inizio rosso e giallo


Derek Raymond

 

Derek Raymond (pseudonimo di Robert William Arthur Cook, o Robin Cook, da non confondersi col mediocre autore di medical thriller Robin Cook), è nato a Londra nel 1931 e lì è morto, nel 1994.

Rampollo di un'aristocratica famiglia, con regolamentare castello, ha studiato a Eaton e non ha davvero imparato ad essere un gentiluomo britannico.
Abbandonato in fretta il mondo dorato e detestabile dell'establishement di Sua Maestà, ha girato per il mondo, facendo mille mestieri (il contadino in Francia, il vignaiolo in Toscana, il commerciante d'auto in Spagna, il trafficante di materiale porno negli Stati Uniti, e chissà cos'altro).
Naturalmente scriveva da sempre, ma gli editori non ne volevano sapere, finché a Parigi qualcuno capì che si trattava di un vero e proprio maestro del noir. E tra i più duri.


  • Atti privati in luoghi pubblici (Public Parts and Private Places, 1969) Meridiano Zero, 2004
  • Gli inquilini di Dirt Street (The Tenants of Dirt Street, 1971) Meridiano Zero, 2004
  • E morì a occhi aperti (He Died with His Eyes Open, 1984) Meridiano Zero, 1998, 2003, 2007, 2013; Fanucci, 2016
  • Aprile è il più crudele dei mesi (The Devil's Home On Leave, 1984) Meridiano Zero, 1998, 2004, 2013; Fanucci, 2016
  • Incubo di strada (Nightmare In The Street, 1988) Meridiano Zero, 2010
  • Il mio nome era Dora Suarez (I Was Dora Suarez, 1990) Meridiano Zero, 1999, 2000, 2006; Fanucci, 2016
  • Stanze nascoste (Hidden Files, 1992) Meridiano Zero, 2011 - autobiografia
  • Il museo dell’inferno (Dead man upright, 1993) Meridiano Zero, 2002; Fanucci, 2017
  • Quando cala la nebbia rossa (Not Till the Red Fog Rises, 1994) Meridiano Zero, 2017
  • Come vivono i morti (How the Dead Live, 1994) Meridiano Zero, 1998, 2005, 2010; Fanucci, 2016


Arnould de Liedekerke

Derek Raymond: il lord del poliziesco

A Derek Raymond piacciono le Gauloises con filtro, Jean-Paul Sartre, Dashiell Hammett, George Brassens e l'Aveyron. Ma storce il naso al solo nome di Margaret Thatcher e Agatha Christie. Suddito di Sua Maestà cresciuto tra Eton e il castello di famiglia del Kent, Robin William Arthur Cook, più conosciuto come Derek Raymond, sessantadue anni appena compiuti, ha deciso molto presto che i privilegi, le lusinghe e le usanze dell'establishment gli andavano a genio quanto una tazza di tè. E a Derek Raymond, molto semplicemente, il tè non piace. O con gran moderazione. Parlategli di lager a botti, di uno o due bicchieri di buon vino, e andrà benissimo. Dal Sud-Ovest della Francia, dove ha trascorso quasi dieci anni a mondare le viti, "Cookie", come lo chiamano a Dean Street i suoi amici del French Pub, ha assimilato delle abitudini cocciute: un berretto che non abbandona mai, come un talismano, un accento che si può tagliare con la lama di un coltello: quando Raymond si esprime in francese, sonore esclamazioni come "Putaing!" o "Pardi!" punteggiano i suoi discorsi. Lui lo chiama il suo accento del "Mezzogiorno meno un quarto".
Lo ritrovo oggi dopo qualche anno al Coach and Horses, un pub del West-End che è il suo quartier generale, e Derek Raymond non è cambiato: è la solita figura di eterno giovanotto dinoccolato, qualcosa tra un trampoliere e un uccello notturno. E sempre, come parte essenziale di questa goffaggine, di questa lunga e strana carcassa, come un'anima, un motore e la sua scintilla, il gusto della vita, il cuore in mano.

