Pietro De Gennaro

Giap

Vo Nguyen Giap (1911 - 2013) lo stratega e l’eroe delle più importanti battaglie susseguitesi nell’area geografica che i francesi occupanti chiamavano Indocina. Battaglie vinte con astuzia e grazie al forte coinvolgimento di tutto un popolo

"Il 13 marzo ’54 segnò l’inizio della seconda fase della campagna inverno-primavera. Aprimmo la grande offensiva contro il campo trincerato di Dien Bien Phu, e ciò apportò un elemento nuovo nella fisionomia della guerra. Attenendoci saldamente alla parola d’ordine: dinamismo, iniziativa, mobilità, decisione istantanea di fronte alle nuove situazioni, e sfruttando al meglio i nostri vantaggi sul fronte di Dien Bien Phu, avevamo modificato la nostra tattica e diretto il nostro attacco principale contro il più potente campo trincerato francese."
Questa citazione, da Guerra del popolo, esercito del popolo (’61) scritto da Vo Nguyen Giap, sintetizza la figura del più grande stratega militare-politico del '900. Un giudizio espresso anche da chi, come Robert Mc Namara, allora segretario alla difesa di Lyndon B. Johnson, è stato il suo più acerrimo nemico durante gran parte dell’occupazione Usa del Vietnam. Giap è stato lo stratega e l’eroe delle più importanti battaglie che si sono susseguite in quell’area geografica che i francesi occupanti chiamavano Indocina.

Giap, uomo di legge, non ha mai frequentato una scuola militare. Nato in un piccolo villaggio, An Xa, ebbe la fortuna di studiare nel liceo della capitale imperiale Huè, Quoc Hoc, ancora oggi la la migliore scuola del paese e che allora era una sorta di fucina di "teste calde". Si laureò in legge all’Università di Hanoi. La sua capacità militare e le sue intuizioni da stratega, oltre a credere alla guerra di popolo, sono dovute a un involontario errore francese: quello di avere messo in circolazione durante l’occupazione, troppi libri di strategia militare (Napoleone compreso).

"Ma la strategia militare - scrive Giap - senza l’analisi e la strategia politica di Ho Chi Minh non avrebbero avuto allora nessun effetto." Infatti determinante per la costruzione del PC vietnamita e dell’esercito di liberazione, fu l’incontro con "zio Ho" a Pac Bo ai confini con la Cina. "Non sono un mito: il solo mito è il popolo. E io sono un suo figlioLa vittoria a ogni costo? Ho pianto per i soldati che morivano a migliaia…" (intervista a Giap di Ettore Mo sul Corriere della sera, 16 febbraio 1998).

Queste affermazioni danno una immagine dell’uomo ben diversa dalla figura del generale critico, autoritario, insensibile, abituato al comando e alla rigidità.
Ho incontrato più volte Giap. Nel ’92 ad Hanoi, nel '95 a Ho Chi Minh Ville e nel '97 a Roma, e nonostante la sua età, il prossimo 25 agosto 2004 compirà 93 anni, ho sempre avuto l’impressione di un uomo instancabile, con grande curiosità e con la voglia di approfondire ogni cosa. Ma soprattutto mi ha impressionato il senso di grande umanità. A Roma nel ’95 per il ventennale della liberazione, fu commovente per tutti incontrare il generale (nella divisa bianca delle grandi occasioni) che abbracciò un tecnico del Gr Rai che piangeva per l’emozione e, per smorzare la tensione, chiese ad un fotografo un’istantanea con tutti noi. "Anche per lui - disse - l’emozione era forte perché senza la solidarietà e la mobilitazione di molti giovani e democratici di tutto il mondo, il Vietnam non avrebbe mai vinto."
Insomma, il grande vecchio, senza virgolette, non è mai stato arrendevole.

Dovrebbe adagiarsi sugli allori e invece no: oltre a essere la memoria storica in un paese fatto di giovani che vogliono dimenticare il passato, continua a essere una piccola spina nel fianco della nomenklatura vietnamita. Infatti Giap si occupa ancora, senza nascondere il suo dissenso con l’attuale governo, di economia, di politica nazionale e internazionale. È preoccupato dello sviluppo economico, "sfrenato e senza regole", delle divaricazioni sempre più nette tra città e campagna, della vita del popolo che non riesce a raggiungere livelli accettabili di qualità della vita.
Ricordo un pomeriggio del '97 quando incontrai all’Ambasciata del Vietnam a Roma Giap e sua moglie Bich Ha, erano stanchissimi, avevano visitato la città tutto il giorno. Erano talmente stanchi che mi ricevettero in pantofole, erano emozionati dalla bellezza della città, era la prima volta che venivano a Roma. Fu l’occasione di una chiacchierata sul Vietnam e l’idea di Socialismo.
Mi rispose brevemente. "In una società chi è povero lavora per migliorare la sua vita, chi vive mediocremente lavora per diventare ricco e chi è ricco vuole diventare sempre più ricco. Ma se questi lavorassero insieme, faremmo un paese prospero per tutti, non solo in senso materiale, ma anche culturale. Questa è l’idea di socialismo, dove al centro si trova sempre l’uomo."

