inizio rosso e giallo



Pepe Carvalho


In questo sito i personaggi di cui ci occupiamo sono quasi sempre nati dalla fantasia di uno scrittore, e quindi portati sullo schermo (grande e/o piccolo). Così è accaduto anche per Pepe Carvalho, creato da Manuel Vázquez Montalbán (Barcellona 1939 - Bangkok 2003), ma, a differenza che per i suoi colleghi, la nostra attenzione si fermerà solo sulle opere scritte.
Infatti non abbiamo visto nessuno dei film basati su questo personaggio: il primo è stato Tatuaje (1979), di Bigas Luna, e non ci risulta che vi sia una versione italiana; a cui seguono altri 3 o 4, anch'essi, ci pare, non distribuiti nel nostro paese. Nel 1999 una produzione italo-spagnola decide di realizzare 6 film per la tv, e presumibilmente avranno trovato ospitalità in qualche rete italica. Ma non vogliamo neanche saperlo: come avere un minimo di interesse per film i cui protagonisti principali - nelle vesti del detetcive e della sua amica-amante, Charo - sono il pur bravo Juanjo Puigcorbé e, udite udite, Valeria Marini?!
Apriamo, per chiuderla il più rapidamente possibile, una piccola parentesi su questa signora: fece le sue prime apparizioni in una qualche trasmissione di varietà, e il suo compito era quello di portare un soffio di erotismo patinato: infatti, se non ricordiamo male, avvolta da una musichetta sincopata e da un luccicante, aderentissimo, vestito lungo ella scendeva ancheggiando per le scale dello studio televisivo elargendo al pubblico plaudente sorrisi complici e curve generosissime del tipo 100-70-100. Vabbè, nell'inflazione di tette e culi questa presenza non cambiava molto, e poteva piacere o non piacere. Ma di lì è iniziata una carriera formidabile: con un po' di ciccia in meno la biondona totalmente incapace di alcunchè ha preso a imperversare sugli schermi televisivi, evidentemente perché qualche acuto esperto aveva capito che la sua aria angelico-puttanesca toccava corde profonde nel maschio italiota: insomma, l'ennesima superbonazza un po' scema, che però aveva qualcosa in più (centimetri? chili?). E allora improbabili coreografie per quell'agilità pachidermica, terrificanti esibizioni canore, fino al glorioso approdo sul palcoscenico: nientemeno che con un mostro sacro come Mario Scaccia in una pièce di Neil Simon. E - come notano i ben informati - suscitando parole di ammirazione da parte di Fellini, Zeffirelli, Sordi, ecc.
E poi via, chi la ferma più: successi televisivi a dir poco travolgenti, Helmut Newton che la immortala, fiction varie, cinema, e via delirando. Un fenomeno nazionale, una vera Diva.
Che dire?

Quindi, di Pepe Carvalho al cinema meglio non parlare.

Pepe Carvalho è nato a Barcellona, dove vive facendo l'investigatore privato. Ha un passato singolare: è stato comunista, ha militato nelle file dell'antifranchismo, è stato in prigione per la sua attività politica, ma poi si è trovato a lavorare alcuni anni per la CIA. Aveva una moglie, Muriel, totalmente presa dall'impegno politico, che lo ossessionava - anche a letto - con le questioni ideologiche, e questo ha irrimediabilmente allontanato Pepe dalla politica. Ma - la dittatura franchista durerà fino al 1975/6 - è ancora ricercato e per sfuggire a un nuovo arresto è costretto a espatriare: va negli Stati Uniti e trova un impiego come lettore di spagnolo all'università.
Ma è un lavoro precario, e quando un conoscente catalano gli propone entrare nel mondo dell'intelligence Pepe, pur di non restare a spasso, accetta e si ritrova poi tra le guardie del corpo degli insopportabili Kennedy (non CIA, dunque, perchè è il Secret Service l'organismo che si occupa della protezione dei Presidenti). Pepe ha davvero preso parte al complotto contro JFK? È stato addirittura lui ad assassinarlo?
In ogni caso l'agenzia vuole liberarsi di lui e Pepe ritorna in patria. Non si sa bene come e quando, ma comincia la sua attività di investigatore privato e come tale lo ritroviamo nella Spagna post - Franco. Dopo il disastroso matrimonio, Pepe si guarda ben dall'impegnarsi ancora in un rapporto "istituzionale" e così si lega - in una singolare liaison sentimental - erotico - culinaria - con Rosario Garcìa López, detta Charo, che fa la prostituta di lusso.
Carvalho suole guardare le donne dall’alto in basso, a metà strada tra la morale ugualitaria della gioventù che lo costringe a guardarle direttamente in faccia e le concessioni maschiliste permesse a se stesso mano a mano che invecchia."  (Storie di politica sospetta).
Suo amico - collaboratore - gourmet è Biscuter, già ladro d'auto (Biscuter era il nome di un'utilitaria molto diffusa nella Spagna degli anni '50) e con cui si erano conosciuti in galera. Discutono vivacemente di cibo, lo preparano, ne fanno "il tavolo dell'amicizia", e in quasi tutti i libri di Montalbàn restano tracce profumatissime di questa passione profonda (lo scrittore era davvero un esperto, tanto da aver raccolto in un volume la summa della gastronomia spagnola, oltre ad aver scritto vari saggi e articoli di sociologia del cibo).
Se poi siete affamati, di notizie, e volete davvero sapere tutto sulla vita di Pepe Carvalho, c'è una sua accurata biografia (pare autorizzata da Montalbán): Quim Aranda, Piacere, Pepe Carvalho, Feltrinelli, 1997.

