposizione "dall'interno" inevitabilmente comportava (basti pensare alla morte per decapitazione dei membri del gruppo antinazista della Rosa Bianca, poco più che adolescenti), mi sembra semplicemente giusto rendere omaggio a quanti, nelle forze armate tedesche, ebbero il coraggio di operare delle scelte etiche. Il coraggio di dire di no.
Dopo il fallito attentato alla vita di Hitler del 20 luglio 1944, le forze armate della Germania furono sanguinosamente depurate di centinaia di ufficiali ribelli, compresi quelli vicini al cospiratore principale, il colonnello von Stauffenberg. Stauffenberg venne fucilato dopo essere stato ferito - il suo destino fu, in un certo senso, meno orrendo di quello riservato a parecchi suoi collaboratori, che vennero strangolati lentamente con corde da pianoforte. È proprio Stauffenberg che è servito da modello per Martin Bora, un aristocratico cattolico e un ufficiale presto disilluso dall'ideologia nazista, le cui azioni sono dettate da un'istanza umanitaria alla quale non intende rinunciare. Tuttavia Bora è e rimane un soldato fedele, e diventa investigatore quasi suo malgrado. Le storie che lo vedono come protagonista hanno a che fare con il crimine e la soluzione del crimine, mentre il conflitto infuria al di fuori e dentro di lui.
Nello stesso tempo in cui registra accuratamente per il Dipartimento dei Crimini di Guerra della Wehrmacht i delitti commessi dalle forze tedesche in Polonia (Lumen), e si rifiuta di partecipare alla pulizia etnica degli ebrei in Russia (Il cielo di stagno), Bora è totalmente impegnato a combattere e, nel contempo, a indagare su delitti e misteri. Con il progredire della serie - dalla prima avventura nel 1937 (La canzone del cavaliere), in cui tocca a lui investigare sull'assassinio del poeta Garcfa Lorca, a quelle seguenti, che vanno dall'inizio della campagna di Russia al Veneto del 1943 (Luna bugiarda), dalla Roma del 1944 (Il lupo di bronzo) agli "ultimi fuochi" del regime repubblichino (Il morto in piazza, La Venere di Salò) - Bora continuerà a servire il suo Paese, anche se su di lui, sulla sua resistenza occulta ma fattiva alla barbarie nazista, si accentreranno sempre di più i sospetti delle SS e della Gestapo.
L'atteggiamento di Bora verso l'assassinio è profondamente influenzato dalle sue esperienze di guerra; deve continuare a ripetere a se stesso che, anche in un'epoca in cui perdono la vita milioni di persone, la morte di un essere umano resta nondimeno significativa, persino emblematica, di una sofferenza infinitamente più vasta. Deve veramente mantenere la convinzione che, in queste circostanze, qualunque gesto di pietà sia un atto di redenzione per le colpe collettive della stessa razza umana.
Nato a Edimburgo nel 1913 da una famiglia aristocratica di Lipsia che annovera tra i suoi membri diplomatici ed editori, Martin Bora discende, per parte di madre, da una casata scozzese e, per parte di padre, dalla moglie di Martin Lutero, Katharina von Bora. Amante della musica come il padre ormai scomparso, celebre direttore d'orchestra, dall'età di cinque anni Martin ha passato l'estate in Italia. Appassionato lettore di Salgari da bambino, ama la cultura italiana al punto da dolersi per essere costretto, dopo l'8 settembre del 1943, a combattere contro l'Italia (o meglio, contro la sua parte migliore). Il difficile matrimonio con la bella ed egocentrica Benedikta gli complica le cose. La sua interazione con gli altri investigatori è contrassegnata da una simpatia reticente, sia che costoro vestano i panni ufficiali della polizia (come l'ispettore Guidi di Luna bugiarda), sia che si tratti di detective "per caso" (come padre Malecki, un sacerdote con cui Bora collabora, in Lumen, per risolvere un delitto "eccellente" a Cracovia, o anche Philip Walton, il volontario americano delle Brigate internazionali che appare ne La canzone del cavaliere).
Nei romanzi del ciclo, il "filo rosso" della Storia segue da vicino gli avvenimenti europei, dalla guerra civile spagnola fino alla dissoluzione finale dei regimi nazi-fascisti. Né mancano personaggi veri, che mi sono sforzata di restituire con la maggior attendibilità possibile: il generale Blaskowitz, comandante delle forze tedesche in Polonia, trucidato in carcere dalle SS nel 1945; Eugene Dollmann, l'enigmatico ufficiale di collegamento delle SS a Roma; l'infame Herbert Kappler, noto per l'eccidio delle Fosse Ardeatine; il generale Graziani e Mussolini stesso.