Alias, 13 marzo 2004


Fabio Cavalera

Giap è tornato


I francesi dicevano di lui che "è un vulcano ricoperto di neve". Dietro alla freddezza c'è un uomo geniale, pieno di passioni. Un guerrigliero. Un generale. Un poeta.
Di Vo Nguyen Giap si erano perse le tracce, il vecchio comunista che aveva sconfitto gli americani in Vietnam, che li aveva sfiancati, che li aveva costretti alla resa e alla ritirata nel 1975, era scomparso, inghiottito dai duri e puri del suo regime. Che non potevano tollerare un personaggio così ingombrante e fuori dagli schemi.
La storia del suo Paese gli deve molto. Gli deve tutto. Il Vietnam esiste per Ho Chi Minh e per Vo Nguyen Giap. Eppure lo avevano tolto di mezzo. Ma lo stratega dell'offensiva del Tet, che fu l'inizio della fine per l'occupazione statunitense nel Sudest asiatico, lo stratega della resistenza e dell'ultimo attacco a Saigon, lo stratega di Dien Bien Phu dove l'esercito francese collassò nel 1954, lo stratega è tornato. A 94 anni. Fiero e lucido. Per quella che è una nuova straordinaria battaglia.
Vo Nguyen Giap era rimasto per un quarto di secolo lontano dalla politica ufficiale. Emarginato. Cancellato. Il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, attraverso il suo corrispondente da Hanoi lo ha ritrovato pugnace e coraggioso, tagliente e fantasioso come lo era un tempo. L'anziano generale si è presentato ai giovani del Partito comunista vietnamita, che proprio in questi giorni celebra il suo decimo congresso, e li ha catturati con un discorso contro la corruzione dei funzionari dell'organizzazione e con una esortazione: dibattete, confrontatevi, non abbiate paura, invocate la democrazia. E così ha aperto l'ultimo fronte. Il più difficile. Perché questa volta il nemico non è un invasore straniero. È lì nascosto, dentro, in casa. La mossa che il generale a quattro stelle Vo Nguyen Giap ha compiuto ha le stesse caratteristiche che resero famose e tragiche per gli imperialismi occidentali le sue tattiche militari. "Nulla deve essere convenzionale", sosteneva già nel 1945 quando a capo delle milizie del Viet Minh, la Lega per l'indipendenza del Vietnam, combatteva e sconfiggeva le armate giapponesi. Occorre sorprendere il nemico, è necessario demoralizzarlo, isolarlo, operare sulla sua psicologia. Quante volte lo ha ripetuto e quante volte lo ha sperimentato sul campo.
Tokyo. Parigi. Washington. Lo hanno capito quando era ormai troppo tardi. Anche questa volta Vo Nguyen Giap è passato all'azione senza dare un segno chiaro che potesse insospettire. Uno che per 25 anni si è limitato a rievocare le gloriosa gesta dell'esercito di liberazione, uno che per 25 anni ha preferito ritirarsi e dedicarsi alle lettere - lui intellettuale raffinato con laurea in storia oltre che militare aveva una vocazione per l'arte e la cultura poetica - poteva forse preoccupare i più ortodossi epigoni del marxismo-leninismo? Invece, all'improvviso il novantaquattrenne eroe del Vietnam, l'ultimo testimone che con Ho Chi Minh presidente fino al 1969 ha condiviso la nascita della nazione vietnamita, ha bucato il muro. L'immagine più efficace l'ha offerta al corrispondente del South China Morning Post un delegato al congresso del partito comunista: «È stato come un leone in un inverno lungo 25 anni. E di nuovo ora è primavera».
Più trasparenza nel governo. Più democrazia. Chi si aspettava che l'attacco partisse proprio dal vecchio generale chiuso nel recinto di un ritiro obbligato? La sua biografia è un racconto appassionante e illuminante che spiega le ragioni profonde di un gesto ancora una volta tatticamente e strategicamente perfetto.  Giap, con Ho Chi Minh, ha fondato il comunismo in Vietnam, ha costruito il movimento nazionalista di liberazione del quale il Partito comunista era parte egemone, ha guidato le milizie che hanno reso la vita infernale alle truppe giapponesi e le hanno cacciate. Poi si è opposto ai francesi che non riconoscevano l'indipendenza del Vietnam ottenuta nel 1945 e che scatenarono la guerra d'Indocina. Umiliò Parigi e la legione straniera sulla piana di Dien Bien Phu. E dopo gli Stati Uniti, convinti a firmare il cessate il fuoco (nel 1973) e ad abbandonare il terreno (nel 1975).
Spiegò Giap: «Si sosteneva che non potevamo sconfiggere un esercito tanto potente... ci siamo riusciti con la saggezza, con la tattica... loro avevano i B52 noi l'intelligenza e il coraggio... ma il fattore decisivo non sono le armi, è la gente, il sentimento della gente, la determinazione della gente... il fattore umano fa la differenza, non le armi più sofisticate».
Comunista, sì. Ma romantico. Quando nella vicina Cambogia il feroce Pol Pot, pure comunista, sterminò milioni di contadini Giap non restò a guardare e contribuì ad abbatterlo. Nel 1980 si dimise da ministro della Difesa e due anni più tardi scomparve dalla scena. Una storia, quella del piccolo Davide che sconfigge Golia, sembrava così essere terminata.
A 94 anni Vo Nguyen Giap è riapparso. Come saltato fuori dai tunnel e dalle buche che nascondevano i vietcong.
In pensione, da scrittore-poeta, aveva scritto un racconto: «Ancora una volta vinceremo». La guardia non l'aveva mica abbassata.

