Il massacro di My Lai

Il 16 marzo 1968 la compagnia C lanciò un’operazione del tipo “search and destroy”: l’obiettivo era il 48° battaglione vietcong che, secondo informazioni del comando americano, aveva base nel villaggio segnato sulle mappe militari con il nome di My-Lai 4.

All’avvicinarsi del 1° e del 2° plotone alcuni abitanti del villaggio tentarono di fuggire e furono eliminati.

I soldati del 2° plotone scagliarono bombe a mano nelle capanne e uccisero quanti ne uscirono, violentarono e trucidarono le ragazze, poi raccolsero gli abitanti e li fucilarono.

Mezz’ora più tardi raggiunsero un villaggio vicino, Binh Tay, dove i soldati, dopo aver commesso altre violenze, radunarono una ventina di donne e bambini: uccisero tutti a sangue freddo.

Il 1° plotone, comandato dal tenente Calley, aveva fatto irruzione nella parte sud di My Lai sparando a chiunque tentasse la fuga, violentando le donne, abbattendo il bestiame, distruggendo il raccolto e le case.

I superstiti furono condotti vicino ad un canale di scolo e il tenente Calley ed i suoi uomini aprirono il fuoco sui contadini inermi. Miracolosamente un bambino di 2 anni si alzò piangendo, lo stesso Calley lo spinse indietro e gli sparò.

Arrivò il 3° plotone.

I soldati finirono i supersiti, appiccarono il fuoco alle case, uccisero il bestiame ancora vivo, raccolsero infine donne e bambini e li uccisero. Furono uccise tra le 172 e le 347 persone: vecchi, donne e bambini.

Ci furono alcuni superstiti: una donna, L'ha Thi Quy, ha raccontato che “gli americani ci hanno buttato in una fossa. Ho visto due soldati con i visi arrossat che hanno spinto la gente nella fossa. Sono caduta e molta gente è caduto insieme a me. I soldati stavano sparando ed anch'io sono stata colpita, all'anca. Il massacro è andato senza sosta: sparano, si fermano, riprendono a sparare. Mi nascondo sotto i morti nella fossa, in mezzo a sangue, cervelli. pezzi di corpi. La mia casa è stata bruciata. Tre dei miei quattro bambini sono stati uccisi." Nel rapporto militare fu scritto che erano stati uccisi 90 vietcong e nessun civile, e tutto questo sarebbe finito lì se due giornalisti, assegnati al plotone di Calley, non avessero assistito al massacro: poco alla volta la notizia trapelò, l’esercito indagò sulle voci circa il massacro, ma senza troppa convinzione e concluse che non fosse necessaria l’apertura di un’inchiesta.

Un soldato, Ridenhour, cominciò ad interessarsi della vicenda: fece in modo di parlare con Bernhardt, un uomo della compagnia C che si era rifiutato di prendere parte al massacro. Ridenhour, tornato in patria, scrisse una lettera con tutte le prove raccolte e la spedì a 30 esponenti politici.

Il rappresentante al Congresso dell’Arizona, Udall, fece pressioni sull’esercito e sei mesi più tardi Calley fu accusato di omicidio.

Calley era un ragazzo tanti altri, richiamato alle armi, seguì un affrettato corso di addestramento che lo lasciò impreparato al vuoto morale che regnava in Vietnam. Non fu in grado di controllare i suoi uomini e di resistere alle pressioni dei suoi superiori che volevano un “conteggio dei corpi” sempre più alto.
Il problema era che Calley ed i suoi uomini non riuscivano a trovare neanche un vietcong, le battute degli americani erano così rumorose che si sentivano a chilometri di distanza.
Durante i pattugliamenti, poi, i suoi uomini finivano sempre per cadere in qualche trappola: in febbraio, durante un’azione, la compagnia cercò di penetrare a My Son, ma il reparto si trovò circondato da trappole mortali.
Durante la missione successiva finirono in un campo minato: gli uomini che accorrevano in aiuto dei compagni feriti non facevano altro che provocare altre esplosioni, nell’aria volavano brandelli di carne. Andò avanti così per due ore, 32 uomini rimasero feriti o uccisi.
Il 4 marzo la compagnia fu presa di mira da un mortaio, 10 giorni dopo, 48 ore prima dell’attacco a My Lai, 4 uomini furono dilaniati da un ordigno esplosivo.
In 32 giorni la compagnia C ( circa 100 elementi) aveva perso 42 uomini senza mai vedere il nemico.

Una notte uno dei soldati fu catturato e la compagnia lo aveva sentito urlare per tutta la notte a 7 km di distanza: urlava così forte perché era stato spellato vivo e poi immerso nell’acqua salata.

Il processo contro Calley divise il paese in due fronti contrapposti.
La giuria si ritirò in camera di consiglio il 16 marzo 1971, riconobbe Calley colpevole dell’omicidio di almeno 22 civili e lo condannò ai lavori forzati a vita. Con la revisione del processo la pena fu ridotta a 20 anni e poi a 10; fu infine liberato sulla parola nel 1974 (!) dopo tre anni e mezzo trascorsi agli arresti domiciliari. Ha aperto un negozio a Columbus, Georgia.

Le accuse furono estese ad altri 12 tra ufficiali e soldati, ma nessuno fu condannato. Varnado Simpson era là, a My Lai: ora passa la maggior parte del tempo chiuso in casa. Ritiene di aver ucciso circa 25 persone, forse di più. È in uno stato mentale pietoso e la diagnosi degli psichiatri è che sia un caso disperato: prende dozzine di farmaci. "Dopo che hai ucciso un bambino... Sì, sono spiacente. Sono colpevole. Ma l'ho fatto, sapete. Che altro posso direi? È accaduto." A My Lai furono trucidati solo civili. Cento trovarono la morte in un canale di scolo, uno era un bambino di 2 anni.