Luna bugiarda, come molte altre mie storie, è sostenuta da una metafora. Credo profondamente che noi, come esseri umani, siamo una specie analogica, metaforica: costruiamo la realtà con l'analogia ("Questo assomiglia a quello, e perciò potrebbe essere...") e la metafora ("Questo è così simile a quello che, in un certo senso, è quello..."). Luce ed ombra erano le metafore per Lumen, sostituite in questo romanzo dal malinconico chiaror di luna. Il nome della controparte di Bora, l'ispettore Sandro Guidi, è una combinazione del diminutivo del nome di mio padre e dello pseudonimo "d'arte" di mia madre. Il dottor Volpi ha il cognome di mio padre, ma per lui mi sono ispirata a mio nonno Sabbatini, medico antifascista che ebbe lo studio messo a fuoco dagli squadristi all'inizio degli anni Venti. Era un uomo burbero, spigoloso, ma di saldissimi principi. Fra le sue molte prodezze c'è quella di aver intimato al temuto malavitoso romano noto come il "Gobbo del Quarticciolo", che aveva fatto irruzione nel suo studio, di uscire di là, togliersi il cappello, bussare e poi rientrare "da uomo civile". Quanto a Clara Lisi (sì, "Claretta" come la Petacci del Duce), mia sorella Simona ed io conoscevamo bene fin da piccole i volti delle stelle del cinema del tempo di guerra. Poiché nostra madre, giornalista, aveva scritto per parecchie riviste (Bella, Lei, Serena), questi personaggi popolavano le annate rilegate dei suoi rotocalchi. Le sopracciglia depilate, i capelli ossigenati, i riccioli, la bocca a forma di cuore, i pigiama di seta che caratterizzano Clara Lisi derivano da quelle immagini che vennero imitate, ne sono sicura, da tante ragazze di provincia (ma non da loro soltanto) anche negli anni di guerra. Infine, un personaggio senza battute in Luna bugiarda è il tempo meteorologico: un personaggio ricorrente, che riesce sempre a rubare la scena per uno o due paragrafi, perché niente accade fuori dal clima. La natura è influenzata e foggiata dalle condizioni climatiche, proprio come il comportamento umano si adatta e reagisce ad esso. Come Guidi, anche io soffro il freddo (e non è molto piacevole quando si abita nel Vermont, dove spesso la temperatura raggiunge i -30 durante l'inverno e un metro e ottanta di neve sono la norma). Sarebbe meglio che io fossi come Bora, che sopporta bene il freddo - per autodisciplina, forse, o per i suoi ascendenti nordici, o perché fu intrappolato a Stalingrado nel pieno dell'inverno, e non c'è inverno che possa sembrare freddo dopo quell'esperienza...
Mi è capitato spesso di sentirmi chiedere, sia negli USA che in Italia, come mai io, una donna, mi interessi così da vicino (anche nelle vesti di docente universitaria) di tematiche e questioni storico-militari, tradizionalmente molto lontane (si dice...) dalla sensibilità femminile. La risposta a questa domanda affonda nel mio vissuto, che, come capita a ciascuno di noi, mi ha spinto lungo direttrici intellettuali ed esistenziali ben precise, orientando il mio lavoro accademico e plasmando la mia attività di scrittrice. Nata nell'Italia degli anni Cinquanta, era inevitabile che, in un modo o nell'altro, mi interessassi di quel conflitto che, fino a qualche anno prima, aveva devastato il Paese. Vivendo in una cittadina in provincia di Roma, lontano dalle arterie battute dalla guerra, sapevo tuttavia che il feldmaresciallo Kesselring aveva alloggiato in una casa del posto e che gli alleati, cercando di sbarazzarsi di lui, avevano letteralmente sbriciolato a suon di bombe la casa dall'altro lato della strada, mancando il bersaglio ma non, purtroppo, numerosi civili innocenti. Sapevo come i contadini fossero stati uccisi dalle rappresaglie delle SS; come un soldato tedesco fosse stato pugnalato e si fosse trascinato a morire ai piedi del monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale. Quando avevo otto anni, durante la rimozione delle macerie nei pressi di casa nostra, vennero scoperti casualmente due scheletri. Mio padre, medico condotto e all'occorrenza legale, fu chiamato sul luogo del ritrovamento. Dopo aver appurato che erano i resti di due soldati della Wehrmacht, spedì le loro piastrine di identificazione all'Ambasciata tedesca a Roma. "Perché", mi disse, "può darsi che qualcuno li stia ancora aspettando". Era del tutto possibile, a tredici anni dalla fine della guerra.