Pepe non è il classico comunista pentito, anche se di quell'esperienza, e del clima culturale che ne era la cornice, conserva una memoria affannata, contraddittoria, tanto che ha l'abitudine di accendere il fuoco, nella propria abitazione, con i "classici." Ma è ben consapevole che "ciascuno è figlio delle proprie azioni “ (Storie di politica sospetta). Il fatto è che a un certo punto Carvalho "si sorprese schiavo di una cultura che lo aveva separato dalla vita, che aveva falsificato la sua sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell'organismo." (Tatuaggio)
E così identificò nella propria ricchissima biblioteca il totem da abbattere, la prigione che serrava la sua casa, con i libri, appunto, che facevano da sbarre: oggi Marx, domani Engels, e poi Adorno, Beckett, Dostoevskij, e via via nel camino si avviano tutti quei pezzi di carta pieni di "verità inutili." Magari ne compra ancora di libri, ma - dopo averli letti? - per esibirne il rogo davanti all'ospite sconcertato. Qualcuno gli ricorda che erano i nazisti a bruciare i libri, e lui ribatte di non essere come Goebbels che quando sentiva la parola cultura tirava fuori la pistola: "Io tiro fuori l'accendino." E avanti a sputtanare l'inutile e dannosa "ortopedia verbale" dei libri, che fanno dimenticare le virtù della vera cultura, quella delle cose che si possono toccare, odorare, cucinare.
"Ho letto libri durante quarant'anni della mia vita e adesso li brucio perchè non mi hanno insegnato a vivere."
Conrad e Garcia Lorca, però, non avrà il coraggio di bruciarli.

José Carvalho Tourón, detto Pepe, è profondamente distaccato, non sopporta più i riti della cultura di superficie, e men che meno quelli della cultura profonda, ha solo parole sarcastiche per la politica: ecco il dialogo con un'amica quando si ritrova a svolgere un incarico a Buenos Aires (dove peraltro è profondamente colpito dalla tragedia dei desaparecidos):

    - Si mangia in questa città?
    - Si mangia copiosamente, argentinamente - risponde Alma.
    - Marx ha detto che si conosce un paese solo quando si è mangiato il suo pane e si è bevuto il suo vino.
    - Marxista?
    - Sezione gastronomica.
Qualcuno lo ha definito "un Marlowe mediterraneo", ma, come per i vari Maigret scandinavi e svizzeri, ecc., si tratta di scorciatoie grossolane che non portano da nessuna parte. Pepe Carvalho è Pepe Carvalho, come tutti ha tratti di somiglianza con altri, e come tutti è unico; ci può essere più o meno simpatico, possiamo condividere o no le sue idiosincrasie e le sue passioni, ma Vázquez Montalbán ce lo fa amare, risolvendo, paradossalmente, la questione dei libri da bruciare: Carvalho non lo bruceremo, perchè nei suoi libri, nei libri in cui vive, c'è più vita che altrove.
E un altro grande scrittore di gialli, Andrea Camilleri (che di vita s'intende non poco) ha chiamato Montalbano il suo personaggio secondo voi perchè? (Sui legami Montalbán - Camilleri: www.vigata.org)




    i libri con Pepe Carvalho:

  • Ho ammazzato J. F. Kennedy (Yo maté a Kennedy, 1972) Feltrinelli, 2001
  • Tatuaggio (Tatuaje, 1974) Feltrinelli, 1991, 1993, 2015
  • La solitudine del manager (La soledad del manager, 1977) Feltrinelli, 1993, 1995, 2003
  • Un delitto per Pepe Carvalho (Los mares del Sur, 1979) Ed. Riuniti, 1982, o I mari del Sud, Feltrinelli, 1994, 2002, 2016
  • Assassinio al Comitato Centrale (Asesinato en el Comité Central, 1981) Sellerio, 1984, 2001; Feltrinelli, 2005
  • Gli uccelli di Bangkok (Los pájaros de Bangkok, 1983) Feltrinelli, 1990, 2002, 2015
  • La rosa di Alessandria (La rosa de Alejandría, 1984) Feltrinelli, 1995, 1997
  • Le terme (El balneario, 1986) Feltrinelli, 1996
  • Storie di fantasmi (Historias de fantasmas, 1987) Feltrinelli, 1999, 2007, 2016 - raccolta di racconti
  • Storie di padri e figli (Historias de padres e hijos, 1987) Feltrinelli, 2001 - raccolta di racconti
  • Tre storie d'amore (Tres historias de amor, 1987) Feltrinelli, 2003, 2007- raccolta di racconti
  • Assassinio a Prado del Rey (Asesinato en Prado del Rey, 1987) Feltrinelli, 2009, 2011, 2015 - raccolta di racconti
  • Il centravanti è stato assassinato verso sera (El delantero centro fue asesinado al atardecer, 1988) Feltrinelli, 1991, 1993
  • Le ricette di Pepe Carvalho (Las recetas de Carvalho, 1988) Feltrinelli, 1994
  • Il labirinto greco (El laberinto griego, 1991) Feltrinelli, 1992, 1994
  • Sabotaggio olimpico (Sabotaje olímpico, 1993) Feltrinelli, 2006, 2008, 2014
  • Il fratellino (El hermano pequeńo, 1994) Feltrinelli, 1997, 2001- raccolta di racconti
  • Luis Roldán né vivo né morto (Roldán ni vivo ni muerto, 1994) Feltrinelli, 2013, 2015
  • Il premio (El premio, 1996) Feltrinelli, 1998, 2000
  • Quintetto di Buenos Aires (Quinteto de Buenos Aires, 1997) Feltrinelli, 1999, 2001, 2014
  • Piacere, Pepe Carvalho (Carvalho 25 años , 1997) Feltrinelli, 1997 - raccolta di varie opere su Carvalho, a cura di Quim Aranda
  • L'uomo della mia vita (El hombre de mi vida, 2000) Feltrinelli, 2000, 2002
  • Millennio I: Pepe Carvalho sulla via di Kabul (Milenio Carvalho I. Rumbo a Kabul, 2003) Feltrinelli, 2004
  • Millennio II: Pepe Carvalho, l'addio (Milenio Carvalho II. En las antipodas, 2004) Feltrinelli, 2005
  • Storie di politica sospetta (Historias de politica ficcion, 1987) Feltrinelli, 2008
  • La bella di Buenos Aires (La muchacha que pudo ser Emmanuelle, 1997) Feltrinelli, 2013
  • Carvalho indaga, Feltrinelli, 2016 - raccolta di racconti da Cuentos negros
Quim Aranda

