Uwe Friesecke

Darfur: le potenze occidentali orchestrano la disintegrazione del Sudan


Alla fine di luglio 2004 la crisi sudanese è entrata in una fase acuta con l'approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU della risoluzione stilata dagli Stati Uniti.

La situazione umanitaria per circa un milione di persone è catastrofica. 200 mila persone hanno abbandonato la regione del Darfur, dove infuriano gli scontri tra fazioni rivali per cercare rifugio nel vicino Chad o nei campi profughi in prossimità dei maggiori città del Darfur. Una mobilitazione della comunità internazionale è indispensabile per soccorrere i rifugiati attraverso le strutture delle Nazioni Unite. Cercare invece di sfruttare questa crisi per ricattare in maniera ancora più forte il governo di Karthoum, come fanno quegli ambienti che in occidente hanno caldeggiato la risoluzione e cercano di imporre le sanzioni o addirittura un intervento armato, significa scherzare con il fuoco: si rischia di mettere in moto un processo di disintegrazione del Sudan simile a quello che 15 anni fa ha distrutto la Somalia. Le conseguenze per l'intera regione, compresi i paesi vicini al Sudan, sono imprevedibili.

La crisi nel Darfur

La crisi in questa regione sudanese che copre un territorio vasto quanto quello della Francia trae origine, in primo luogo, dal deterioramento decennale della situazione economica di una popolazione sempre più numerosa. Una serie di siccità che colpirono la regione negli anni Ottanta costrinsero i nomadi del Nord a trasferisi più a Sud in cerca di pascoli per il bestiame. Così, le tensioni tradizionali tra le popolazioni nomadi e quelle stanziali, o tra pastori e contadini, si acuirono in maniera pericolosa. L'autorità centrale dello stato stenta a far sentire la propria autorità in questa regione dove usanze e consuetudini hanno un peso decisamente maggiore delle leggi decretate dal governo.
Un secondo fattore di destabilizzazione è costituito dai giochi di potere di fazioni diverse del vicino Ciad e delle élite sudanesi a Khartoum che cercano il loro tornaconto nella regione. Ad esempio, nel 1990, Idriss Déby diventò presidente del Ciad con un golpe organizzato proprio dal Darfur, dove contava sul sostegno della popolazione Zaghawa, che è distribuita nel Ciad e nel Darfur. Come reazione all'usurpazione del potere in Ciad da parte dei Zaghawa, altre popolazioni fuggirono dal Ciad per rifugiarsi nel Darfur, dove si costituirono delle milizie per combattere la maggioranza Zaghawa. Questa è una delle origini delle milizie Janiawid. Ma tutte queste popolazioni sono di religione musulmana e la loro differenza nasce dalla cultura e dalla tradizione e non tanto dalla religione o dalle razze.
Ciò che viene comunemente asserito - che questo conflitto nel Darfur vede gli arabi del Nord (nomadi e miliziani Janjawid) schierati contro gli africani più meridionali (contadini e ribelli anti-governativi) - non ha alcun senso appena si considera che i principali leader dei due gruppi ribelli, il Movimento/Esercito di liberazione sudanese (SLA) ed il Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (JEM) sono seguaci di Hassan al-Turabi. Il fondatore e presidente del JEM, Khalil Ibrahim, è un ex ministro che si schierò con al Turabi quando questi giunse alla rottura con il presidente sudanese Al-Bashir nel 2002.
L'attuale crisi nel Darfur è il risultato di un intervento attivo da parte delli ribelli dello SPLA (Movimento/esercito di liberazione popolare sudanese) - e il suo leader John Garang - che nel corso del conflitto che da decenni si protrae nel Sud del Sudan ha lavorato per gli interessi geopolitici anglo-americani.
Secondo un rapporto dell'International Crisis Group (ICG) di Bruxelles, nel marzo 2002 lo SPLA ha addestrato 1500 darfuriani nei pressi di Raja nell'occidente del Bahr el-Ghazal, nel Sudovest del paese. Queste forze costituirono il nucleo principale dei giovani militari che assalirono le istallazioni del governo nel febbraio 2003. La prima dichiarazione politica dello SLA, rilasciata il 13 marzo 2003, fu redatta da attivisti nel Darfur esiliati e da leader dello SPLA. Il presidente dello SLA, Abdel Wahid, ha ufficialmente incontrato John Garang ad Asmara, in Eritrea, nell'aprile 2004.
Sebbene Garang neghi di aver armato lo SLA, secondo i rapporti dell'ICG lo SPLA fa arrivare i rifornimenti allo SLA e al JEM non solo attraverso il Ciad ma attraverso l'Uganda e il Kenya. Lo SLA gode anche del sostegno dell'Eritrea.
Questo significa che la crisi nel Darfur non si può ritenere un sollevamento spontaneo di una parte della popolazione contro le ingiustizie del governo, o degli africani contro gli arabi, come fanno solitamente i mezzi d'informazione: l'operazione militare dei ribelli dello SLA nel febbraio 2003 era già stata pianificata un anno prima ed è parte di una strategia più ampia messa a punto dai sostenitori anglo-americani di John Garang e dello SPLA. Questo comprende anche la minaccia di secessione del Darfur dal Sudan che lo SPLA sbandiera ormai da venti anni. Questo è sottolineato dal fatto che i ribelli dello SLA avevano posto come condizione ai negoziati con il governo che le truppe governative sloggiassero dal Darfur e hanno abbandonato il luogo dell'incontro che era stato convenuto ad Addis Abeba quando il governo ha respinto tale richiesta.

