Massimo Bonfantini

Il giallo e il noir



Parte quinta. Gadda e Dürrenmatt: un requiem per il giallo?

1. Il Dottor H. contro i giallisti

Certo, dopo Maigret s’amuse, che è del 1957, Simenon scriverà ancora tante belle storie con Maigret. Ma quell’opera segna il punto d’approdo del giallo classico, del poliziesco classico. E, nel suo carattere divertitamente esagerato e favolistico, ha i tratti già di un elogio affettuoso e di staccato: ha i tratti di una celebrazione del grande detective depositario di ragione, verità e giustizia.
Ma le celebrazioni più perfette si fanno ai funerali, sulla tomba.
Poi segue la messa da requiem. Maigret si diverte chiude nel 1957 l’epoca del poliziesco classico. E nel 1958 lo svizzero Friedrich Dürrenmatt pubblica un romanzo intitolato La promessa: (due punti) (sottotitolo): Un requiem per il romanzo giallo.
E perché mai bisogna pregare invocando requiem aeternam, pace eterna, eterno riposo, per il giallo?
Ce lo spiega un personaggio di Dürrenmatt rivolgendosi all’autore:

A dire il vero, cominciò dopo un po’ il dottor H. mentre ci accingevamo a salire il passo del Kerenzer, a dire il vero io non ho mai avuto una grande stima per i romanzi polizieschi, e mi rincresce che anche lei se ne occupi. Tempo sciupato. Ciò che lei ha raccontato ieri nella sua conferenza a Coira non era affatto male, anzi; da quando gli uomini politici deludono in misura tanto grave, la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo, benché io non possa immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa. Ma purtroppo in tutte queste storie poliziesche ci si infila sempre anche un’altra ciurmeria.
Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i vostri criminali trovano la punizione che si meritano. Perché questa bella favola è senza dubbio moralmente necessaria. Appartiene alle menzogne ormai consacrate, come pure il pio detto che il delitto non paga - mentre basta semplicemente considerare la società umana per capire dove stia la verità a questo proposito - ma lasciamo correre tutto questo, se non altro per un principio puramente commerciale, dato che ogni pubblico ed ogni contribuente ha diritto ai suoi eroi e al suo happy-end, e tanto noi della polizia quanto voi scrittori di mestiere siamo tenuti a fornirlo nella stessa maniera.
No, quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l’intreccio. Qui l’inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità. Comunque, lo ammetto che proprio noi della polizia siamo tenuti a procedere appunto logicamente, scientificamente; d’accordo: ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore. O in nostro sfavore.
Ma nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che subito dopo diventa destino e concatenazione; da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. Mandate al diavolo una buona volta queste regole. Un fatto non può “tornare” come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari.
E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande. Le nostre leggi si fondano soltanto sulla probabilità, sulla statistica, non sulla causalità, si realizzano soltanto in generale, non in particolare. Il caso singolo resta fuori dal conto. I nostri metodi criminalistici sono insufficienti, e quanto più li perfezioniamo tanto più insufficienti diventano alla radice. Ma voi scrittori di questo non vi preoccupate. Non cercate di penetrare in una realtà che torna ogni volta a sfuggirci di mano, ma costruite un universo da dominare. Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna. Mandate alla malora la perfezione se volete procedere verso le cose, verso la realtà, come si addice a degli uomini, altrimenti statevene tranquilli, e occupatevi di inutili esercizi di stile.
Lei si sarà certo stupito di parecchie cose stamattina. Anzitutto del mio discorso, suppongo; un ex comandante della polizia cantonale di Zurigo dovrebbe avere opinioni più moderate, ma io sono vecchio e non me la do più ad intendere. Io so quanto noi tutti siamo problematici, quanto deboli siano le nostre capacità, con quanta facilità ci sbagliamo, ma so anche che nonostante tutto dobbiamo appunto agire, anche se corriamo il rischio di agire nel senso sbagliato.

La predica, che esprime la tesi del romanzo-saggio di Dürrenmatt, e che abbiamo letto dalle pagine 14-17 dell’edizione nell’Universale Economica Feltrinelli, è finita.
Comincia la storia. Che esemplifica la tesi. Che è la storia di un serial killer pedofilo. Che ammazza ragazzine. Un serial killer, che il bravissimo poliziotto Matthäi non riesce a catturare. Benché l’abbia promesso a una madre e a un paese intero. E benché la sua trappola sia precisa e perfetta. Matthäi ammattisce e continua ad aspettare un assassino che, si scopre anni dopo, e a pagina 187, che è la penultima del romanzo, un assassino che, partito in automobile verso il delitto e la trappola, “s’era scontrato con un camion ed era morto”.