E da allora, per me come per Martin Bora, i morti non sono mai morti, almeno finché c'è memoria, individuale e collettiva, e - soprattutto - il bisogno interiore di coltivarla. Più tardi, quando ero già adolescente, venni a conoscenza dei diari che mia madre aveva tenuto nel corso della guerra, scritti a mano, per lo più a lume di candela, durante l'occupazione tedesca di Roma. Mi si presentava adesso un altro aspetto della guerra, dalle restrizioni sopportate dai civili all'attesa ansiosa della liberazione, alla raccapricciante scoperta di quello che era accaduto in via Tasso e alle Fosse Ardeatine; tuttavia mia madre il cui cognome, Sabbatini, è un vecchio cognome ebraico - manteneva una calma a prima vista singolare in queste pagine, scritte in assenza del marito, chirurgo militare allora prigioniero di guerra dei francesi. Il modo in cui aveva capito la crudeltà di tutti gli eserciti e riconosciuto l'umanità dei singoli soldati, mi indirizzò a cercare di presentare quest'ultimi come personaggi completi. Non come caricature della violenza o della disciplina cieca, ma piuttosto come uomini presi in circostanze che - mentre richiedevano il peggio della loro natura - riuscivano spesso anche a tirar fuori il meglio di loro. Incominciò così ad apparire l'abbozzo di quello che sarebbe diventato il personaggio di Martin Bora, anche se sarebbero passati degli anni prima che assumesse un nome, una forma definita e una sua storia.
Un'altra domanda che mi rivolgono spesso riguarda la mia appartenenza culturale: mi considero una scrittrice americana o europea? E la mia identità (creativa ma non solo), su quale sponda dell'oceano si situa? Ho vissuto più di metà della mia vita negli Stati Uniti. Sono molti i modi in cui potrei conteggiare questi decenni americani nel Midwest, Southwest, Northeast. Sono arrivata quando le Torri Gemelle di New York erano nuove, e le ho viste crollare l'il settembre 2001; ho incontrato l'America nel periodo dell'immediato post-Vietnam e, mentre sto scrivendo, siamo nel mezzo di un altro conflitto. Quando ho voglia di scherzare, dico che sono stata negli Stati Uniti per parecchi miliardi di hamburger McDonald's: gli archi gialli vantavano "60 milioni venduti" quando sono arrivata; adesso si tratta di "miliardi e miliardi venduti...".
In definitiva è proprio il rapporto con il passato la bussola che orienta il mio modo d'essere, nella scrittura come in altri aspetti della mia vita. Ho studiato archeologia greca e romana presso l'università "La Sapienza", e i miei interessi in quel campo erano equamente divisi tra topografia ed epigrafia. Le tracce del passato che emergono da uno scavo archeologico sono per me come cicatrici, o tatuaggi, su un corpo umano - segni concreti di una storia mai chiusa in se stessa, mai terminata davvero, anche quando il Tempo sembra dissolverla nell'oblio.
Da parecchi anni, non a caso, mi interesso del pensiero junghiano (specialmente per quanto si riferisce ad archetipi e simboli) e delle ricerche di Joseph Campbell e James Hillman sulla psicologia, il folklore e la mitologia comparata. Il passato e una lettura simbolica degli avvenimenti, degli oggetti e delle circostanze giocano un ruolo importante sia nella mia vita quotidiana sia nei miei romanzi. Per venire infine ai miei modelli letterari (più europei che americani, o viceversa?), mi considero un prodotto dell'educazione che ho ricevuto e dei miei gusti eclettici.
Da bambina, i fratelli Grimm e Salgari mi facevano compagnia con le irresistibili storie di avventura di Mino Milani sul Corriere dei Piccoli. Dopo aver letto i grandi scrittori francesi e russi, ho scoperto (prima in italiano, poi in lingua originale) Steinbeck e Faulkner, T.S. Eliot e Pound, Melville e Conrad, Dickinson e Hemingway. Dico spesso di aver imparato tutto quello che ho bisogno di sapere nella vita in Cappuccetto Rosso e Moby Dick, entrambe storie ammonitive e metafore spirituali.
Ma sono anche pronta a confessare il mio amore per la poesia dolente e profetica di Pasolini; la tensione febbricitante e introversa di Yukio Mishima; l'estro visionario di Toni Morrison; la melanconia da "esule perenne" di Josef Roth; il disincanto composto, eppure così caldo, così solidale con la fatica di vivere, di Georges Simenon, un maestro assoluto di ambientazione e psicologia, e non soltanto nel genere della letteratura poliziesca.