Intervista a Pepe Carvalho



Lo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán si è messo, per El Pais, nei panni di Pepe Carvalho, l'ormai celeberrimo investigatore dei suoi romanzi. In questa intervista, a rispondere in modo così laconico alle nostre lunghe domande, è in realtà - lo confessiamo - lo scrittore. Ma è come se parlasse il "suo" detective. Stiamolo a sentire.

A chi si sente più vicino, al Bogart di Casablanca o al Bogart del Falcone maltese e del Grande sonno?
Mi sento più vicino alla Ingrid Bergman di Casablanca.

Quando, all'inizio degli anni '70 e dopo aver passato un periodo di quasi dieci anni negli Stati Uniti, lei aprì il suo ufficio a Barcellona, gli investigatori privati non erano granché di moda in Spagna. Si sente un po' pioniere in questo campo? Quali sono stati i principali ostacoli che ha dovuto affrontare per avviare gli affari e diventare famoso?
Sono diventato famoso acciuffando gli assassini di uomini ricchi o potenti. Una cosa del genere è accaduta a Gabriel García Márquez quando ha vinto il premio Nobel: "D'ora in poi mi disse frequenterò solo duchi e presidenti".

La sua biografia è piena di lacune, il suo passato è torbido. Figlio di sconfitti della guerra civile, studente di sinistra all'università di Barcellona negli anni cinquanta, militante comunista, prigioniero del franchismo, agente della CIA implicato in avvenimenti storici di prima grandezza negli anni '60... Si è mai domandato il perché di questo andirivieni tanto radicale, quasi schizofrenico?
La mia vita ha un unico scopo: educare il buon marxista alle contraddizioni che albergano nella sua anima.

Non si sente uno spostato, un po' traditore di tutte le cause, compresa la sua?
Sì.

Per quasi vent'anni lei ha avuto una relazione sentimentale irregolare con Charo, una prostituta del quartiere cinese di Barcellona. Lei era la sua fidanzata, ma non era vero il contrario, almeno non nel senso classico. Le parole fedeltà e impegno in una relazione di coppia significano qualcosa per lei, o sono solo convenzioni morali tutto sommato reazionarie?
La lealtà è fondamentale in un rapporto di coppia, ma a partire dalle condizioni iniziali. Se incontri una persona vergine è un conto, se incontri qualcuno, uomo o donna, che si prostituisce è un altro conto.

Per caso o intenzionalmente, da quando lei è tornato a Barcellona si è sempre circondato di persone che avevano bisogno di lei: Charo, la fidanzata malgré tout, Biscuter, l'assistente, e Bromuro, il lustarscarpe spione che vive praticamente delle mance che gli dà lei. Dipende dal suo egocentrismo, dal bisogno di sentirsi utile agli altri pur senza ammetterlo, o è semplicemente un altro sintomo di quella schizofrenia che la contraddistingue e che la spinge a distruggere tutto quello che tocca, tutti quelli che la amano o che ama?
È una domanda troppo soggettiva. Non ho mai distrutto niente, perché non ho mai accettato qualcosa completamente. Le vittime cadono, non sono io che le faccio cadere.

Perché le costa tanta fatica amare e soprattutto lasciarsi amare? Un trauma infantile?
Non sono in condizione di ripagare affettivamente qualcuno in modo assoluto, l'unico che mi potrebbe interessare. Sono un platonico.

Allora il mondo è fatto di vittime e carnefici? Se dovesse scegliere, da che parte starebbe? Perché? Se ha scelto di stare dalla parte delle vittime è per un segreto movente sentimentale di solidarietà con i più deboli?
È perché sono cosciente delle mie debolezze segrete, della mia intrinseca fragilità.

Per molto tempo, lei ha coltivato due passioni, le donne e la cucina, ma soprattutto la cucina. Però, alla sua età, non ha più molta resistenza per queste due attività. A sessant'anni suonati, con che spirito affronta l'ultima fase della sua vita: rassegnazione, paura, impotenza, rabbia?
Cerco di segnare il tempo che mi resta con acrobazie sessuali giapponesi.

La vita e la storia sono state come se le meritava?
Sì.

Attraverso le sue indagini e la sua biografia, si può seguire buona parte degli ultimi venticinque anni di storia della Spagna e della società occidentale. Fino a che punto il suo atteggiamento cinico e disincantato, scettico e sfiduciato, provocatorio, ma in fondo passivo, riflette una diffusa sensazione di impotenza di fronte a un mondo che non è come l'aveva sognato la maggior parte della gente?
Il mio punto di vista è da cronista. E questo riflette l'impotenza sentimentale della ragione.