Nato il 12 giugno 1931 in Baker Street, a qualche passo dalla casa del vecchio Holmes, Derek Raymond s'impone oggi come uno degli scrittori di romanzi neri più originali del nostro tempo. Uno dei più forti, come si direbbe per un liquore, da Raymond Chandler, Jim Thompson, David Goodis: leggere I Was Dora Suarez lascia fulminati, stende al tappeto. Baudelaire - che Raymond conosce a menadito, scommetteva sulla metafisica del dandismo; se si dovesse scommettere su una metafisica del poliziesco, Raymond avrebbe tutte le caratteristiche del cavallo vincente.
Di corse, il suo "gusto della strada" gliene ha fatte fare parecchie. Quindici romanzi alle spalle, cinque matrimoni e ogni tipo di mestiere in ogni tipo di paese, Mosca, Algeria... Soho l'ha conosciuto come uomo di paglia per i più grossi furfanti dei sixties. In Spagna, sotto Franco, il traffico delle auto d'occasione. La Toscana l'ha visto vignaiolo. La Francia, operaio agricolo dalle parti di Millau.
E durante tutte le sue varie metamorfosi, Derek Raymond scriveva. Senza successo. A Parigi, Marcel Duhamel presiedeva ancora ai destini della Série Noire. Un romanzo di Raymond, The crust on its upper, gli passò per le mani e lo colpì, lo tradusse lui con il titolo Crème anglaise, e così iniziò...

L'intervista

Qui a Londra, dove ha ottenuto una certa notorietà, si parla ancora di lei sulla stampa come Derek Raymond. Perché?

Capita che io non sia l'unico autore di romanzi polizieschi a chiamarsi Robin Cook. Ce n'è un altro, un americano. A un certo momento, io non avevo scritto niente da parecchio, il mio editore mi ha spinto a prendere uno pseudonimo. E ho scelto i nomi dei miei due amici preferiti, Derek, Raymond, che purtroppo oggi sono morti.

L'altro Robin Cook, "chirurgo di formazione" secondo le quarte pagine di copertina, è un autore di "thriller medici" che vanno piuttosto bene. Ha letto qualcuno dei suoi libri?

Sì, uno solo. So che vende molto negli aeroporti. Non ricordo il titolo che ho letto. Mi ricordo soprattutto dell'amica che me l'ha dato dicendo "Ecco quello che dovresti scrivere, ecco uno scrittore" ....

Lei non ha una natura particolarmente espansiva. Come le è venuta l'idea di scrivere un libro di memorie?

A me da solo quell'idea non sarebbe mai venuta. All'inizio era una richiesta di un editore parigino molto corretto, ma che ha finito per rifiutarlo. Era circa cinque anni fa, all'epoca in cui lì a Bourg, a casa mia nell'Aveyron, stavo terminando Dora Suarez. Quando ho presentato il manoscritto, l'hanno trovato, come dire, non abbastanza... aneddotico. Credo che si aspettassero da me una maggior quantità di storie personali, con nomi di persone famose, di scrittori - come se ne conoscessi! -, delle cose divertenti sulla mia vita, sul quotidiano, e forse meno riflessioni sulla scrittura, sul mio lavoro di scrittore, qualcosa di veramente "duro" insomma, ma da non trascurare se si vuole andare avanti... lo avevo preso la cosa molto seriamente. Un altro editore, Rivages, l'ha accettato senza che dovessi cambiare una virgola.

-Questo "percorso", appunto, si scopre anche, in The Hidden Files (l'autobiografia, N. d. T.), un destino poco banale. Tutto inizia con una scenografia da Piccolo Lord, i colleges, Eton, la governante, dei domestici, un castello, per poi precipitare, come dice lei, "nella strada", ma deliberatamente. La sua infanzia com'è stata?