Corriere della Sera, 20 Aprile 2006

Raimondo Bultrini

Giap l'eroe centenario prigioniero nel suo letto

Hanoi. Il cielo grigio e piovoso del monsone sovrasta la struttura massiccia e severa dell'ospedale militare numero 108 su Tran Hung Dao Street. Al secondo piano di uno speciale padiglione del reparto geriatrico, una macchina pompa ossigeno per sei ore al giorno nei polmoni di Vo Nguyen Giap, il leggendario generale eroe di tante guerre vittoriose contro la Francia, contro il Giappone, e contro gli Stati Uniti d'America.

Giap ha festeggiato i suoi cento anni il 25 agosto, circondato da pochi familiari, i medici che si prendono cura di lui e i rari sopravvissuti delle battaglie guidate nel secolo scorso da questo longevo Napoleone dell'Asia.

È un colpo di fortuna a portarci sulla soglia della stanza supersorvegliata che lo tiene isolato dal resto del mondo. Il suo fotografo ufficiale da quasi quarant'anni, il colonnello Tran Hong, è ricoverato per accertamenti nello stesso ospedale, e ci accompagna nella palazzina dove l'ex comandante in capo dell'esercito di liberazione dei Vietminh giace, da due anni, a letto. Ma è una visita fugace, un piccolo scambio di omaggi, un fiore per il generale, un suo biglietto per noi con su scritto: «Grazie di avermi reso visita nel mio centesimo compleanno».

Il direttore dell'ospedale 108, Tran Duy Anh, ci spiega che l'eroe di tante battaglie, nonché ex giornalista, docente di Storia e di Diritto, leader politico e militare della resistenza al fianco del leggendario «Zio» Ho Chi Minh, è ancora «molto lucido», ma non può rischiare di affaticare i suoi polmoni malati.

Neanche la sua pronipote preferita, discendente della secondogenita Hoa Binh - che vuoi dire Pace, benché sia sergente maggiore dell'esercito - può incontrare il bisnonno per più di qualche minuto la settimana. Dopo le celebrazioni del centenario, le visite sono state ulteriormente ridotte ed è difficile sfuggire all'impressione che il vecchio eroe sia una sorta di prigioniero. Non solo prigioniero dei medici, dei tubicini per l'ossigeno, del suo mito di condottiero invincibile, ma soprattutto dello stesso Partito comunista che Giap costruì più di 70 anni fa assieme a Zio Ho, mentre i colonizzatori francesi torturavano in cella e uccidevano suo padre, sua sorella, la precedente moglie e centinaia di compagni della prima ora.

In un appartamento vicino all'incantevole lago Hoan Kiem, dove si mitizza l'esistenza di una tartaruga millenaria, incontriamo un gruppo di giovani dissidenti del partito e anziani veterani dell'esercito. Ci spiegano che a due, tre anni di distanza, le ultime parole del grande vecchio, la sua ultima battaglia ideale a favore della salvaguardia ambientale del Vietnam, risuonano ancora, pesanti, non solo nei Palazzi del Potere, ma nella mente della gente comune, almeno tra quanti sanno che, dietro le medaglie d'oro e gli onori a lui dedicati con decine di cerimonie ufficiali, si cela il gelo degli apparatnik, preoccupati soprattutto di non lasciargli lavare pubblicamente i panni sporchi di famiglia e infangare la «storia gloriosa» del Partito.

