Jacques Derrida

Esistono gli «stati canaglia»? La ragione del più forte

Muovendo dal problema della sovranità, dal ruolo attuale degli Stati Uniti e dagli sconvolgimenti causati dalla globalizzazione, il filosofo francese Jacques Derrida si chiede cosa diventino i concetti di «ragione» e di «democrazia», come anche quelli di «politica», di «guerra» e di «terrorismo» allorché il vecchio fantasma della sovranità statale perde la propria credibilità. Da le Monde diplomatique un significativo passo di Voyous, il suo nuovo libro.

L'abuso di potere è costitutivo della stessa sovranità. Cosa significa, in relazione ai rogue states - i cosiddetti «stati canaglia»? Che gli Stati uniti sono in condizioni di denunciare questo o quello stato, di accusarlo di violazioni o inadempienze in materia di diritto, di perversioni o deviazioni. Ora, gli Stati uniti - che sostengono di portarsi garanti del diritto internazionale e prendono l'iniziativa di guerre, operazioni di polizia o mantenimento della pace, perché hanno la forza per farlo - questi stessi Stati uniti, così come gli stati loro alleati nelle suddette azioni, sono, in quanto sovrani, i primi rogue states.
Quanto ai dossier di prossima costituzione (peraltro utili e illuminanti) istruiti ad esempio in base alle requisitorie di un Noam Chomsky o di un William Blum e ai lavori dedicati ai rogue states: senza che ciò suoni offesa a queste opere coraggiose, vi si avverte purtroppo la mancanza di un pensiero politico coerente, in particolare riguardo alla storia, alla struttura, alla «logica» del concetto di sovranità.
Da questa «logica» apparirebbe che a priori, gli stati in grado di dichiarare guerra ai rogue states, nella loro più legittima sovranità, sono essi stessi rogue states, e abusano del proprio potere. Laddove c'è sovranità, c'è abuso di potere, e quindi rogue state. L'abuso è la legge dell'uso: è questa la legge stessa, la logica di una sovranità che può regnare solo indivisa. Più precisamente - poiché a regnare non arriva mai se non in maniera critica, precaria, instabile - la sovranità non può che tendere, per un tempo limitato, a un regno indiviso. Non può che tendere all'egemonia imperiale. Usare di questo tempo vuol già dire abusarne - come sto facendo, da quel rogue che sono io stesso, in questo momento. Perciò non esiste stato che non sia tale, in potenza o in atto. Lo stato è rogue, è canaglia. E i rogue states sono sempre in numero maggiore di quanto si pensi. Più stati canaglia, in che senso? Apparentemente, alla fine di questa circonvoluzione, si sarebbe tentati di rispondere «sì» alla domanda posta nel titolo: «La ragione del più forte. Esistono gli stati canaglia?». Ebbene sì, esistono, ma sono in più di quanto si pensi o si dica, e sempre di più. E qui abbiamo un primo ribaltamento.
Ma eccoci all'ultimo ribaltamento, il più recente. L'ultimissimo giro di un volteggio, di una rivoluzione o di un revolving door - una porta girevole. In che cosa consiste? Si sarebbe portati a pensare di primo acchito - ma io resisterò a questa tentazione tanto facile quanto legittima - che se gli stati sono tutti canaglie, se la «canagliocrazia» è la crazia stessa della sovranità statale, se tutti sono canaglie, nessuno lo è più. Fine delle canaglie. Laddove i rogues sono sempre in più di quanto si dica o si voglia far credere, non esistono più rogues. Ma al di là di questa necessità, in qualche modo intrinseca, di porre fuori uso il senso e la portata del termine, dal momento che più sono e meno sono, e poiché il fatto che esistano «più canaglie», «più stati canaglia» significa due cose tanto contraddittorie, sorge un'altra necessità di porre fine a questa definizione, di circoscrivere il suo tempo, di delimitare l'uso tanto frequente, ricorrente, ossessivo che ne hanno fatto gli Stati uniti e taluni dei loro alleati.