Torbida. Per la mia famiglia contavano solo gli affari, le assicurazioni, il tessile su cui si basava la sua fortuna, e il castello di Roydon, a cinquanta chilometri da Londra. La letteratura non li interessava minimamente, a parte qualche classico. O Dickens, di cui non capivano niente. La mia infanzia, a dire il vero, assomiglia un po' a quella che Sartre descrive ne l'Enfance d'un chef. Con la differenza che per me, dall'età di sette, otto anni, era già tutto finito, e mi sono detto: qui c'è qualcosa che non va... lo sono nato nel '31, in piena recessione, c'era il crac della Borsa e il crac di tutto. Era questo il mio inizio sul pianeta, per non parlare della guerra. C'era veramente la miseria a Londra e molto presto mi sono posto la domanda: perché vivo nella bambagia se là in basso c'è della gente che elemosina nella strada? No, la borghesia proprio non mi andava. Ancora oggi, anche se ho la pelle abbastanza dura e comincio a trasformarmi in un membro, come dicono, della Terza Età, sono molto impressionabile e mi lascio sconvolgere enormemente.

Dalla miseria delle persone?

Proprio così! Insomma, non voglio generalizzare, parlo solo per me stesso, ma a che scopo trasformarsi in uno scrittore se non ci si lascia toccare dalle cose? Il mondo odierno è sempre peggio: ognuno per sé! Scrivere aiuta a rendere comprensibile la sofferenza. Come dicevo a uno dei miei amici, Jean-Paul Kauffmann: una volta che hai chiuso la porta della strada, è finita, vecchio mio' Ti distacchi dalla vita della strada, ti chiudi in casa, hai tutte le comodità e incominci a scrivere: hai perso in partenza! Andare in giro, essere tra la gente, parlare con loro, anche per insultarsi ma farne comunque parte, secondo me per uno scrittore non c'è niente che possa sostituire tutto questo.

Nel Le soleil qui s'éteint (Sick transit, inedito in Inghilterra, N.d.T.) un personaggio spiega: "Nessuno può essere in forma migliore dell'anno precedente, una volta passata la quarantina." Lei ha passato i sessanta, ma ha l'aria di essere in forma perfetta...

Certo, pardi! Ho il fegato un po' arrugginito, ma cosa vuole, l'ho fatto lavorare il poveretto!

Quando è entrato a Eton?


Nel '44. II 6 maggio.

E andò male?

Di primo acchito. Tutto quello snobismo, le costrizioni, questa gente che ti sequestra dentro una classe sociale, la cui unica idea è di trasformarti in un potenziale ministro. Un'ossessione. Esattamente il contrario di quello che volevo. La mia famiglia non sapeva cosa fare di me. lo non avevo niente da spartire con loro, non ci intendevamo, era inutile...

A parte le differenze tra di voi, amava i suoi genitori?

No. Tra mia madre e me era la guerra civile, la peggiore delle guerre. Quanto a mio padre non provavo il minimo rispetto per lui. A sedici anni ho mollato tutto e me ne sono andato di corsa. Mi sono detto: è troppo! Volevo chiudere con tuffo. Quando si cominciano ad avere delle idee nere sulla vita, la vita "borghese", la vita secondo i genitori, secondo Eton, la vita non è più neanche un'ombra di vita.

Lei cita George Orwell nelle sue memorie, anche lui è passato per Eton.

Lo ha detestato anche lui, quanto me. E come lui io ho cercato di sputare fuori tutto, di espellerlo, di purgarmi, di trovare qualcosa di più sano.

Chi ha voglia di scrivere non ha necessariamente bisogno di rifiutare così radicalmente, se non la famiglia, almeno il suo ambiente. Evelyn Waugh, a esempio...