Senza anticipare nessun elemento essenziale della sua prossima avventura, La ragazza che potrebbe essere stata Emmanuelle* ["La muchacha que pudo ser Emmanuelle", pubblicato a puntate su El País nell'agosto 1997], può darci qualche informazione sul ruolo di Biscuter? Riuscirà finalmente a liberarsi dal giogo che lo sottomette a lei e che gli impedisce di vivere autonomamente? Charo tornerà dall'esilio in Andorra?
Biscuter mi ha chiesto di avere un ruolo più attivo. La sua domanda mi secca, ma la sua frustrazione mi seccherebbe di più. Charo tornerà con L'uomo della mia vita ["El hombre de mi vida"] all'inizio del '99.

Lei disprezza gli intellettuali, ma in fondo è come loro: ha la stessa formazione, usa gli stessi codici per capire la realtà. A che so deve la sua apostasia? Perché le piace bruciare i libri nel caminetto di casa? Non le sembra un po' reazionario? E non dica che la cultura non le ha insegnato a vivere e che, per questo, si vendica, perché questo sarebbe l'ennesimo alibi intellettuale.
Non disprezzo gli intellettuali, ma li conosco come se li avessi partoriti io. Sinceramente. A volte brucio il primo libro che mi capita.

Di cosa è pentito Pepe Carvalho? Di aver ucciso John Fitzgerald Kennedy o di non aver ucciso Francisco Franco?
Kennedy era robetta e Franco è sempre stato morto. Era la morte.

Nei suoi venticinque anni di carriera, lei ha indagato su piccoli casi, ma anche su delitti eccellenti. Dopo La ragazza che potrebbe essere stata Emmanuel quale mistero le piacerebbe risolvere: chi ha ordito la trama che ha portato Luís María Ansón [ex direttore del giornale conservatore ABC, monarchico] alla Reale Accademia di Spagna, perché Miguel Ángel Rodríguez [portavoce del Governo Aznar dal marzo 96 al luglio 98, personaggio molto singolare] continua a essere il portavoce del governo, chi è il responsabile della fuga in Italia di Ronaldo, quanti soldi in tangenti si sono rubati i mercenari della guerra delle piattaforme digitali?
Il caso Rodríguez. Si arriverebbe alla conclusione alla Unamuno che noi spagnoli siamo governati da organi. Aznar mantiene Rodríguez organicamente. E per la fuga di Ronaldo all'Inter, la colpa è sempre e soltanto di Rodríguez.


grazie a: l'Unità, 9 agosto 1997

Rosa Mora

Uno scettico cronista


Imparare a uccidere fu la cosa piú difficile. Pepe Carvalho ebbe un grande maestro, l'ex orologiaio svizzero Phileas Wonderful. "Le titubanze", gli diceva, "non nascono da una ripugnanza naturale, ma culturale". Carvalho non era ancora un detective e stava imparando il cinismo velocemente. Aveva lasciato indietro la militanza nel Partito Comunista, ma persino quando era ancora credente rimaneva fedele a Machado: dubita del tuo stesso dubbio. Pensava cosí già nel 1956, durante un incontro di giovani con Fernando Garrido, il segretario generale del partito che fu poi ucciso (Assassinio al Comitato Centrale, (Asesinato en el Comité Central, 1981)). La sua fede si ridusse poi a zero, e soprattutto si stancó di sua moglie, Muriel, che lo voleva sempre "nella ripugnante tensione della pretesa autenticità". Quando abbandonó Muriel e la fede le cose gli andarono meglio. Andó a lavorare negli Stati Uniti come lettore di spagnolo in un'università del Middle West, poi fu assunto per tradurre in un ufficio di informazione dello Stato, poi gli incaricarono dei lavori particolari e si ritrovó un bel giorno ad essere un agente della CIA. "O con Muriel o con la CIA".
Cosí nacque Pepe Carvalho in Yo maté a Kennedy (1972) [Io uccisi Kennedy]. Fu assunto come gorilla del popolare presidente, il cui futuro spirituale era scritto, secondo Carvalho, in The way, di Escrivá de Balaguer. Gli incaricarono di uccidere Kennedy. Lo fece? Ammette che accettó di prendere i soldi: "In questo modo distruggo in me qualsiasi alibi di convenzione morale".

Manuel Vázquez Montalbán scrisse questo romanzo (in tanti considerano che il primo della serie è stato in realtà Tatuaggio, Tatuaje) tra il 1967 ed il 1971, quasi assieme al suo Manifiesto subnormal [Manifesto subnormale]. Le case editrici Planeta e Seix Barral prepararono il suo lancio e la censura franchista la accettó alla prima ma non all'altra. Ad ogni modo finí nei tavoli dei reminders.

La personalità di Carvalho si sviluppa lungo una quindicina di romanzi ed un buon numero di racconti che il loro creatore rifiuta di ritenere polizieschi, preferendo la denominazione di romanzo-cronaca. Cronaca della Spagna della transizione, del disincanto, del rifiuto della cultura come filtro della realtà, del continuo interrogarsi. In contrasto con lo sperimentalismo precedente, questi sono testi realisti, pieni di un'ironia selvaggia, anche se, piú si incazza Montalbán con il mondo e piú ritorna allo sperimentalismo: si pensi ad esempio alla serie olimpica (Il labirinto greco (El laberinto griego) e Sabotaje olímpico [Sabotaggio olimpico]).