Ecco la mia ipotesi: da una parte, quest'epoca è iniziata alla fine della cosiddetta guerra fredda, durante la quale due superpotenze superarmate, membri permanenti del Consiglio di sicurezza, avevano creduto di poter far regnare l'ordine nel mondo attraverso un equilibrio del terrore nucleare interstatale. D'altra parte, benché quella locuzione continui ad essere usata di tanto in tanto, la sua fine è stata, più che annunciata, confermata teatralmente, in forma mediatico-spettacolare, l'11 settembre: data indispensabile per riferirsi economicamente a un evento al quale non corrisponde - e non senza ragione - alcun concetto; un evento peraltro costituito strutturalmente (in ragione di quella sua potenza spettacolare e mediatica, calcolata da entrambe le parti) come evento pubblico e politico, e dunque al di là di tutte le tragedie delle vittime, davanti alle quali non si può che inchinarsi con una compassione senta limiti. Con le due torri del World Trade Center è crollato, visibilmente, tutto il dispositivo (logico, semantico, retorico, giuridico, politico) che rendeva utile e significativa la denuncia dei rogue states, tutto sommato rassicurante. A breve distanza dal crollo dell'Unione Sovietica («crollo», poiché rappresentava una delle premesse, o una delle fasi preliminari del crollo delle due torri) Clinton inaugurò di fatto, fin dal suo arrivo al potere, la politica delle rappresaglie e sanzioni contro i rogue states, dichiarando alle Nazioni unite che il suo paese avrebbe usato come meglio credeva l'articolo eccezionale (art. 51) e aggiungendo testualmente: gli Stati uniti agiranno «multilateralmente se possibile, ma unilateralmente se necessario».
Questa dichiarazione è stata ripresa e confermata più d'una volta: da Madeleine Albright quando era ambasciatore presso le Nazioni unite, o da William Cohen, segretario alla difesa. Lo stesso Cohen annunciò che contro i rogue states, in buona sostanza, gli Stati uniti erano pronti a intervenire militarmente in via unilaterale ogni qualvolta sarebbero stati in gioco i loro interessi vitali. Cito testualmente ciò che intendeva per interessi vitali: «ensuring inhibited access to key markets, energy supplies, and strategical ressources» (assicurando, ove inibito, l'accesso ai mercati chiave, alle forniture energetiche e alle risorse strategiche) e quant'altro fosse stato definito interesse vitale da una «domestic juridiction», cioè da una giurisdizione interna. Sarebbe dunque bastato che al proprio interno, senza bisogno di consultare nessuno, gli Stati uniti considerassero gli imperativi dei loro interessi vitali una buona ragione per attaccare, destabilizzare o distruggere qualsiasi stato la cui politica fosse in contrasto con questi interessi.
Un sovrano unilateralismo Per giustificare questo sovrano unilateralismo, questa indivisa sovranità, questa violazione - per dar ragione alla ragione del più forte - della sedicente democraticità e normalità istitutiva degli Stati uniti, bisognava decretare che un determinato stato, ritenuto aggressivo o minaccioso, agisse da stato canaglia. «A rogue State - come ha detto testualmente Robert S. Lutwak - is whoever the United States say it is» (Uno stato canaglia è chiunque sia così definito dagli Stati Uniti). E ciò nel preciso momento in cui, annunciando che avrebbero agito unilateralmente, gli Usa si comportavano essi stessi da rogues states: l'11 settembre gli Stati uniti furono autorizzati ufficialmente dall'Onu ad agire come tali procedendo a tutte le misure che ritenessero necessarie per proteggersi, in qualunque parte del mondo, contro il cosiddetto «terrorismo internazionale».
Ma cos'è avvenuto, o più precisamente, cos'è stato segnalato, esplicitato, confermato l'11 settembre? Al di là di quanto si è potuto dire in proposito, più o meno legittimamente - e di questo non tornerò a parlare - cosa è risultato chiaro quel giorno, un giorno meno imprevedibile di quanto si sia voluto far credere? Un fatto macroscopico e fin troppo evidente: dopo la guerra fredda, la minaccia assoluta non aveva più forma di stato. Se durante la guerra fredda era stata controllata, nell'equilibrio del terrore, da due stati-superpotenze, oramai nessuno stato poteva più controllare la dispersione del potenziale nucleare fuori dagli Stati uniti e dai paesi loro alleati. Per quanto si tenti di contenerne gli effetti, molti indizi potrebbero dimostrare chiaramente che se trauma vi è stato l'11 settembre, negli Usa e nel mondo, non si trattava, come spesso si pensa dei traumi in genere, di una ferita prodotta dall'evento effettivamente accaduto, che avrebbe magari potuto ripetersi un'altra volta, bensì dell'innegabile apprensione per una minaccia futura e più grave.