Il Lao Dong (Partito dei lavoratori) del Vietnam è uno dei pochi Partiti-Stato ancora al potere, come accade a Cuba, nella Corea del Nord e in Cina. La politica delle riforme economiche avviata dai comunisti nella metà degli anni Ottanta, che qui chiamano dai moi, ha portato, sì, del benessere in più, ma ha scalfito di poco il muro di segretezza che da sempre circonda le politiche del Politburo di Hanoi. Tra i tanti misteri ben custoditi, c'è anche quello sulla sorte riservata spesso in passato - e per certi versi ancora oggi - all'unico eroe nazionale di fama pianetaria sopravvissuto a innumerevoli battaglie, combattute da Giap non solo contro gli «invincibili» francesi e americani, ma anche dentro le impenetrabili stanze del potere vietnamita.

E raccontano i nostri (inevitabilmente) anonimi interlocutori che il gelo scese, attorno a Giap, tre anni fa. Fino ad allora, a ogni compleanno, il vecchio combattente pronunciava un discorso genericamente cerimoniale da presidente onorario dei veterani di guerra. Ma quella volta volle far sapere, a sorpresa e pubblicamente, di non essere contento del risultato attuale di tanti sforzi bellici e umani della sua generazione, e del vano sacrificio dei milioni di morti sui campi di battaglia per costruire una società giusta e ugualitaria.

Pariò senza peli sulla lingua delle sue riserve verso la politica del Partito, delle foreste deturpate dalle miniere di bauxite gestite dai cinesi, dell'asservimento a Pechino e ai suoi interessi, del malaffare imperante. «La leadeship» disse «ha resistito a ogni tentativo di riforma nella totale immobilità politica». Ma «la crescita futura dipende da continui e profondi adeguamenti, come la privatizzazione delle imprese statali oggi moribonde, con gii investimenti stranieri che in assenza di profitto sene vanno altrove, allontanati dalla corruzione e dalle enormi perdite». E ancora: «Se non cambia politica» era l'ammonimento «il governo perderà credibilità, metterà a rischio l'autorità dello Stato e la stessa ideologia».

Cè un giallo sulla nascita del generale Giap. A lungo si è detto che fosse nato il 1° settembre 1910. Altre fonti indicavano il 25 agosto 1911.
Quest'ultima data è stata scelta per celebrare il suo centenario.

All'inizio degli anni '40 aderisce al movimento di liberazione Vìetminh, fondato da Ho Chi Minh. e guida l'esercito che combatteva contro i giapponesi. Il 2 settembre '45 nasce la Repubblica democratica del Vietnam.

Il 7 maggio 1954 Giap sconfigge la Francia a Dien Bien Phu, dopo una battaglia durata 56 giorni. I morti francesi furono oltre diecimila.

Il 30 aprile 1975 i suoi soldati innalzano la bandiera vietcong sul palazzo presidenziale di Saigon.

Le sue parole si spensero nel silenzio tombale delle autorità, ma il generale tornò alla carica pochi mesi dopo con due lettere aperte affidate anche alla stampa, nelle quali menzionava, senza giri di parole, le miniere cinesi sugli Altipiani centrali di Dak Nong, abitati dalle minoranze che avevano combattuto al suo fianco e costruito con il sacrificio di tante vite il famoso Sentiero Ho Chi Minh, per portare i rifornimenti del Nord ai Vietcong di Saigon e del Sud. Raccolse subito il consenso di molti intellettuali, ambientalisti e gente comune esasperata dalla cinesizzazione dell'economia nazionale. Si riferiva ai progetti per l'estrazione di oltre 5 miliardi di tonnellate del minerale da cui si produce l'alluminio, e alla presenza di migiiaia di lavoratori delle compagnie cinesi.

I giovani dissidenti nella stanza sul lago abbassano la voce ricordando che 135 intellettuali e scienziati firmarono una petizione spedita al presidente dell'Assemblea nazionale del Partito nella quale si citavano Giap e i problemi di sicurezza nazionale, oltre che ambientale, posti dalla massiccia presenza di esperti di Pechino nel cuore del Vietnam.

«Oggi i residui tossici delle lavorazioni» dicono i nostri interlocutori «hanno già iniziato a inquinare i fiumi fino al Sud, lungo il delta del Mekong, tra le risaie e gli allevamenti di pesce e gamberetti che sfamano milioni di vietnamiti». E ricordano che, nelle sue lettere, Giap invitava scienziati, manager e attivisti sociali a insistere con il Partito perché abbandonasse i progetti minerari. Ma in tutta risposta - senza citare Giap - il primo ministro Nguyen Tan Dung, particolarmente «aperto» agli investimenti stranieri e alle relazioni personali con imprenditori cinesi e anche americani, definì le miniere di bauxite «una politica strategica per il Partito e per lo Stato». E oggi i contratti con i subappaltatori della compagnia cinese Chinaico sono già firmati e operativi.