Carvalho lascia la CIA e, libero da ogni ideologia, fa ritorno in Spagna in Tatuaggio e incomincia a lavorare come detective privato ("siamo come dei termometri della morale corrente", dice a Biscuter ne I mari del Sud (Los mares del Sur), premio Planeta 1979). Incomincia a bruciare libri (i primi sono il saggio España como problema [Spagna come problema] di Laín Entralgo, ed il Chisciotte) e a preoccuparsi per conto suo di risultati. Ha risparmiato quasi mezzo milione di pesetas (quasi sei milioni di lire) e ne I mari del Sud ha quasi 1.200.000 pesetas (14 milioni di lire). Questi romanzi, assieme a La solitudine del manager (La soledad del manager, 1977), Assassinio al Comitato Centrale (Asesinato en el Comité Central,1981), La rosa di Alessandria (La rosa de Alejandría, 1984), Gli uccelli di Bangkok (Los pájaros de Bangkok, 1988) ed El premio (1996) [Il premio, che verrá pubblicato in Italia nel gennaio del 1998], sono i piú completi della serie.



Barcellona Fughe e ritorni, con inizio e fine sempre a Barcellona, storie impossibili, un Nord-Sud nella sua propria città (abita a Vallvidrera ed ha l'ufficio nella Rambla), solitudine, amarezza e scetticismo progressivi... sono alcune delle costanti. Ne La rosa di Alessandria Carvalho si sente vecchio? generoso? Chiede a Charo di andare a vivere con lui e lei risponde di no. Cosa fa lui? Va al mercato della Boquería a prendere gli ingredienti per una cena succulenta assieme al gestore Fuster, il suo amico. Per festeggiare cosa? "L'impossibilità di festeggiare niente".

Bromuro è morto, Charo è partita. Biscuter cerca di diventare indipendente, Fuster è preoccupato perchè tutti i suoi amici hanno infarti. Ormai a Carvalho non piace piú neanche la sua città. I Giochi Olimpici hanno ucciso tutti i batteri che gli permettevano di sopravvivere. In El premio invita Carmela (non la vedeva dall'Assassinio al Comitato Centrale, quindici anni prima) ad andare con lui a Buenos Aires, dove gli hanno incaricato di ricercare un desaparecido. Carmela rifiuta, ma Carvalho ci andrá lo stesso. Nel suo prossimo romanzo.

È stanco. Stanco di se stesso, della Spagna, di questa gente, ma continua ad essere il detective spagnolo piú popolare. Un punto di riferimento.


El Paìs, 19.2.1997 - traduzione di Carlo Andreoli - grazie a vespito.net

Chiara Gulino

Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán

In qualsiasi lavoro l’invidia e il sempre valido motto latino mors tua vita mea creano inevitabilmente antipatie, conflitti e discussioni.

Questo è tanto più vero in letteratura. La storia è piena dei cosiddetti “nemici di penna” che si sono scambiati insulti più o meno fantasiosi e coloriti: Robert Louis Stevenson definì Walt Withman «un grosso cane a pelo lungo, che appena sciolto il guinzaglio, dissotterra tutte le spiagge del mondo e ulula alla luna»; H.G. Wells accusò George Bernard Shaw di essere «Un bambino idiota che strilla in ospedale». Gli esempi potrebbero essere centinaia, con duelli anche ultraterreni tra vivi e morti.

Così non è stato invece fra Andrea Camilleri, il padre del commissario Montalbano, e Manuel Vázquez Montalbán, creatore dell’investigatore privato gourmet Pepe Carvalho. Anzi, le affinità erano evidenti anche ben prima di conoscersi nel 1998 a Mantova in occasione della seconda edizione di Festivaletteratura. Camilleri, recentemente insignito del Premio Pepe Carvalho 2014, ha chiamato il protagonista della sua serie di gialli di clamoroso successo proprio Montalbano, cognome assai diffuso in Sicilia ma soprattutto in omaggio allo scrittore catalano. Ne nacque infatti un intenso rapporto di amicizia letteraria.

Da quel primo incontro, testimoniato dall’intervista fatta dallo scrittore siciliano al collega, Skira ha tratto un libricino pubblicato nella collana di mini saggi SMS diretta da Eileen Romano: Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán (Skira, 2014).

CAMILLERI: «Io non avevo alcuna esigenza di conoscere Montalbán. So benissimo che nel 99% dei casi, quando si conosce uno scrittore amato, si hanno delle delusioni terribili. Quindi, non dovendolo sposare, ed essendo già sposato, perché dovevo conoscere personalmente Vázquez Montalbán? Bastavano i suoi libri che aspettavo con ansia. Senonché mi è capitato che dovevamo incontrarci a Mantova al festival della letteratura, dove io lo avrei intervistato: tutti e due avevamo detto di sì, all’insaputa l’uno dell’altro. Senonché c’è stato un invito gentilissimo di D’Alema, che avrebbe fatto da moderatore. Credo che sia stata da parte mia la curiosità di vederlo in quelle vesti a spingermi ad accettare l’invito. Ecco, quella è stata la prima conoscenza».

MONTALBÁN: «La prima notizia dell’esistenza di Camilleri è stata una notizia giornalistica. La mia traduttrice l’aveva letto, e anch’io ho cominciato a leggerlo. Poi, l’incontro è stato sotto gli occhi del “padrino” D’Alema, la parola padrino è innocentemente pronunciata, non c’è un secondo fine. E avevo una grande curiosità di conoscere D’Alema come critico letterario. E lui ha fatto una critica letteraria di un mio romanzo O Cesare o niente, e ha dato una curiosa interpretazione, molto gramsciana, del partito come Il Principe: questo è stato un motivo di conversazione con Camilleri, questa lettura molto particolare di D’Alema. Camilleri, che è un uomo molto generoso - una generosità che non è normale in uno scrittore, e che, da narciso, lui dissimula molto bene - ha dimostrato una grande conoscenza della mia opera. È vero che la nostra è stata un’amicizia vera, condizionata dalle letture, dagli incontri, e per questo per me è un piacere essere qui e rinnovare la possibilità di parlare in pubblico con Camilleri».