La tenaglia geopolitica contro Khartoum

Né John Garang e il suo SPLA, né l'Eritrea, né l'Uganda disponevano della capacità di fomentare la ribellione del Darfur contro Khartoum senza l'attivo sostegno delle potenze anglo-americane. Dal 2001 l'amministrazione Bush cerca di dettare al Sudan i termini della pace per il conflitto decennale che ribolle nel sud del paese. La diplomazia americana e britannica ha attirato il governo sudanese del presidente al-Bashir nei negoziati di pace in Kenya, tenuti sotto gli auspici dell'Agenzia intergovernativa per lo sviluppo (IGAD). Ai rappresentanti di Bashir ai negoziati è stata estratta una concessione dopo l'altra. Il bastone era rappresentato dalla possibilità che Garang lanciasse una nuova offensiva militare nel Sud, con il pieno sostegno degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e dell'Uganda di Museveni e forte dei rifornimenti da essi ottenuti.
Nonostante ciò, a Khartoum vi fu molta resistenza alle scelte di Bashir. Alla metà del 2003 il presidente sostituì il capo della delegazione dei negoziatori in Kenya, Ghazi Salahedin Atabani, con il vice presidente Ali Sman Taha. La ribellione del Darfur del febbraio 2003 minacciava Khartoum con una guerra su due fronti, e, se si aggiungono i collegamenti dell'Eritrea e dello SLA al Beja Congress - gruppo di ribelli nel Sudan orientale - persino su tre fronti. A questo si aggiunse l'eloquente lezione dell'invasione dell'Iraq, tanto che il governo di Bashir non ritenne di avere alternative e finì per accettare quasi ogni richiesta per la pacificazione del Sud.
Gli accordi negoziati tra il governo di Bashir e lo SPLA di Garang, di cui si prevedeva al più presto una firma a Washington, alla presenza di Bush, avrebbe portato John Garang a ricoprire la carica di vice presidente a Khartoum e gli avrebbe conferito poteri politici in tutto il paese, poteri molto più vasti di ciò che il governo di Khartoum avrebbe ottenuto sul Sud del paese.
John Garang appartiene a quelo gruppo di leader guerriglieri che negli ultimi 18 anni sono stati portati al potere e rappresentano una nuova leadership africana. I più importanti sono i presidenti Museveni dell'Uganta, Kagame del Ruanda e Afewerki dell'Eritrea. Questi personaggi hanno voltato le spalle al marxismo radicale della loro gioventù diventando i fautori più fanatici dell'ideologia liberista del FMI e della Banca Mondiale. Si tratta insomma di marionette approntate dalle potenze anglo-americane per i propri maneggi geopolitici in Africa.
Il Sudan doveva essere messo in ginocchio per due motivi: primo, il petrolio, secondo l'acqua del Nilo. Fino ad ora infatti alle imprese americane non è stato concesso di partecipare allo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi sudanesi che secondo le stime dovrebbero contenere almeno 2 miliardi di barili di petrolio. L'estrazione fino ad oggi è stata affidata alla China National Petroleum Corporation, alla Petrona della Malaysia, alla Talisman Energy canadese, alla Gulf Petroleum del Quatar, alla Ludin Oil svedese ed alla Total Fina Elf francese. Il 25 luglio è stato firmato un nuovo pacchetto di investimenti, pari a 1,7 miliardi di dollari, per l'esplorazione di nuovi giacimenti petroliferi nel sud e per la costruzione di un nuovo oleodotto fino al Mar Rosso. In questo accordo figurano per la prima volta imprese inglesi e russe. Dopo il trattato di pace del Kenya tali accordi di estrazione petrofera saranno aperti anche ad imprese statunitensi.