Nella sua ultima battaglia prima di entrare nel tunnel finale della vita, Giap non ha tatto mai paralleli con le memorie tragiche della guerra. «Ma fu per tutti noi ovvio» dicono i veterani «il paragone con i bombardamenti a tappeto dei famigerati B52 americani e l'uso del letale napalm», l'Agente Orange le cui tracce restano ancora oggi nelle famiglie dei sopravvissuti e perfino nei neonati delle ultime generazioni.

Per capire l'amore di Giap per l'ambiente, gli anziani ci parlano della sua infanzia tra le risaie del villaggio di An Xà, ancora rimasto quasi intatto, dei suoi studi da autodidatta in agronomia, di suo padre che faceva il contadino per mantenerlo al liceo, ma studiava Confucio e i classici, della sete di giustizia del futuro eroe che fu espulso da scuola per il suo primo sciopero contro il modello educativo dei colonizzatorì francesi. Ma anche delle sue meditazioni Zen a mani congiunte che in Vietnam si chiama Thien, delle lunghe sedute dì Tai chi per tenere in forma il corpo, praticate fino a quando non è entrato tra le mura dell'Ospedale 108.

Tutti, giovani e vecchi, parlano dell'eroe di Dien Bien Phu come di un «generale di pace», anche se la battaglia per il suo popolo lo ha portato a uccidere migliaia, decine di migliala di esseri umani. Tra i capitoli di storia che non si insegnano nelle scuole - ci spiegano gli ex soldati, alcuni dei quali vecchi militanti ad alto livello del Partito - molti riguardano le purghe più o meno segrete che colpirono collaboratori di Giap accusati di «revisionismo».

Il generale si salvò soltanto perché sarebbe stato troppo imbarazzante toccare l'icona sacra della resistenza e detta lotta armata contro gli invasori. Ma in più di un'occasione, tra le stanze ovattate del Politburo e del Comitato centrale di Hanoi, lo stratega di tante vittorie fu accusato apertamente di essere un «controrivoluzionario e revisionista», soprattutto tra il 1963 e il 1967 quando l'ex segretario del Partito, Le Due Tho - suo nemico giurato già prima della morte di Ho Chi Minh - dominava la corrente filo-maoista contraria a ogni compromesso con l'Occidente.

È sempre meno un segreto, oggi, che Giap tentò di opporsi allo scontro frontale con le truppe americane. In diverse occasioni - ci spiegano i veterani - avrebbe proposto di entrare in contatto con gli alti 007 della super intelligence americana dell'Oss (Ufficio dei servizi strategici) creata dal presidente Rooseveit durante la Seconda guerra mondiale. Giap li conosceva personalmente da quando, nel '45, crearono insieme le condizioni per cacciare i giapponesi che avevano sostituito temporaneamente la Francia nel dominio di Hanoi e Saigon. Il generale era consapevole che la lotta per la riconquista del Sud ai nazionalisti appoggiati dallo Zio Sam sarebbe stata sanguinosa, come infatti fu con i tre milioni di morti vietnamiti e i sessantamila soldati Usa.

Ciononostante, fece il suo dovere perfezionando le tecniche di ditesa e di attacco decisive per le sorti della guerra. Si allineò senza fiatare anche quando, da ministro della Difesa e capo dell'esercito, fu affiancato o sostituito da un giorno all'allro da altri ufficiali e apparatnik, e addirittura buttato fuori dai vertici del Partito. Uno dei suoi ultimi incarichi fu di ministro della Pianificazione familiare e della ricerca scientifica. Quasi un'offesa. Ma Giap capì che sarebbe valso a poco forzare il corso degli eventi.

«Obbedisco» disse di nuovo da bravo soldato. Ma la sua ultima battaglia contro la corruzione e la distruzione ambientale gli vale bene il nomignolo popolare tra tutti i vietnamiti: Nui Lua, il Vulcano sotto la neve. La passione dell'uomo, forse l'eià, hanno prevalso sui calcoli del generale.
Anche se è certo che un giorno lo seppelliranno con la sua alta uniforme. E gli onori del caso.