Dunque, per concludere (e ammesso e non concesso che tocchi a me stabilirlo), che cosa c'è stampigliato sulla mia carta d'identità di scrittrice? Da anni, ormai, mi sento un'italiana qui negli USA (sì, a dispetto del mio status legale di cittadina americana e del mio insegnamento nelle università locali); d'altro canto, spesso mi sento - o mi fanno sentire un'americana in Italia. A Roma, dove sono nata, i negozianti gentili mi parlano dapprima all'infinito, finché faccio loro presente, in italiano, che, tante grazie, parlo italiano. La consistenza, la luce, il profumo e i suoni dell'Italia sono sempre con me; la sua antichità, il suo dolore, la sua rabbia, la sua gioia. Il suo cinismo che nasce dalla sofferenza, la sua generosità innata. I suoi difetti e le sue virtù. A volte dico ai miei amici americani che sono una missionaria, e che la mia religione è la cultura italiana. La vita qui nel Vermont (quattro ore a nord di Boston e un'ora a sud del confine canadese) e il lavoro all'Università sembrano essere quanto mai lontani dal mondo della guerra e della detection: e tuttavia, è precisamente questa distanza che mi permette di esplorare con tranquillità le questioni del bene e del male. È questa distanza, limitata da verdi montagne e chiari cieli nordici, che tiene vivo il mio affetto sconfinato per l'Europa e l'Italia. E la mia scrittura nasce da questo affetto, come un'emigrante che senta il bisogno di uno specchio magico in cui contemplare nel ricordo le sue radici autentiche, e i vivi e i morti che ama.