2. Il tunnel di Dürrenmatt

In questo romanzo si enuncia dunque teoricamente come necessaria, e si realizza di fatto, una svolta. Una svolta nel modo di raccontare le storie criminali.
Il giallo non muore, ma allarga il suo spettro, e comincia a tingersi decisamente di nero e dei colori grigi del dubbio.
È il 1958. Lo spirito del tempo è cupo nel tempo della guerra fredda. Tuttavia, il Dottor H. del Dürrenmatt di questo romanzo prospetta una via d’uscita nell’impegno prudente del lavoro quotidiano per penetrare nella realtà e aggiustarne dei pezzi. Un lavoro da poliziotti, da scrittori, da cittadini.
Questa via d’uscita di esistenzialismo costruttivo e pragmatico sembrava impossibile al Dürrenmatt di qualche anno prima. Al Dürrenmatt autore del racconto intitolato Il tunnel, che è stato scritto nel 1951 e pubblicato per la prima volta nel 1952.
Racconto breve e fulminante, ispirato, per il suo simbolismo pervasivo a Kafka, e per la suspense vertiginosa e per l’inesorabilità del climax al Poe dei Racconti del terrore, sembra volerci dire che l’umanità è tutta dentro un tunnel, imbarcata in un treno senza conducenti che corre sempre più veloce alla rovina. Leggiamo il finale, dalla bella edizione con testo a fronte, Marcos y Marcos, Milano 1985:

Quando il giovane ebbe aperto la porta alla cabina del conducente, si fermò. “Vuota”, disse al capotreno, che si avvicinò a sua volta. “Il posto di guida è vuoto”. Fecero ingresso nel locale, barcollando per via della velocità terribile a cui il locomotore continuava a precipitarsi nel tunnel, trascinando con sé il treno.
“Il conducente?”, gridò il giovane. “Si è buttato”, gridò di rimando Keller, che ora sedeva sul pavimento con la schiena appoggiata al quadro dei comandi. “Quando? ”, chiese il ventiquattrenne con accanimento. Il capotreno esitò un poco e dovette accendersi di nuovo il suo Ormond. “Già dopo cinque minuti che ci eravamo accorti della variazione di tragitto”, disse poi. “Non aveva senso tentare un salvataggio. Anche quello del bagagliaio si è gettato dal treno”. “E lei?”, domandò il ventiquattrenne. “Io sono il capotreno”, rispose l’altro, “d’altronde, ho sempre vissuto senza speranza”.
Il capotreno considera suo “dovere” cercare di risalire il treno verso la coda, per tentare di sedare il panico prevedibile fra i passeggeri.
“Devo perlomeno tentarci” gridò il capotreno, ora ben in alto nel corridoio, puntando le cosce e i gomiti contro le pareti metalliche, ma quando il locomotore si inclinò ulteriormente per lanciarsi in una terrificante caduta verso il centro della Terra, cosicché il capotreno si trovava sospeso direttamente sopra il ventiquattrenne, che giaceva in fondo al locomotore, sulla finestra argentata della cabina di pilotaggio, il volto verso il basso, gli mancarono le forze. Il capotreno cadde sul quadrante dei comandi e si ritrovò a giacere, ricoperto di sangue, accanto al giovane, aggrappandosi alle sue spalle.
“Che cosa dobbiamo fare?”, esclamò il capotreno, nel frastuono delle pareti di roccia che si avvicinavano sempre più fulminee, all’orecchio dell’altro, con il suo corpo grasso incollato al vetro che lo separava dall’abisso.
“Che cosa dobbiamo fare?”, gridò ancora una volta il capotreno. Senza distogliere gli occhi dallo spettacolo, il ventiquattrenne rispose con spettrale ilarità:
“Nulla”.