Venerdì di Repubblica, 21.10.2011

Bernardo Valli

Quel piccolo uomo che diede corpo all'utopia del '900

Quel giorno d'autunno, sulla Unter den Linden, a Berlino Est, erano riuniti molti dirigenti del mondo comunista. C'erano il sovietico Breznev, il polacco Gierek, il cecoslovacco Usak, l'ungherese Kadar, naturalmente Honecker, il padrone di casa, e una manciata di altri dirigenti, alcuni dei quali asiatici, per lo più in divisa militare. Si celebrava l'anniversario della Repubblica democratica tedesca, cioè della Germania comunista, davanti al monumento ai caduti sovietici della Seconda guerra mondiale, e noi cronisti occidentali, superati gli innumerevoli controlli, potevamo aggirarci tra quei personaggi, che per la verità non ci degnavano di uno sguardo. Soltanto un ufficiale carico di decorazioni e di vistosi gradi dorati, visibilmente snobbato dai «grandi», cercava di avviare una conversazione. Si avvicinava timido, esitante, quasi non volesse importunarci, ma noi non gli davamo retta. Sotto il vistoso cappello militare, con una visiera spiovente che copriva i lineamenti asiatici, doveva esserci un dirigente mongolo a noi sconosciuto. Gli giravamo dunque le spalle e rivolgevamo la nostra attenzione a Leonid Breznev e agli altri dirigenti che lo circondavano ossequiosi, ignorando il mongolo, quasi non esistesse.

Poi arrivarono le berline ufficiali, nere, funeree, con le bandierine svolazzanti bene in vista, e da quella sull'automobile del mongolo mi accorsi che era in realtà un vietnamita. E che quel vietnamita non poteva essere che il generale Giap. Inseguii la sua automobile per qualche decina di metri. Agitai un braccio con speranza che si fermasse. Invano. Annidato dietro i vetri oscurati, Giap mi sfuggiva ancora una volta.

Così ho mancato stupidamente quel personaggio, che avevo sperato di incontrare, che aveva occupato la mia fantasia in Vietnam, prima - durante la guerra francese - e poi, durante quella americana. E ancora nel Vietnam riunificato. Non era impossibile incontrarlo, non gli dispiaceva intrattenersi con i giornalisti. Ma per me erano mancate le occasioni. Un giorno gli ho parlato al telefono. Mi trovavo a Hanoi e lui era in giro per il Paese. Mi dette appuntamento a Saigon, diventata Ho Chi Minh Ville, Ma non riuscii a raggiungerlo perché un ciclone aveva annullato i voli. Per chi ha seguito per anni il conflitto indocinese, Giap era un personaggio sempre presente. Era un'ossessione. Un mito. Un incubo. Un eroe. Un genio. Un vulcano coperto di neve, dicevano in tanti, perché lo giudicavano carico di energia ma freddo nel comportamento.

Quel giorno sulla Unter den Linden mi sfuggì di mano, ma le immagini berlinesi che mi sono rimaste non sono inutili. Non sembrava che i capi comunisti, prigionieri della loro mediocrità, lo tenessero in grande considerazione. In fondo non era che un soldato. Avevano torto, perché la loro sorte, più o meno direttamente, sarebbe stata influenzata da quel generale, tanoe fedele ai suoi principi, un uomo sentimentale e cordiale, un patriota e un essere legato al ricordo struggente, indelebile della prima moglie morta in un carcere francese. In qualche modo, un vendicatore. Ho imparato a conoscerlo a distanza, leggendo i suoi scritti, anche le sue poesie, non segrete ma ignorate, e seguendo le sue epiche offensive, che hanno umiliato i grandi strateghi occidentali. Lui, un militare autodidatta.

Vo Nguyen Giap è stato un protagonista determinante della seconda metà del Novecento. Nel 1954 i francesi furono sconfitti a Dien Bien Phu dai suoi bodoi, soldati calzati di sandali ricavati da vecchi copertoni; e da quella disfatta gli ufficiali dell'Armée ritornarono frustrati, ma decisi a prendersi una rivincita.
Educati nelle grandi accademie, come Saint-Cyr, non avevano digerito la lezione subita da quello stratega improvvisato. Non avrebbero comunque permesso che, dopo la perdita dell'Indocina, l'impero francese si disgregasse. La spedizione di Suez, del 1956, contro l'Egitto di Nasser che aveva nazionalizzato il Canale, definita l'ultima impresa coloniale d'Europa (vi parteciparono anche gli inglesi), era comandata dal generale Massu, reduce della sfortunata guerra asiatica. Suez poteva essere, se non una rivincita, almeno una consolazione, ma si risolse con un'altra frustrazione. Perché gli Stati Uniti intimarono alle truppe franco-inglesi (e a quelle israeliane che avevano invaso il Sinai) di ritirarsi.
E Parigi, Londra e Tei Aviv ubbidirono.

Nel frattempo si stava ampliando un nuovo conflitto coloniale, provocato da altri reduci della guerra d'Estremo Oriente. Nella valle di Dien Bien Phu gli algerini, incorporati nelì'Armée, avevano imparato che un esercito occidentale moderno, ben armato, poteva essere sconfitto da un esercito «indigeno». Non era la prima volta nella storia, ma la battaglia di Adua del secolo precedente, che aveva visto gli italiani sconfitti dagli etiopi, non era nelle memorie. Ritornati in patria, alcuni di quegli algerini riaccesero la fiamma dell'indipendenza, rivendicata già alla fine della Seconda guerra mondiale, quando i magrebini che avevano combattuto per la libertà della Francia, occupata dai nazisti, avevano chiesto, invocandola senza successo, la propria libertà. Giap aveva insegnato loro come i colonizzati potevano vincere i colonizzatori.