Tra lui e me le differenze sono enormi. Il che non mi impedisce di ammirarlo come uno dei migliori scrittori inglesi dei nostri tempi. Lui ci teneva alla "vita da castello", a me invece disgustava. Waugh voleva allo stesso tempo sia lo snobismo che la verità. E c'è riuscito, attenzione: cos'è che non ha messo a nudo! Quello che volevo fare io non era di demolire checchessia, volevo andare più in là, scendere "nella strada", seguire il mio istinto. E raro che ci si sbagli, quando lo si segue veramente. Un'altra cosa, dato che prendiamo Waugh come parametro: lui era essenzialmente incentrato sull'Inghilterra. Per quello che mi concerne, e può darsi che questo mi venga da parte di mia madre con le sue ascendenze americano-giudeo-polacche, io morivo dalla voglia di andarmene, di viaggiare, di andare a vedere altri posti, in Spagna, in Italia, in Francia, insomma che cosa succedeva al di là della Manica.

Cominciamo dal principio...

In Spagna, era al tempo di Franco, all'inizio degli anni cinquanta. Abitavo a Salamanca, ero "fidanzato" a una ragazza del quartiere, i borghesi avevano voglia di belle auto, che non si trovavano facilmente sul mercato: c'erano tasse enormi. Ne importavo dall'Inghilterra, delle Ford o auto di quel tipo, fino a Gibilterra. Poi le facevo passare in Spagna. Non c'era che un posto di frontiera, La Linea, ma con il mio passaporto britannico cosa potevano dirmi i doganieri? Targhe, certificati, era tutto in regola. In poche parole, mi trovavo a cambiare auto molto frequentemente...

Molte auto, un po' di traffici...


Un po'... parecchi! E poi, quando cominciavo a sentire puzza di bruciato, sono partito per Tangeri.

A cosa fare?

Per tenermi un po' in disparte...

E la scrittura, durante tutto questo?


Ma certo! Avevo già cominciato. Prima della Spagna. A Londra, a Chelsea, avevo un appartamento con un amico, giornalista al Sunday Express. Una notte, o meglio un mattino, rientrando da una festa, mi chiese: "Cosa fai nella tua stanza? Continuo a sentire il clac-clac di una macchina da scrivere, scrivi un romanzo o che?" Pardi! gli ho risposto. Lui ha letto tre righe e mi ha detto: "Fermo lì! Se vuoi farlo seriamente, taglia a fondo, niente lungaggini."... È il solo vero consiglio letterario che abbia mai ricevuto. Poi, tutto quello che avevo scritto prima, l'ho usato per accendere il fuoco. D'altronde qui nessuno ne voleva sapere.

Fino a
Crème anglaise.

Sì, nel 1962, al mio ritorno da New York dove avevo ero stato un anno. Un anno giusto.

Cosa faceva lì?

Dio solo lo sa... Mi sono sposato lì per la prima volta. Facevo dei lavoretti nel campo editoriale, vendite per corrispondenza, traduzione dallo spagnolo per delle riviste da due soldi. E soprattutto mi guardavo quella città, instancabilmente.

Lei ha lavorato per i fratelli Kray che sono sotto chiave da più di vent'anni per essere stati a Londra, i capi della mala.


Esatto. In realtà è cominciato tutto il primo dell'anno 1960. lo ero sbarcato a Bristol arrivando da New York. Ero in bolletta, avevo appena di che pagarmi il biglietto del treno per Londra. Mi sono precipitato al French Pub, e ho incontrato un vecchio amico, dei tempi di Eton, che si era lanciato nelle truffe ad alto livello. Mi ha proposto 'un lavoretto": quella sera stessa ero diventato titolare di cinque ditte di costruzioni edili, delle società di cartapesta... E dietro, da lontano, ma al comando di tutta l'operazione, c'erano i fratelli Kray, i "gemelli".

Si è scritto molto sui fratelli Kray, hanno anche girato un film su di loro. Com'erano?

Quel tipo di persone di fronte ai quali si diventa cadaveri. Controllavano tutto l'East End, metà della città. Il resto, la parte sud, era dei Richardson. Ma l'East End, il gioco, la prostituzione, erano in mano loro. Avevano tutto in pugno.