Vermont College, Montpelier, USA, marzo 2002

in appendice a Luna Bugiarda

Fausto Bailo

Intervista a Ben Pastor

Quando è nata in lei la passione per la scrittura?

Forse da quando mi sono appassionata alla lettura. E non necessariamente quella fatta da me: anche quella che ascoltavo dai grandi prima di saper leggere. Di recente ho trovato certi piccoli versi che dettavo a mia madre a quattro anni: cose di nessun valore, a base di fiorellini e passerotti, tuttavia già il segno di un interesse per la narrazione che mi avrebbe seguito per sempre.
Ho avuto scrittori in famiglia, e forse l’emulazione ha avuto il suo ruolo. Professionalmente parlando, posso dire di avere cominciato a scrivere intorno ai ventun anni, concedendomi poi una lunghissima gavetta per affinare lo stile prima di cimentarmi con il mondo dell’editoria.

Quali scrittori l’hanno influenzata di più?

Nel genere giallo, senza dubbio Georges Simenon, vero maestro d’inventiva, stile e umanità.
Fuori del genere, fra i classici e il mainstream, sarebbe impossibile enumerarli tutti: sono una lettrice avidissima.
Oltre alla grande letteratura russa, francese, inglese e americana, ho una speciale predilezione per Toni Morrison, Cesare Pavese, Joseph Roth, Eudora Welty: da questi quattro in particolare ho cercato di imparare.

Quando è nato il personaggio letterario Martin Bora?

Circa una ventina d’anni fa, attraverso una progressiva messa a fuoco delle sue caratteristiche. Al riguardo, può essere utile aggiungere perché è nato: dall’esigenza di parlare attraverso una voce diversa di grandi crimini, di coscienza, e di chiarezza intellettuale.

Nel creare il personaggio di Martin Bora si è ispirata a personalità del passato?

A parte naturalmente il suo alter ego dichiarato, lo sfortunato attentatore alla vita di Hitler, colonnello Claus von Stauffenberg, Bora ha degli antenati ideali significativi, dal riformista Lutero (fra l’altro davvero suo parente, dato che sposò Katharina von Bora) a Henry David Thoreau (trascendentalista e amante della natura), dagli esploratori Lewis e Clark al giovane Hemingway.

Descriva con un'opera artistica la personalità di Martin Bora.

Facile! Il Cavaliere, La Morte e il Diavolo di Albrecht Dürer, anno 1504 [1513]. Un’incisione in cui un severo cavaliere in armatura procede in sella, ignorando le paurose figure che ne minacciano l’avanzata. Lo accompagna il suo istinto animale, sotto forma di un energico segugio che corre agilmente fra le zampe del destriero. Coraggio, onore, fede, stoicismo, dunque - ma anche una vitalità animale non priva di leggerezza.

Con quale autore piacerebbe a Ben Pastor scrivere un libro a quattro mani?

Mmm… La domanda implica che dovrebbe piacermi condividere la stesura di un testo, cosa di cui non sono affatto sicura. Ma non per ragioni egoistiche: perché conosco bene come sia individuale il processo creativo, e quanto specifica sia la voce di un autore.
Sarebbe come chiedere a due pianisti non di eseguire insieme un dato pezzo, ma di comporlo insieme. Può succedere solo nel jazz. Amo il jazz, ma non saprei eseguirlo con successo.
Certo, se il mio idolo Georges Simenon fosse in vita e mi chiedesse di affiancare Martin Bora al commissario Maigret (cosa che cronologicamente sarebbe possibile negli anni ’40), direi subito di sì!

grazie a: http://www.dianoratinti.it/

Bruno Quaranta

Luna bugiarda: con Martin Bora, dalla parte degli ebrei

Riecco Martin von Bora, il detective-ufficiale plasmato da Ben Pastor, al secolo Maria Verbene Volpi, natali romani, nazionalizzata statunitense, ora, temporaneamente, in Italia, fra Pavia e Piacenza, dove corre il quarantacinquesimo parallelo. Si scioglie guardando in ciel e ascoltando Mozart, Luna bugiarda, l’enigma fresco di stampa, eppure di già, come dire?, tramontato. Per lo suo autore, beninteso: «Eh sì, sto avanzando nella nuova avventura. Teme, temerà, il lettore, seguendo l’ultima storia ambientata in Veneto, che il mio eroe soccomba. Ma non tema, è di scorza dura, durissima».  