Sulla scia della sconfitta di Dien Bien Phu, la Francia dette l'indipendenza alla Tunisia e al Marocco. E più tardi il generale De Gaulle, ritornato al potere sull'onda della rivolta dei militari impegnati nella guerra d'Algeria, avviava un rapido processo di decolonizzazione nell'Africa Occidentale, cercando di recuperare il ritardo della Francia nello smobilitare l'impero. L'Inghilterra l'aveva saggiamente preceduta. La vittoria dello stratega autodidatta avviò non soltanto il crollo dell'impero coloniale francese, ma preparò la strada, attraverso la guerra d'Aìgeria di cui aveva creato le premesse, anche a un cambio di Repubblica a Parigi. De Gaulle, infatti, dichiarò morta la Quarta repubblica e fondò la Quinta, ancora in vigore. Nel remoto Estremo Oriente, sconfiggendo l'Armée, Vo Nguyen Giap aveva accelerato il corso della storia nel centro dell'Europa.

Gli effetti della sua seconda vittoria, quella sugli americani, hanno contribuito a mutare, lo si può affermare, la storia del mondo.
Henry Kissinger, che ha gestito politicamente la ritirata degli Stati Uniti dal Vietnam, riassume così quel drammatico capitolo. Gli americani erano andati nella penisola indocinese per fermare quello che pensavano fosse un complotto comunista centralizzato, ossia ordito tra le varie capitali dipendenti o influenzate dall'URSS e dalla Cina popolare. E hanno fallito.

Dalla sconfitta dell'America, Mosca aveva ricavato la certezza che la teoria dei domino, ossia l'avvento a ripetizione del comunismo in tanti Paesi in seguito alla vittoria comunista in Vietnam, si sarebbe realizzata. Volendo approfittare della situazione mondiale favorevole, Mosca aveva dunque cercato di estendere la sua egemonia allo Yemen, all'Angola, all'Etiopia e infine all'Afghanistan.
Ma scoprì, via via, che le realtà geopolitiche si applicavano alle società comuniste come a quelle capitaliste. Essendo meno elastico, il fallimentare super impegno sovietico non suscitò una catarsi come in America, ma contribuì alla disintegrazione dell'URSS.
All'origine di questo lungo processo mondiale ci sono gli straordinari successi militari periferici di Giap. I quali hanno creato illusioni e catastrofi.

I «grandi» del comunismo sulla Unter den Linden ignoravano di essere alla vigilia del loro fallimento.
E sembrava che non vedessero quel generale infagottato nella divisa, all'origine della loro definitiva sconfitta. Paradossalmente il piccolo Giap ha acceso ambizioni che il grande impero sovietico non ha saputo realizzare.

La guerra di liberazione contro la Francia e gli Stati Uniti fu un capolavoro di arte militare in cui il generale Giap rivelò le sue qualità di stratega, ma quel capolavoro di arte militare fu possibile come prodotto di un capolavoro di arte politica quale fu la strategia rivoluzionaria di Ho Chi Minh. Una rivoluzione armata promossa da un partito comunista fuori dal quadro della strategia sovietica era un atto di indipendenza e di coraggio che solo forti personalità poterono pennettersi. E non va dimenticato che li Vietnam, vinti francesi e americani, umiliò e respinse alla fine degli anni Settanta l'esercito cinese che aveva violato le sue frontiere. Resistere al vicino gigante, quale era la Repubblica popolare, non era un'impresa da poco. Anche perchè la Cina era stata la grande potenza alleata, prima di dissociarsi e aprire il dialogo con gli Stati Uniti, in funzione antisovietica.

Giap non fu sempre un vincitore, subì anche serie umiliazioni. Fu spesso dato per sconfitto e senza possibilità di riprendersi. Non fu certo un liberale. Il suo irriducibile patriottismo coabita con lo spirito, puro e duro, del diriga comunista, pronto a reprimere, con slancio stalinista. La lotta armata, per lui, non consentiva debolezze. Nei limiti del possibile garantiva però l'assistenza sanitaria ai suoi soldati e, nell'ambito dei villaggi, aiutava le loro famiglie. La rete di solidarietà popolare accompagnava i bodoi.