Soho, la mala, tutte cose che lei conosceva come le sue tasche. È stato venditore di riviste pomo, ha fatto per un po' il tassista di notte. Eppure a quell'epoca, gli anni sessanta, lei non ha mai smesso di scrivere. La Rue obscène (Tenants of Dirt Street) ad esempio, o Bombe surprise, un libro molto curioso. E poi, per più di dieci anni, basta, neanche una parola...

Tra ii '73 e l'80, è vero, non ho scritto niente. Ero operaio agricolo, potavo le vigne, tagliavo la legna con i gitani. In Francia. A Bourg, nel Sud-Ovest, nel 'Mezzogiorno meno un quarto", come dicono...

Quindi negli anni che ha passato a Millau ha rinunciato a scrivere?


Stavo nei vigneti tutta la giornata. Un lavoro sfibrante.

E poi ha ricominciato. Con
E morì a occhi aperti.

E un libro che ho sognato, ma veramente! Era in dicembre, di notte, e faceva un freddo cane! Avevo sei coperte addosso, e le finestre erano incrostate di brina. Mi sono risvegliato di soprassalto. Mi sono detto: questo devo assolutamente scriverlo. Non avevo nessuna voglia di muovermi, bisognava accendere il riscaldamento giù da basso, erano le tre del mattino. Ma avevo paura che mi sfuggisse, era più forte di me.

Ha dei modelli in letteratura?


Sartre. Quando ero giovane, a una certa epoca, ne potevo recitare pagine intere a memoria. Oppure... dei modelli... Orwell, Dostoievski... Zola, Maupassant. Chandler, ovviamente, Dashiell Hammett. Mi sono chiesto per molto tempo perché gli americani sono molto più forti di noi nel romanzo nero. E senza dubbio perché, molto semplicemente, noi siamo troppo timorosi. Non apriamo abbastanza le cosce...

Il poliziesco francese, il suo riferimento, è Jean-Patrick Manchette, non è così?

Pardi! Mi ricorderò sempre come mi ha accolto a casa sua, una notte a Parigi, sotto una pioggia battente alle quattro del mattino. E sono restato lì da lui per una settimana. L'unica cosa su cui non andavamo d'accordo era la politica. L'impegno, più esattamente. Lui era molto sessantottino. La politica? Lasciala ai fessi, gli dicevo, noi siamo scrittori...

Nelle sue memorie ritorna continuamente su quel romanzo chiave della sua opera, I was Dora Suarez, e soprattutto sull'esperienza molto intensa costituita dalla sua scrittura. Una specie di lunga notte, di discesa agli inferi...

Suarez
.... Per tutto il tempo in cui l'ho scritto, non sono stato capace di addormentarmi senza una luce accesa! Non faccia l'errore di confondere il Raymond che ha oggi davanti a lei, cordiale con tutti, pieno di entusiasmo, con l'altro Raymond, l'altro me stesso, quello di Suarez. Non è schizoide, è complementare. Suarez, il romanzo nero come lo intendo io, è un po' come se qualcuno - lei, io - facesse una passeggiata in un giardino pubblico una sera al crepuscolo, e si imbattesse all'improvviso in qualcosa d'orribile che lo sgomenta fino al terrore. La catastrofe, la morte. Allora, davanti allo schermo del computer, alla macchina, non resta che una sola cosa da fare: scrivere. Certo, non ci si può immergere a tal punto in una simile esperienza e uscirne incolume, come si era come prima. Non esistono mezze misure.

In
The Hidden Files lei parla della schizofrenia ("È la voce della coscienza che perde la ragione."), di Ronald Laing, dei rapporti tra l'arte e la follia. Soprattutto lei scrive: "L'arte (è) un incontro riuscito con l'esistenza, la follia un incontro mancato." Si trovano in lei delle considerazioni che ricordano certi surrealisti, o quel "romantico minore", Alphonse Rabbe, autore de L'Album d'un pessimiste. È pessimista?