In questo godibilissimo dialogo i due si intrattengono sui più disparati argomenti: dalla letteratura alla politica, dalla cucina al calcio, in un costante confronto fra le loro due creature di cui è inutile nascondere le somiglianze. Amano il cibo e la letteratura, anche se Montalbano non brucia i libri come fa l’investigatore galiziano, ed entrambi hanno un rapporto complicato con le donne.

Pepe Carvalho, poi come tutti gli investigatori, è un personaggio di frontiera: «non è un personaggio socialmente identificabile, è un outsider, e questa condizione gli permette di intraprendere un viaggio di indagine, come se fosse nient’altro che un punto di vista, quasi un percorso tecnico».

A questo proposito Montalbán cita Leonardo Sciascia, modello anche di Camilleri, che in Breve storia del romanzo poliziesco attribuiva un aspetto metafisico al racconto poliziesco: «in un certo senso il romanzo poliziesco presuppone una metafisica, l’esistenza di Dio, della grazia, di un mondo al di là del fisico. L’incorruttibilità, l’infallibilità dell’investigatore, il suo ascetismo, il fatto che non rappresenta la legge ufficiale ma la legge in assoluto, la sua capacità di leggere il delitto nel cuore umano oltre che nelle cose, cioè negli indizi, lo investono di metafisica luce».

È evidente il rammarico di non essere una mosca per poter assistere tra un registratore, alcuni sorsi di birra e immancabili boccate di fumo, a questo interessantissimo scambio di opinioni tra due mostri sacri del genere come Andrea Camilleri e Manuel Vázquez Montalbán.

grazie a: http://www.flaneri.com, 07.07.2014

 

Alessandro Gori

Intervista a Manuel Vázquez Montalbán

Spesso accade, in particolare in Italia, che gli intellettuali non siano molto interessati al calcio, che viene considerato come una forma di subcultura. Manuel Vázquez Montalbán, al contrario, lo vive molto intensamente, soprattutto per la sua passione per il Barça.

Manuel Vázquez Montalbán: «Nell’ambito della divisione che i francesi fecero negli anni Sessanta tra cultura e subcultura, il calcio potrebbe considerarsi come subcultura, ma allo stesso tempo implica una serie di elementi che sono culturali: la conoscenza di una materia concreta, una partecipazione individuale e sociale, un patrimonio e una coscienza rispetto a questa materia. Inoltre esiste un’attribuzione di ruoli, che implica un rito, una liturgia. Durante un lungo periodo l’approccio degli intellettuali rispetto al calcio è stato duplice: quelli più avanguardisti hanno trattato il tema da un punto di vista soggettivo, cioè trasferendovi dei valori mitologici e simbolici. Nel caso spagnolo c’è una poesia di Alberti dedicata a Platko, un portiere del Barça, caricata di simbologia mitica, ma anche i futuristi italiani per esempio si dedicavano alla boxe».

Anche in Spagna però il calcio non diventa un fenomeno culturale di massa fino alla seconda parte degli anni Cinquanta.

MVM: «In quell’epoca un settore degli intellettuali più giovani, quelli che avevano già vissuto sotto l’influenza dei nuovi media – la radio, e in un secondo momento, la televisione – e che si erano formati culturalmente anche attraverso il cinema e la musica pop, si rese conto che si tratta di un fenomeno interessante sotto molti punti di vista».

È famosa la frase di Vázquez Montalbán secondo cui il Barça rappresenta «l’esercito simbolico e disarmato della Catalogna», che testimonia la particolarità del caso catalano.

MVM: «Qui esiste un valore aggiunto che è insolito: il club per una serie di circostanze storiche irripetibili diventa un simbolo politico, già da prima di Franco, con la dittatura di Primo de Rivera [il creatore della Falange, al potere tra il 1923 ed il 1930, NDR]. Durante la Seconda Repubblica, poi, le uniche due squadre spagnole che si impegnano in una tournée mondiale per raccogliere fondi in solidarietà con la Repubblica sono il Bilbao e il Barça e molti dei giocatori rimangono in esilio. Pertanto, esistono elementi che rendono obbligatoria una lettura diversa di ciò che significava il calcio, e non solo spiegandolo con panem et circenses, o pan y toros, nella variante spagnola».

Di fatto però nella penisola iberica, come anche in America Latina, non esiste una specie di vergogna che hanno gli uomini di cultura ad occuparsi di calcio.

MVM: «Anche in Spagna non è che ci sia stata una dedizione costante. Una volta un italiano vincolato al PCI mi spiegò che era tifoso della Juventus perché era la squadra di Togliatti e questo è un fatto presente nella memoria segreta del PCI. Comunque sia, inizia a presentarsi un fattore curioso: fino a qualche tempo fa il legame calcio-intellettuali-società poteva essere un vincolo ludico, ironico, sarcastico o innocente, in cui si dedicava una parte dell’innocenza all’essere tifoso di una squadra di calcio. Ora però si è complicato molto, perché di fatto con la crisi di identificazione delle società attuali le squadre di calcio si sono convertite quasi in referenti politico-religiosi, e costituiscono praticamente l’unica possibilità di partecipazione di massa, di integrazione, di vincolo, anche dell’uso della violenza sociale. Per tutto questo non si tratta più di un fatto tanto innocente, come in passato».

Il calcio è diventato ormai un’industria molto importante e anche per questo alcuni valori sono passati in secondo piano.