3. Da Dürrenmatt a Gadda

“Nulla” è l’ultima parola del racconto. E naturalmente, come direbbe La Palisse, “nulla” è un’ultima parola, una morale della favola, nichilista.
Forse, potrebbe aggiungere un seguace di La Palisse, una storia che finisce con la parola “quasi”, e che resta in sospeso, è meno definitivamente nichilista e pessimista di una storia che finisce con un lapidario Nulla.
E così proprio finisce, con un bel “quasi’, e con una battuta sospesa la grande prova in giallo e in nero di Carlo Emilio Gadda: Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana.
Leggiamo questa ultima pagina, questa chiusa, che non è una conclusione:

“Sor dottó, che m’ho da ricordà?”.
“Ricordatevi di chi v’ha tanto aiutato, mentre lo meritavate così poco”.
“Sì, li signori dov’ero a servizzio: e perché nun me lo meritavo?”.
“I signori! La signora Liliana, potete dire! ché è stata sgozzata da un assassino! ”: du occhi, fece, che la Tina impaurì, questa volta: “da un assassino”, ripetè, “del quale aggio saputo il nome, il cognome!… e dove sta: e cosa fa…”. La ragazza sbiancò, non disse a.
“Fuori il nome!” urlò don Ciccio Ingravallo. “La polizzia lo conosce già chesto nome. Se lo dite subbito”, la voce divenne grave, suasiva: “è tanto di guadagnato anche pe vvoi”.
“Sor dottó”, ripetè la Tina a prender tempo, esitante, “come j’’o posso dì, che nun so gnente?”.
“Anche troppo lo sai, bugiarda”, urlò Ingravallo di nuovo, grugno a grugno. “Sputa ’o nome, chillo ca tieni cà: o t’ ’o farà sputare ‘o brigadiere, in caserma, a Marino: ’o brigadiere Pestalozzi”.
“No, sor dottó, no, no, nun so stata io!” implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de’ suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch’ella pareva scagliare audacemente all’offesa, in un subito corruccio, in un cipiglio:
“No, nun so’ stata io!”. Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe llà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi.


Per un esperto di gialli, o semplicemente per un lettore appassionato e attento, questa dichiarazione di innocenza (Non sono stata io!) del delitto, dell’omicidio, si badi, da parte della ex-domestica Assuntina, che era implicitamente accusata, nell’interrogatorio condotto dal Commissario Ingravallo, unicamente di complicità, può sembrare, come difesa non richiesta, excusatio non petita, quasi un’accusatio, una implicita confessione.
Questo, scrive Gadda, “la sua anima [di Ingravallo] era in procinto di intendere”.
Ma Ingravallo, scrive una riga sopra Gadda, “là pe llà”, lì per lì, sul subito, questo “non intese”.
Come mai? Perché fu quasi soverchiato dalla espressione, dalla grinta, dalla fisionomia “della ragazza”.
Ciò, scrive Gadda, “lo paralizzò, lo indusse […] a ripentirsi”. Ma non lo indusse a ripentirsi del tutto e a scagionarla. L’ultima parola è “quasi”.
Il romanzo si ferma. Ma noi ci domandiamo: quale sarà l’ultima decisione di Ingravallo? E riuscirà ad accusare in modo argomentato Assuntina e i suoi amici del furto dei gioielli nell’appartamento dirimpetto e poi dell’omicidio, a casa sua, lì in Via Merulana, della povera signora Liliana Balducci?
Ma il romanzo, parzialmente scritto fra il 1946 e il 1947, e uscito in volume da Garzanti nel 1957, dunque un anno prima del romanzo di Dürrenmatt, resta in sospeso.
A ragione Aldo Pecoraro, nel suo studio del 1998, su Gadda, pubblicato da Laterza, sostiene che Gadda ha voluto lasciare la sua storia in sospeso.

4. La storia in sospeso

Scrive infatti Pecoraro a pagina 133:

“Lo scioglimento problematico del giallo, con le voci su un secondo volume, possono far pensare a un’opera incompleta, mentre la strutturazione in dieci capitoli e la complessità ideologica ed espressiva di Gadda depongono per il libro concluso. La soluzione dell’opera programmaticamente non finita appare la più equilibrata e in linea con le soluzioni compositive dell’autore. Il romanzo è ambientato nella Roma fascista del 1927. La scelta del genere giallo, dato il divieto, negli ultimi anni del regime, di pubblicare gialli, è la prima tessera di un orientamento globalmente antifascista. Non più un giallo in contumacia, come succedeva per la Cognizione pubblicata tra il 1938 e il 1941, ma un giallo poliziesco esplicito. Anche l’invasione delle forme dialettali, data l’avversione del fascismo per i dialetti in generale e per il romanesco in particolare, rafforza una strategia antifascista”.

Don Ciccio Ingravallo era profondamente antifascista come il suo autore. Come Gadda, di cui fa da portavoce, straniato, in alcuni flussi di coscienza di furibondi attacchi mentali al “Duce”, intessuti di insulti dialettali soprattutto molisani.
Secondo la tradizione dei gialli e dei feuilleton e dei romanzi d’avventure, Gadda fa il ritratto fisico e morale del suo protagonista subito, ad apertura:

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandante della mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, omnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto.
[Ma] quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. “Già! ” riconosceva l’interessato: “il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto”. Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasighigno, tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia.