Che cosa accade a Herr Major? È vittima di un’imboscata partigiana, da cui esce con una mano mozza (come non riandare a Blaise Cendrars, à rebours, di guerra in guerra?). Ispirato a von Stauffenberg, l’ufficiale che organizzò l’attentato contro Hitler, Martin Bora, reduce da Stalingrado, agisce a Verona e nel Veronese. Tra un’operazione contro i «banditi», l’epiteto con cui venivano bollati gli eroi di Fenoglio, voltato in elogio da Pietro Chiodi, e un’indagine poliziesca, ruotante intorno all’assassinio di tal Vittorio Lisi, mussoliniano da subito. 

Ben Pastor («Pastor, il cognome del primo marito, Ben, la contrazione di Verbene, negli States Verbene non sarebbe apparso commestibile») ha il dono dell’ubiquità. Narrativamente sta a Creta, lo scenario del «giallo» prossimo venturo, fisicamente abita la Pianura Padana, in odore di nebbia. «In fondo discendo per li rami di un albero genealogico lombardo, un antenato secentesco insegnava Anatomia a Pavia, esemplare di una famiglia ricca solo di pensiero». 

Una missionaria Oltreoceano. «La mia religione è la cultura italiana» professa nella nota finale. «Quale cultura? Fra tarda antichità e Otto-Novecento. Fra l’età dioclezianea, dove, nel bene come nel male, in nuce è l’Europa odierna, e Alessandro Manzoni, I promessi sposi, il più forte nostro romanzo, per giungere a Giorgio Bassani. E a Anna Banti. E a Giovanni Arpino. Martin Bora riecheggia il capitano cieco Fausto di Il buio e il miele. Entrambi conoscono, patiscono, la menomazione fisica, il dramma che è». 

È la perfezione la mira e il rovello di Martin Bora. Nella vita militare come nella vita privata. Il matrimonio con la bella Benedikta, per esempio. Che cosa ne sarà, dopo la menomazione patita, che pure non ne ha scalfito la virilità? «Un rapporto fondato sull’optimum non è destinato a una lunga durata - conviene Ben Pastor -. Un matrimonio, per dirla con Don Lisander, che non s’aveva da fare». 

È dedicato, Luna bugiarda, «a coloro che si trovavano sui camion diretti ai campi di concentramento». Ché Martin Bora non è insensibile alla tragedia ebraica, Richiestogli di scortare un gruppo di ebrei in un Lager si strugge: «Come posso, da soldato giustificare tutto questo? Non c’è giustificazione. Qualunque autorità scelga, qualunque autorità invochi, non serve a nulla. Non serve a nulla. Non riesco ad uscirne, e non c’è nessuno a cui possa dirlo». 

No, Martin Bora non è Priebke. «Priebke - rammenta e distingue Ben Pastor - che ho ospitato in Kaputt mundi. Un burocrate, un travet della morte. Gli è estranea l’arisotocratica, mitteleuropea sensibilità di Herr Major. Per cui si tratta di salvare chi non ha fatto niente, neanche una scelta politica, per meritare la morte». 

Non SS, ma ufficiale della Wehrmacht, Martin Bora. Quale la sua impronta hitleriana? «È affascinato - una costante, allora, nel suo Paese - dall’uomo che può risollevare la Germania stremata, succube del trattato di Versailles». A ulteriormente provarlo non è forse la sua fede cattolica, ancorché per parte di padre risalga alla madre di Martin Lutero? Mentre il luteranesimo politico comporta un ossequio assoluto all’autorità. «È così. Sino agli estremi giorni, al ’45, svetta la pervicacia luterana, l’assoluta adesione al capo, al Führer, e al governo costituito. La fede cattolica accresce nel mio ufficiale l’angoscia». 