MVM: «È molto complicato: l’esempio italiano con Berlusconi che porta tutta la sua telegenia e il suo ruolo di dirigente calcistico in campo politico è lampante. Davanti al club di calcio c’è ormai un tipo di parvenu dell’economia, soprattutto gente che viene dal mondo della speculazione immobiliaria, uno dei settori di investimento che permette di fare soldi più velocemente e con meno scrupoli, e che poi vuole una affermazione sociale [era il caso anche di Josep Lluís Núñez, presidente del Barça dell’epoca che, per disgrazia dei catalani, riuscì a farsi eleggere e rimanere al potere per ben 19 anni, NDR]. Il modo migliore per ottenerla è investire tempo e denaro nella presidenza dei club di calcio, ed è chiaro che la conseguenza siano poi dei dirigenti impresentabili».

Nel caso specifico di Manuel Vázquez Montalbán l’“innamoramento” con il FC Barcelona risale alla sua infanzia, in una città in cui erano ancora profonde le ferite della guerra da poco conclusa e su cui incombeva, più che nel resto dello stato, l’incubo del franchismo. Lo scrittore, nato nel 1939 nella parte bassa del Raval, il Barrio Chino ovvero il “quartiere cinese”, successiva ambientazione delle peripezie di Pepe Carvalho, appartiene a classi popolari e di immigrazione: il padre, comunista galiziano, era arrivato a Barcellona all’inizio della Repubblica, mentre la madre, anarchica, era nata nella stessa città da genitori del sud, di Murcia.

MVM: «A quel tempo, subito dopo la Guerra Civile, essere del Barça era quasi come assumere un segno di identità: significava far parte della Catalogna. Questa riflessione non si produce lucidamente, è automatica, così come accetti il cibo del paese o alcuni valori simbolici, o più tardi la lingua. Inoltre io divento tifoso del Barça ed inizio ad essere un animale logico abbandonando lo stato pre-logico, proprio nell’epoca in cui il Barça vive uno dei suoi più grandi momenti, con l’arrivo di Laszi Kubala».

Fu grazie soprattutto a questo campione, tra i più emblematici della sua storia, che il club blaugrana conobbe uno dei migliori periodi sportivi. Spinto dalle difficili condizioni di vita sotto i regimi socialisti Kubala alla fine degli anni Quaranta era fuggito attraversando illegalmente la frontiera della natìa Ungheria lasciandosi alle spalle anche l’adottiva Cecoslovacchia (la madre era slovacca), paesi in cui aveva iniziato la sua carriera. Nei lunghi mesi di forzata inattività, in cui si era allenato anche in Italia con la Pro Patria di Busto Arsizio, il Barça era riuscito a fargli firmare un contratto. Anche se riuscì a schierarlo solo successivamente, a partire dal debutto ufficiale nell’aprile del 1951, dando inizio a quella storica squadra conosciuta come “el Barça de les cinc copes”.

MVM: «Solo allora si inizia a parlare e a capire meglio il significato del club: una delle tendenze di Franco dopo aver vinto la guerra fu eliminare il Barça, tanto che durante il conflitto venne fucilato anche il presidente del club».

Si tratta di Josep Sunyol, deputato alle Cortes (il parlamento spagnolo) per il partito catalano Esquerra Republicana, che in viaggio verso Madrid entrò inavvertitamente nella zona franchista: venne fatto prigioniero e fucilato senza processo il 12 agosto del 1936.

MVM: «Per le radici ideologiche di sinistra della mia famiglia, che aveva subito rappresaglie dal franchismo, questo club si fa dunque ancora più simpatico, perché significa la trasgressione. Che è allo stesso tempo una falsa trasgressione, perché è anche un club molto forte e potente per il sostegno, anche economico, che significa la sua massa sociale. In realtà, è una contraddizione anche al valore simbolico, visto che tutte le dirigenze fino alla presidenza di Montal, all’inizio degli anni Settanta, sono di destra, filtrate dal franchismo, che non poteva non controllare per lo meno indirettamente il Barça. Pertanto sono presenti molti elementi di simpatia politica, di rappresentazione simbolica, di identificazione etnica che hanno fanno sì che io diventassi tifoso allora».

Il calcio ben presto diventa un importante pretesto nella disputa politica tra il centralismo spagnolo e la ribelle identità catalana, con lo stadio che si trasforma nell’unico luogo in cui i catalani possono esprimere liberamente l’appartenenza alla propria nazione.

MVM: «Si sa che una vittoria del Real Madrid significava quella dello stato spagnolo, di Franco. Mentre se vinceva il FC Barcelona vinceva la diversità. Allora era molto chiaro: il franchismo giocava ad identificarsi con il Madrid, perché andava bene al franchismo, e non al club della capitale. In un’epoca di isolamento politico, ipocrita perché di nascosto si aiutava Franco in quanto sentinella del sud contro il comunismo ma ufficialmente non si trattava con lui, il Real Madrid si converte in un ambasciatore simbolico della dittatura. Nell’epica spagnola di fronte al mondo quella squadra, vincitrice delle prime cinque Coppe dei Campioni [dal 1956 al 1960, NDR], arriva come un regalo per il regime».

In un certo senso questi significati esistono ancora.

MVM: «Il fattore politico è ancora presente: molti sono tifosi del Barça perché posseggono questo riflesso condizionato, secondo cui quando vince il Barça lo fa l’intera Catalogna, così come quando perde sono in molti a gioirne nel resto dello stato. È un fatto che si è quasi incorporato alla memoria genetica dei catalani, allo stesso modo in cui gli animali sviluppano tutta una serie di condotte che gli vengono dal loro codice genetico»

Ma per i giovani nati dopo il ’75 che non hanno conosciuto i tempi bui della dittatura è sicuramente diverso.