C'era anche, anzi c'è, perché a cent'anni vive ancora, una punta di romanticismo nel personaggio. Uno dei suoi libri preferiti è stato I sette pilastri della saggezza di Thomas Edward Lawrence. «È stato il mio Vangelo di guerra» ha confessato al generale Raoul Salan, prima che scoppiase la guerra con la Francia. La lotta di Lawrence d'Arabia contro i turchi gli è servita da esempio, l'ha ispirato come i testi di Marx e di Lenin.

Invece di frequentare accademie militari, che non esistevano nell'Indocina coloniale, Giap ha studiato legge all'università e poi ha insegnato storia per qualche anno, prima di entrare nella clandestinità. È a quel tempo che risale la sua puntuale abitudine di comporre versi. Versi semplici. Una poesia dedicata alla moglie morta in carcere ha come titolo Il bacio. E dice: «Anche se muoio, amore mio, ti amo, sebbene sia incapace di baciarti con le labbra di uno schiavo».

Venerdì di Repubblica, 21.10.2011

Enrico Deaglio

"Giap-Giap-Ho Chi Minh!" e l'Occidente scoprì l'Oriente rosso

Chi ha l'età sicuramnte se lo ricorda quel "Giap-Giap-HoChi Minh" che scandiva, come un grido di battaglia, la marcia dei cortei italiani del '68 e dintorni.
Ho Chi Minh era lo «zio Ho» dalla bella faccia ascetica e la barba bianca e Giap era il piccolo generale di Hanoi che aveva lanciato l'offensiva del Tet: nella notte del 30 gennaio 1968, in occasione del capodanno lunare l'esercito nordvietnamita impiegò 70 mila soldati nel simultaneo attacco di postazioni americane e sudvietnamite. I guerriglieri vietcong, che agirono di concerto, attaccarono l'ambasciata americana a Saigon dove erano arrivati in autobus e in taxi. Gli americani videro in tv il loro ambasciatore Ellsworth Bunker che, il giorno dopo l'attacco, entrava in ufficio scavalcando i cadaveri dei guerriglieri uccisi sulla soglia.
Militarmente Giap aveva perso la battaglia, ma tutto il mondo aveva capito che gli Usa avrebbero perso la guerra.

I ragazzi americani cominciarono a bruciare le cartoline precetto, la televisione raccontava dal fronte che le cose andavano veramente male. Migliala di bare tornavano a casa ogni settimana avvolte nella bandiera. Qui da noi, Gianni Morandi cantava «C'era un ragazzo che come me...» e quelli più radicali intonavano la versione italiana di Eve of Destructìon di Barry McGuire: «L'America dei Nixon, degli Agnew, McNamara. nella giungla del Vietnam una lezione impara...». Gli operai di Mirafiori in sciopero ritmavano: "Agnelli l'Indocina ce l'hai in officina». Jane Fonda salutava da Hanoi con il pugno chiuso.
Il piccolo generale vietnamita divenne un modello per tutti i rivoluzionari. Il più famoso, l'argentino Ernesto Che Guevara, aveva lasciato Cuba nel 1965 per «creare un altro Vietnam» ed era appena stato ucciso nelle pietraie della Bolivia. Lo avevano affascinato l'idea vietnamita della propaganda armata, la creazione delle zone liberate, ia pratica dell'insurrezione e infine delia fusione completa tra popolo ed esercito rivoluzionario. Nel 1966, il generale israeliano Moshe Dayan andò in Vietnam per osservare da vicino ia famosa guerra di popolo e ne restò ammirato (gli sarebbe venuta utile l'anno dopo nella Guerra dei sei giorni).

Poi ci furono le guerriglie argentine, brasiliane, uruguaiane che tentarono di imitare il modello di Giap. ma furono tutte sconfitte.
Lui, invece, vinse davvero.
Il 30 aprile 1975, i suoi carri armati entrarono a Saigon (Tiziano Terzani fu l'unico giornalista a narrare la vittoria) mentre il personale dell'ambasciata americana si aggrappava per fuggire, ai pattini di un elicottero.
Poi, però, anche il Vietnam cessò di essere un faro. Scapparono i boatpeople, aprirono i campi di rieducazione, il partito scelse la via capitalistica e il popolo fu messo a fabbricare oggetti per noi, ai prezzi più bassi del Pianeta.
Il generale Giap restò in patria come icona, ma senza alcun potere. Vent'anni dopo la sconfitta, i'ex segretario della Difesa di Lyndon B. Johnnson, Robert McNamara, andò a trovarlo. Giap gli offri una tazza di tè e gli domandò: «Ma perché smetteste i bombardamenti su Hanoi? Eravamo allo stremo.» E ammise candidamente che l'offensiva del Tet aveva come scopo principale la conquista dell'anima dell'Ocddente. I suoi soldati morirono perché noi potessimo ribellarci. Nessuno ci aveva capito meglio di lui.