Pessimista? E cosa vuol dire? Qui si vive, si muore... è ii contratto generale, non ci sono eccezioni. Certo, se mi guardo intorno, vedo che sono dei cretini che controllano tutto, che sono ai comandi, a! volante... Spesso mi dico: un giorno o l'altro, alla prossima curva, andremo fuori strada. Ma siamo comunque obbligati a operare entro quei parametri, non è così? Mi dice che siamo centinaia di migliaia in queste condizioni? Sicuro che l'esistenza è una corvé, ma non vale la pena di saltare giù dal tetto per questo! E per provare che cosa? La vita, puttana, la adoro! A diciassette anni ero molto più vicino di oggi alla morte, alla tentazione della morte. Perché ho imparato ad apprezzare e affezionarmi alla vita. A diciassette anni non accettavo il fardello che sembrava rappresentare.

Insomma, è abbastanza "filosofo".


Come Brassens. Ecco un filosofo! Aveva una mentalità da vignaiolo, un mestiere che conosco bene, l'ho fatto per molto tempo, in Toscana, in Francia, a Millau. E del resto mi ha sempre appassionato, la filosofia. La metafisica. Mi sarebbe piaciuto arrivare più in là, quando ero studente. Ma nei colleges, qui, non conoscono che la logica. E la logica applicata alla metafisica è come pisciare controvento!

Decisamente, è ancora molto severo con l'Inghilterra...

Non l'Inghilterra, la società inglese... questa sì che non riesco a inquadrarla! Ma mi piacciono molto gli inglesi, i miei "cari compatrioti". Certi almeno. Negli ambienti che frequento io. O gente come Francis Bacon, che ho conosciuto un po'... William Shakespeare, eccellente sceneggiatore del genere "nero", Wilkie Collins, Ted Lewis...

Si è trasferito di nuovo a Londra da tre anni. Perché?

È per mia figlia. Un giorno mi ha detto: "Papà, il tuo argot non va bene, è completamente fuori moda, oggi non si parla più così."... E così eccomi qua! Abito a Willesdon, i sobborghi a nord, un quartiere composto metà da neri, metà da irlandesi, gli inglesi sono piuttosto rari. È abbastanza lurido, ma mi trovo bene. C'è un pub simpatico di fronte a casa mia, lo "Spotted Dog", e la birra non è affatto cara.

La Francia?

È la Francia che mi ha "nutrito". Mi hanno tradotto, il mio aspetto glauco piaceva molto, e poi c'è stato l'adattamento al cinema di due dei miei libri: E morì a occhi aperti e Aprile è il più crudele dei mesi. In Inghilterra non mi conosceva quasi nessuno. E un giorno si sono detti: chi è quel fesso inglese che ha tanto successo laggiù?

Lavora molto?


Più vado avanti con l'età, più mi fa male stare seduto. Da giovane sono andato troppo in giro. E certe cose si pagano.

E quando non lavora?


Bevo. Al troquet. Per distrarmi, per ascoltare gli amici, gli altri. Quello che c'è di buono nella vita dei troquets di notte, dei bar, è che si è tutti "dentro" con la gente, a bere, a dire quello che capita, e si è allo stesso tempo anche "fuori": si può staccare, ci si può astrarre con la mente, lo lo chiamo "andare a teatro". Se mi chiudessi con il mio computer finirei per essere un relitto. Una settimana fa, a Soho, eravamo un gruppetto di artisti e ci siamo fatti rinchiudere nel pub dopo l'orario di chiusura. Siamo usciti verso le nove del mattino. Per andare a fare colazione dall'italiano lì vicino.

Con la bocca impastata?


Senza la bocca impastata, senza le notti in bianco, non ci sarebbero romanzi neri...

[da "Magazine Littéraire" n. 314, ottobre 1993 - traduzione di Marco Vicentini] grazie a drivemagazine.net