Martin Bora che non nasconde la disistima, financo il disprezzo, verso i fascisti, truffaldini e servili e corrotti e solidamente ottusi. Come il centurione De Rosa, che non esita: «Con tutto il rispetto, maggiore Bora, conosco meglio di voi il clima politico della regione. Vi posso assicurare che è fascistissimo». O magari no, qualche crepa, qualche eccezione c’era. Come non evocare i «piccoli maestri» di Luigi Meneghello, a cominciare da Antonio Giuriolo? «Indubbiamente. Ma scrivendo avevo in mente, anche, il pubblico americano, ancorato alle distinzioni semplici, radicali: i buoni e i cattivi, poco o nulla indugiando sulle sfumature, sulle zone grige». 

Luna bugiarda, il ritratto d’epoca che è, di là del coté politico-militare. Dove la femme fatale si chiama Claretta, il modello è Clara Calamai, trionfa il color rosa Liala, i telefoni sono bianchi, sul grammofono girano i dischi di Rabagliati: «Vieni, c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco...». 

grazie a: http://www.lastampa.it/ 21.11.2013

Matin Bora e il cinema

Le storie di Bora sono molto cinematografiche: hai avuto qualche proposta in passato per una trasposizione sul grande schermo?

In effetti, agli inizi del 2000, ci fu un forte interesse per un film ispirato a Lumen. Si ipotizzava una co-produzione con gli Stati Uniti e la Repubblica Ceca (quanto ad esterni e a teatri di posa). Purtroppo la catastrofe dell’11 settembre 2001, che suggerì all’industria cinematografica statunitense di bloccare sine die i progetti riguardanti lo “scontro di culture” (nel caso di Lumen l’opposizione tra nazismo e le sue vittime, anzitutto gli ebrei) determinò l’accantonamento del progetto, che non fu più ripreso. Qualche anno dopo una sorte analoga è toccata a Kaputt Mundi. Mi rendo conto che il mio è un personaggio “scomodo” per il mass market cinematografico (un eroe positivo, onesto, compassionevole, dentro la divisa più sbagliata che si possa immaginare!), ma confido che questi pregiudizi possano cadere, e Martin Bora possa trovare la strada di una trasposizione sul grande schermo.

Chi vedresti come regista di un film tratto da un tuo romanzo?

Ammiro molto tre registi che parlano di guerra e conflitti interiori: Sam Mendes (Skyfall, Jarhead), Kathryn Bigelow (The Hurt Locker, Zero-Dark-Thirty) e Aleksej German Jr. (The Last Train/Posledniy Poezd), perché, ognuno a suo modo, sanno trattare con intelligenza, umanità e potenza spesso visionaria le tematiche degli uomini al fronte. 

E quale attore nei panni di Martin Bora?

Problematica domanda. Il suo tipo fisico non coincide con quello degli attori di moda adesso: non basta infatti avere occhi chiari, o essere bruno e alto un metro e novanta per rendere l’idea. Secondo me, due attori degli anni ’40 e ’50 che si avvicinano come aspetto alla descrizione di Martin Bora sono Montgomery Clift prima del suo devastante incidente d’auto, e Gregory Peck. Per inciso, entrambi hanno qualcosa in comune con Bora: Clift infatti era un poliglotta, e Peck cattolico praticante.

Quale sarà il destino di Martin Bora dopo la guerra?

Fu il generale MacArthur a coniare il motto: “Old soldiers never die, they just fade away.” Benché non sia affatto vecchio (nel ’45 ha appena trentadue anni), per Bora dovrebbe valere questa massima, secondo cui il vero soldato non muore mai, semplicemente svanisce. Avidi lettori hanno proposto diverse soluzioni: dalla morte in guerra all’entrata di Bora nella NATO, ad una permanenza con la Legione Straniera in Indocina... perfino un suo ritiro nella Scozia materna “a giocare a scacchi con il vicario.” Dovrei chiedere a Martin, l’eroe stoico ma un po’ masochista, cosa voglia fare di se stesso!

grazie a: https://www.cinemaitaliano.info/ 02.03.2013