Certamente deve qualcosa il Commissario Ingravallo al suo contemporaneo Commissario Maigret. Ma è un Maigret più popolaresco, italicamente popolaresco e intimamente sboccato, e insieme più colto, più sensuale e insieme più filosofo, metafisicamente filosofo.
Combatte contro il fascismo che è il prodotto e il nutrimento insieme di una Roma che accelera la sua corruzione diffusa.
La metafisica di Ingravallo, e con lui di Gadda, la sua concezione della condizione umana, sembra insistere, più di quella del Dottor H. e con lui di Dürrenmatt, sulla pluralità e la complessità delle concause.
L’inerzia delle abitudini viziose e diffuse, la massività e la diffusione del male e delle omertà che lo sorreggono, la vischiosità del contagio e del continuo, più che l’irrompere improvviso e irrazionale del caso, frenano l’inchiesta di Ingravallo.
Il caso, invece, nello sviluppo vagabondo, da romanzo picaresco, della storia delle indagini, sembra talvolta giovare all’inchiesta. Come viene detto a metà libro, alla pagina 168 dell’edizione speciale per la Biblioteca di Repubblica:

“Il caso (non datur casus, non datur saltus) be’ viceversa pareva esser proprio lui a sovvenire i perplessi, a raddrizzare le indagini, mutato spiro il vento: il caso, la fortuna, la rete, più che ogni sagacia d’arte”.

Questa apertura al caso non poteva mancare del resto in questo romanzo di Gadda, che è sì un poliziesco autentico, ma che riprende le movenze analitiche, ma anche di effetto di realtà, del grande romanzo di storia contemporanea da Stendhal a Conrad, eccetera.
Perciò anche, per questo realismo storico, il finale indeciso. Le storie dei popoli, dell’umanità, delle donne, degli uomini, non vengono forse vissute sempre così sospese, incerte, indecise?
E forse che i giornali non sono pieni di cronaca nera di delitti ancora irrisolti, proprio come Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana?

5. Gli amici americani del noir: Woolrich e Highsmith

Benché, e forse proprio perché, non scrittori gialli “di professione”, bensì narratori di altissima qualità, Dürrenmatt e Gadda contribuiscono a un rinnovamento del genere giallo certo notevole, influenzando i nuovi giallisti, soprattutto in Europa e in Italia, per generazioni: a partire dai favolosi anni sessanta, che vedono l’esplosione di Giorgio Scerbanenco, il nuovo maestro.
Sicuramente né Gadda né Dürrenmatt, nei romanzi di cui abbiamo parlato, sono privi dei due nuovi caratteri dominanti nei gialli, anche i più facili e commerciali, del secondo novecento.
Voglio dire, anzitutto, del fascino, morbido e dalla perversa simpatia, con cui si tematizzano i nessi fra le tre esse: soldi, sesso, sangue. E voglio dire, in secondo luogo, del fascino di un montaggio a suspense.
Dürrenmatt fa riferimento addirittura a un delinquente così nuovo, irrazionale, odioso e mostruoso come è il serial killer maniacal-sessuale.
Gli scrittori americani più attenti alla loro realtà naturalmente lo avevano anticipato. Come per esempio Cornell Woolrich, nato a New York nel 1903. Che nel 1938 pubblica sulla prestigiosa rivista “Black Mask” il racconto di una trentina di pagine The Dancing Detective ovvero Il detective danzante (che trovate in una raccolta di più autori, in un volume degli “Speciali del giallo Mondadori”, uscito nell’ottobre del 1998, dal titolo L’ombra del mostro).
È la storia di un serial killer di ballerine, che secondo una sua logica folle si vendica della moglie uccidendo le ballerine entraîneuse, le ballerine a pagamento dei locali più modesti in una New York arida: di proletari e piccolo borghesi che lottano per la vita, e cercano di comprare e vendere un misero conforto alla solitudine.
Oltre che per la suspense e l’originalità dell’atmosfera di realismo nero, questo racconto del novecentesco allievo di Poe è una pietra miliare nella storia del giallo moderno, perché l’attenzione dell’autore e del lettore si sposta dal poliziotto istituzionale (che pure è ancora aiutante amoroso e necessario) alla testimone del delitto e vittima potenziale. La protagonista, Ginger, nel rapido incalzare della vicenda, diventa la vera detective, la detective ballerina, che scopre e incastra il colpevole. Uno dei primi casi di detective donna. E di persona comune, che si trova costretta dalle circostanze a inventarsi eroe o poliziotto. Come in tanti film di Hitchcock, tratti, appunto, anche da storie ideate da Woolrich (valga per tutti La finestra sul cortile).