Da un punto di vista strategico però la questione ancora più importante è quella delle risorse idriche. A Khartoun il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco confluiscono in un fiume unico che prosegue verso l'Egitto, di cui è l'arteria centrale. Da qualche mese le sollecitazioni anglo-americane hanno spinto l'Etiopia, il Kenya, l'Uganda e la Tanzania a rimettere in discussione il vecchio trattato per il Nilo che hanno con l'Egitto. Se Garang avrà voce in capitolo, il Sudan finirebbe per schierarsi con questo gruppo che, forte delle promesse anglo-americane, farebbe la voce grossa all'Egitto tenendolo sotto ricatto.
Nel gennaio 2001 il governo sudanese fu messo sull'avviso: l'amministrazione Bush non l'avrebbe trattato meglio dell'ex amministrazione Clinton. Lyndon LaRouche tenne il discorso principale ad un seminario che la rivista EIR aveva organizzato a Khartoum insieme all'Istituto di Studi Strategici sudanese sotto il titolo: "Pace attraverso lo sviluppo lungo il fiume Nilo". Lo statista americano avvertì il pubblico sudanese in merito alle intenzioni della nuova amministrazione Bush. Ma alcuni dei partecipanti sudanesi erano ancora così adirati nei confronti della politica di Bill Clinton verso il Sudan da sostenere che valesse comunque la pena di cercare di lavorare con la nuova squadra di Bush. Purtroppo i moniti di LaRouche sul conto di Bush sono stati tragicamente confermati dagli avvenimenti recenti nel Darfur.
Questa crisi è una nuova conferma sulla natura della politica cinicamente seguita nell'Africa occidentale. Prima, per decenni le istituzioni finanziarie globali, guidate da FMI e Banca Mondiale, hanno bloccato lo sviluppo del Sudan, del Ciad e di altri paesi della regione. Da qui nacquero inevitabilmente dissidi e attriti. Questi conflitti vennero alimentati con flussi di armi ben mirati che nessuno cercò di ostacolare. Le potenze occidentali, attraverso i mezzi d'informazione, dicono che i conflitti sono di natura etnica o religiosa e li manipolano nel contesto dei loro schemi geopolitici. Se questi conflitti sfuggono dal controllo la crisi umanitaria sarà sfruttata come il pretesto per dichiarare questi paesi "stati falliti" su cui "occorre" esercitare pressioni affinché avvenga un "cambiamento di regime". Secondo questo copione, l'occidente, e soprattutto la potenza anglo-americana (che la Francia si guarda dallo sfidare) ha le responsabilità principali per le guerre che dilaniano l'Africa negli ultimi 15 anni: Uganda, Ruanda, Burundi, Congo, Africa Occidentale e Sudan meridionale.
La crisi che precipita nel Darfur è solo l'ultimo episodio di questa tragedia. Certe forze a Khartoum forse contano di sfruttare questa situazione per trarne qualche vantaggio, ma resta il fatto che non è stato il governo di Bashir a iniziare il conflitto. Piuttosto, ha cercato di applicare il trattato che è stato firmato dal ministro degli Esteri Ismail e dal Segretario generale dell'ONU Kofi Annan il 3 luglio 2004, per disarmare la milizia Janjawid e per migliorare l'accesso ai campi dei rifugiati per gli aiuti umanitari. Il governo stesso ha chiesto aiuto all'Unione Africana.
L'accusa di genocidio non dev'essere rivolta al governo sudanese, ma dev'essere mossa contro coloro che in occidente gestiscono le manipolazioni geopolitiche come quella del Ruanda, di 14 anni fa, e poi del Congo.

[Executive Intelligence Review, N. 31, 6 agosto 2004]