MVM: «Per loro significa una militanza etnica, un segnale di identificazione e di differenza, far parte di una tribù urbana. Entriamo qui in un fattore completamente diverso, cioè sentirsi riconosciuti per appartenere ad una tribù concreta inserita in una causa generale, che poi sarebbe la vittoria del club. Ciò crea tutta una serie di riti: da quello violento a quello identificativo, all’attesa della domenica come l’ottavo giorno della settimana, quello della liberazione. Questo è un fenomeno completamente diverso, che forma ormai parte dell’incomunicabilità e della solitudine sociale e di massa contemporanea».

I tempi cambiano non solo sugli spalti, ma anche sul campo di calcio: l’uruguayano Eduardo Galeano, un altro grande intellettuale di lingua spagnola malato di Fútbol, nel suo libro “Splendori e miserie del gioco del calcio” si paragona ad un mendicante del bel calcio che se ne va ramingo per gli stadi del mondo chiedendo con il cappello in mano «una bella giocata, per amor di Dio».

MVM: «Da quelle parti si vivono le emozioni in maniera diversa. L’intellettuale in America Latina ha capito la bellezza del calcio e la trasmette in modo straordinario: gli scritti di Galeano ma anche di Valdano ne costituiscono un esempio. Tra l’altro proprio Valdano mi raccontava della distinzione che aveva fatto Menotti tra un calcio di destra, meschino, repressivo, opportunista che ricerca l’efficacia e che rinuncia al sogno e alla memoria (quello di Bilardo ad esempio) ed uno di sinistra, che viene accusato di essere romantico. Purtroppo, diceva, che il romanticismo prevalga sulla forza sarà sempre difficile. Questo pensiero era di Menotti, una persona militante di sinistra, con la contraddizione di essere stato il selezionatore della nazionale all’epoca della dittatura militare. Valdano mi ha spiegato cose interessanti su quest’argomento: di come Menotti aveva parlato ai giocatori prima della finale dei mondiali del ’78, dicendo che giocavano per la gente e non per la giunta militare e che per questo non stavano difendendo la dittatura ma la libertà».

Nonostante le sue particolarità, comunque, il Barça non si può definire un club di sinistra.

MVM: «Per il senso storico che ha avuto è stato un club la cui simbologia del collettivo era antifranchista. Ora è un club di calcio che conserva il carattere simbolico rappresentativo di una nazionalità, ma la composizione sociale del suo pubblico è normale, interclassista».

Ormai i giocatori non sembrano molto attaccati ai club e per questo è sempre più difficile che leghino il proprio destino ad una sola squadra.

MVM: «Con la globalizzazione del mercato calcistico, uno degli ultimi che mancavano a questo fenomeno, ogni squadra diventa una legione straniera. Nel caso del Barça siccome il pubblico conserva la memoria genetica di cui parlavamo secondo cui la squadra deve essere rappresentativa, ha fatto pressione mostrando i fazzoletti per tutta la stagione fino a quando l’allenatore Robson non si è deciso a schierare più elementi cresciuti nel club, la cosiddetta “Quinta del Mini” [la generazione del Mini Estadi, struttura in cui giocano le squadre minori, composta da Iván De la Peña, Roger, Òscar, Celades, NDR]. Il pubblico ha bisogno di questi giocatori per continuare a conservare il sogno che il Barça és més que un club. Perché non accetterà mai una squadra solo di stranieri, o forse lo farebbe solo se vincesse tutto».

È interessante capire come scatta la molla dell’irrazionalità.

MVM: «Qualsiasi relazione amorosa, ed il calcio ne è un esempio, si basa sull’autoinganno, perché se fossimo sempre totalmente lucidi esisterebbero solo relazioni sessuali. Sul campo di calcio accade lo stesso: hai bisogno dell’autoinganno, di mentire a te stesso, perché altrimenti la relazione analizzata oggettivamente e da lontano sarebbe stupida. Invece non lo è, perché è necessaria, perché implica soddisfazione. Per cui dovremmo analizzare le necessità reali e fino a che punto siamo schiavi di necessità artificiali, il che è molto complicato. Abbiamo visto che alcune società che volevano l’uomo nuovo, totale, hanno continuato ad utilizzare il calcio come strumento di alienazione: ad esempio ai tempi dell’URSS o nei paesi del socialismo reale si creavano riferimenti simbolici che in teoria erano artificiali, allo stesso modo in cui in Cecoslovacchia una vittoria sull’Unione Sovietica era vista come una vittoria sull’invasore. Ma non solo in quei paesi: le Olimpiadi ad esempio erano diventate uno strumento in più della Guerra Fredda».

In una recente intervista, Manuel Vázquez Montalbán spiegava come il Barça ed il calcio rappresentano per lui una specie di religione.

MVM: «Si trattava di un piccolo scherzo, che comunque risponde alla verità. Nel ’62 su una rivista italiana che si chiamava Ulisse c’era un articolo di Pier Paolo Pasolini che diceva che l’irrazionalismo era un aspetto troppo importante per lasciarlo in esclusiva alla borghesia. Tutti hanno una certa necessità di essere irrazionali, nelle piccole cose: il filtro della ragione funziona nella maggior parte dei casi, dipende dalla tua capacità di autocontrollo, ma poi esistono alcuni elementi che non controlli e che sono irrazionali. Io preferisco avere una religione minore ed un Dio minore come è il Barça e non essere religioso in politica o in amore per esempio: più importante è la religione infatti, più è pericolosa».

Ci chiediamo se anche Pepe Carvalho sia tifoso del Barça.

MVM: «No, lui è agnostico anche in campo calcistico» - tiene a precisare.

1997

grazie a: http://blog.futbologia.org