Ma la grande trasformazione nelle storie di delitti, la più profonda trasformazione del giallo tradizionale, e la più consapevole fondazione della poetica di un nuovo sottogenere di suspense ‘nera’, sta nella liquidazione della figura e della funzione del detective, operata da Patricia Highsmith.
Come spiega in un suo affascinante libretto, intitolato in italiano (nell’edizione La Tartaruga Nera) Suspense: pensare e scrivere un giallo, e in inglese Plotting and Writing Suspense Fiction, che è del 1966, Patricia Highsmith trova “molto interessanti i criminali”.

“I criminali sono interessanti per quanto riguarda l’azione, perché almeno per un certo periodo sono attivi, liberi di spirito, e non si piegano davanti a nessuno” (pp. 50-51). Protagonisti delle sue storie sono criminali simpatici.

Il ripudio del principio giustizialista ortodosso viene espresso chiaramente a pagina 51 dell’edizione italiana citata.

Dice Patricia Highsmith:

Io trovo noiosissima e artificiosa la pubblica passione per la giustizia; dopo tutto, che giustizia sia fatta, non importa né alla vita né alla natura. Il pubblico, o per lo meno il pubblico generico, vuol vedere la legge trionfare; eppure il pubblico ama al contempo la brutalità. La brutalità deve essere dalla parte giusta, però. I protagonisti segugi possono essere brutali, privi di scrupoli sessuali, prendere a pedate le donne, e rimanere comunque eroi popolari, perché si presume che diano la caccia a qualcosa di peggiore di loro stessi.

In realtà, benché scriva che l’arte non c’entra con la morale, confessa anche la sua simpatia per lo scrittore Graham Greene, perché scrive “divertimenti” scritti “in una prosa abilissima”, e “perché è un moralista”. E aggiunge: “a me interessa la morale, purché non venga predicata”.
Una morale anarchica e una denuncia anarchica degli egoismi, e delle viltà, e delle complicità fra vittime e carnefici, diffusi nella società soprattutto americana contemporanea, sono l’ispirazione filosofica di una sua inventiva originalissima.
Inventiva originalissima nella proposta di situazioni e incontri al limite del paradossale eppure inverosimilmente credibili.
Inventiva originalissima negli svolgimenti improvvisi e sorprendenti del plotting, e inventiva originalissima nel ritmo indiavolato della scrittura, che rende con ritmo sincopato la rapidità delle azioni, ma anche la rapidità delle associazioni mentali dei protagonisti. Quasi sempre due in ogni romanzo.
Come nello straordinario esordio di Sconosciuti in treno. Il libro è del 1950.
La storia si snoda forsennata e inesorabile a partire dalla proposta, nell’incontro casuale in treno, di Bruno a Guy Rydal di un delitto perfetto: basato sullo scambio delle vittime e degli assassini. Bruno ucciderà la moglie di Guy. Guy ucciderà il padre di Bruno. Come va a finire non ve lo dico. Ma forse avete letto il romanzo o visto il film di Hitchcock.

Concluderò piuttosto con la lettura dell’incipit, che possiede un’eleganza di stile, avvolgente e sospeso insieme, di cui Patricia Highsmith si compiaceva:

Il treno procedeva con ritmo irritato e irregolare, fermandosi a tutte le piccole stazioni, sempre più frequenti, per sostarvi impaziente un momento e riattaccare poi la prateria. Ma il suo avanzare era impercettibile nella vasta pianura appena ondulata, come un’immensa coperta d’un bruno rosato scossa di tanto in tanto: più il treno andava veloce, più le ondulazioni si replicavano irridenti.
Guy distolse lo sguardo dal finestrino e si appoggiò alla spalliera del sedile.
Tutt’al più Miriam avrebbe rimandato il divorzio, pensò. Forse non voleva neppure il divorzio, ma solo denaro. Si sarebbe mai decisa veramente al divorzio?
Capì che l’odio aveva cominciato a paralizzargli la mente, trasformando in vicoli ciechi le vie d’uscita tanto razionali su cui aveva riflettuto a New York. Ora Miriam non era più così lontana, poteva quasi avvertirne la presenza; la pelle rosea, le lentiggini rossastre e quel malsano calore sprigionato dal suo corpo, proprio come dalla prateria là fuori. Miriam, maligna e crudele.