Vittorio Zucconi

Le scuse del boia del Vietnam: "Fu un massacro, perdonatemi"

Il tenentino che perse la guerra in Vietnam ha aspettato quarantun anni per chiedere scusa, forse un po' troppo tempo, ma finalmente anche per lui il sollievo della confessione è arrivato. Compiuti i 66 anni, l'età dei bilanci e dei fantasmi, William Calley, il tenente di fanteria che guidò la Compagnia "C" al massacro di un intero villaggio vietnamita per aumentare il "body count", il bottino dei morti come pretendevano i generali, ha chiesto scusa. Ha confessato di non poter più vivere con il ricordo dell'orrore, di quelle donne violentate e mitragliate, di quei bambini trapassati alla baionetta, dei vecchi consumati dai lanciafiamme abbracciati ai piccoli che cercavano di proteggere e di sperare, nel pubblico pentimento, qualche sollievo dagli spettri che lo assediano, dal 16 marzo del 1968.

Nessuno, non i generali a quattro stelle, non i presidenti e neppure gli strateghi nemici come il generale Giap, fece quello che il tenente William Laws Calley fece a 25 anni per mobilitare il disgusto nazionale per quella che, dopo di lui, sarebbe per sempre diventata "una sporca guerra". Fu colui che scosse l'America dalla certezza della propria eccezionalità e della propria innocenza e la mise di fronte alla realtà atroce di quella presunta missione civilizzatrice.

Calley ebbe la sfortuna di avere un commilitone che sentì prima di lui il bisogno di parlare, di cercare un giornalista coraggioso, Seymour Hersh, disposto a fare quello che né i comandi, né il Parlamento americano, avevano osato fare: raccontare quello che era accaduto nel villaggio di My Lai, un nome che suona beffardamente in inglese come "la mia menzogna", in quel marzo del 1968.

Quando Calley, ufficialetto di complemento prodotto in fretta e furia dopo appena 16 settimane di corso, fu inviato a My Lai, erano passate poche settimane dall'offensiva del capodanno buddista, il Tet. La macchina militare americana, all'apice dei 500 mila soldati, aveva sofferto non una sconfitta, ma un'umiliazione, e il mito della invincibilità, della "luce alla fine del tunnel" si era frantumato in patria, proprio mentre esplodeva il '68. Calley, e i suoi soldati, non cercavano vittorie, cercavano vendetta per i compagni uccisi, sfogo per la loro esasperazione, e corpi da contare, per concludere la missione e tornare in fretta al mondo, a casa. Si chiamavano operazioni "cerca e distruggi", e la Compagnia C dell'Undicesima Brigata di fanteria leggera sbarcò dai proprio elicotteri per distruggere.

Non fu mai stabilito quanti esseri umani furono uccisi, perché nella giungla tropicale i corpi si decompongono in fretta e nelle capanne incendiate non arrivò nessuna polizia scientifica a frugare nei resti. Forse 70, come sentenziò la Corte Marziale, 300, come disse qualche testimone, 500 secondo il piccolo museo memoriale costruito nel villaggi.

Ma nessuno di loro, neppure a guerra finita, risultò essere un guerrigliero, un "quadro" vietcong, un agente del Nord comunista. Per tre ore, lui - Calley detto "Rusty", il rugginoso per le efelidi infantili, un ragazzo qualsiasi che si era arruolato soltanto perché la sua auto si era guastata davanti al centro di reclutamento e, disperato, senza soldi, studi e futuro, era entrato - i suoi soldati, anche loro giovanotti qualsiasi pescati nella lotteria della leva militare, divennero quello che la guerra produce sempre, secondo l'ammonimento del grande generale nordista e distruttore di Atlanta, William Tecumseh Sherman: demoni.

Furono necessari due anni, lo scoop del giornalista Seymour Hersh che lacerò il sudario di silenzio costruito dal governo attorno a My Lai, perché il processo fosse celebrato, con una sentenza che incendiò l'America. I pacifisti furono sconvolti dalla condanna all'ergastolo del solo Calley, e dalla assoluzione del superiore diretto che lo aveva inviato in missione, il capitano Medina, quando emersero immagini di bambini ripescati dalle fosse con una "C" incisa nel petto dalle baionette. I buoni patrioti furono altrettanto sconvolti da una condanna così pesante per "crimini di guerra" contro un soldato colpevole, secondo loro, soltanto di avere - antica storia - obbedito agli ordini. Si sollevarono per lui governatori nel Sud, tra i quali anche un futuro presidente, Jimmy Carter. E Nixon commutò la pena dall'ergastolo a soli due anni di arresti domiciliari, nel 1974, quando ormai la guerra era finita.

Finita per gli altri, ma non per il tenente figlio di un rigattiere della Florida, divenuto criminale di guerra. Quando tornò a piede libero, lavoricchiò come commesso nel negozio del suocero, poi come venditore di polizze. Sempre con il sabba di quei cadaveri che neppure lui sapeva quanti fossero, perché la conta dei cadaveri vietnamiti era notoriamente fasulla e gonfiata, fino alla sera di giovedì scorso, quando si è alzato a parlare a una cena del club dei Kiwanis per chiedere, 41 anni dopo, "perdono" e ammettere tutto. "Io lo perdono anche - ha detto alla Associated Press il vecchietto che fa da guardiano al museo del massacro in Vietnam ed ebbe una sorella nella fossa - ma deve venire qui, a My Lai, e chiederlo a noi".

da: Repubblica, 23 agosto 2009