Il trauma rimane traumatico e incurabile perché proviene dal futuro.
Anche il virtuale colpisce. Si è traumatizzati perché feriti da un colpo che di fatto ancora non è stato inferto, se non con il segnale del suo annuncio. La sua temporalità procede dal futuro. Ora, in questo caso il futuro non è soltanto la caduta, o il crollo virtuale di altre torri o strutture analoghe, né la possibilità di un attacco batteriologico, chimico, o «informatico». Anche se tutto ciò non può comunque essere escluso. Ma la prospettiva peggiore sarebbe quella di un attacco nucleare con la conseguente distruzione dell'apparato dello Stato americano: di uno stato democratico la cui egemonia è tanto evidente quanto precaria, in crisi; di uno stato che si suppone garante, solo ed ultimo guardiano dell'ordine mondiale degli stati normali e sovrani. Questo virtuale attacco nucleare non ne esclude altri, e potrebbe essere accompagnato da offensive chimiche, batteriologiche, informatiche. Ora, aggressioni del genere erano state immaginate fin dalla prima apparizione del termine rogue state. Ma allora erano identificate, quanto alla loro origine, con entità statali, cioè con potenze organizzate, stabili, identificabili, localizzabili, territorializzate; le quali, non essendo suicide o presunte tali, potevano essere sensibili alle armi di dissuasione. Come l'House Speaker (1) Newt Gingrich aveva giustamente osservato nel 1998, l'Urss era «rassicurante» perché sensibile alla dissuasione, dato che il potere vi si esercitava in maniera burocratica e collettiva, e quindi non suicida. E aveva aggiunto che purtroppo la stessa cosa non si poteva dire di due o tre regimi del mondo di oggi. Avrebbe dovuto precisare che non si trattava nemmeno più di stati, di regimi, di organizzazioni statali legate a una nazione o a un territorio.
A New York, a meno di un mese dall'11 settembre, io stesso ho avuto modo di sentire alcuni membri del Congresso annunciare alla televisione l'adozione di misure tecniche volte a evitare che un altro attacco alla Casa bianca distrugga in pochi secondi l'apparato dello stato e tutto ciò che negli Stati uniti rappresenta lo stato di diritto.
D'ora in poi si doveva assolutamente evitare la presenza contemporanea del presidente, del vicepresidente e della totalità dei membri del Congresso nello stesso luogo e nello stesso momento, come accade a volte, per esempio il giorno della Dichiarazione presidenziale sullo stato dell'Unione. Ai tempi della guerra fredda, questa minaccia assoluta era ancora contenuta da una teoria dei giochi strategici.
Ma oramai non può più essere contenuta, perché il pericolo non proviene più da uno stato costituito, e neppure potenziale, che si possa trattare da stato canaglia. Risultava così inutile e vano tutto il dispendio in termini di retorica (per non parlare delle spese militari) per giustificare la parola guerra, e la tesi secondo la quale la «guerra al terrorismo internazionale» doveva colpire determinati stati che offrivano sostegno finanziario, basi logistiche o rifugi, o servivano, come si dice da quelle parti, da sponsor o da harbour ai terroristi.
Tutti questi sforzi volti a identificare stati «terroristi» o stati canaglia sono «razionalizzazioni» destinate a denegare, più dell'angoscia assoluta, il panico o il terrore davanti al fatto che la minaccia assoluta non procede più, e non è più controllata da un qualsivoglia stato o entità statale. Occorreva dissimulare, attraverso questa proiezione identificatoria, e soprattutto dissimulare a se stessi che ordigni nucleari o armi di sterminio sono oramai virtualmente prodotti, e accessibili, in luoghi non più dipendenti da un qualsiasi stato. Neppure da un rogue state. Ci si sforza e ci si agita invano e le stesse «razionalizzazioni» e negazioni si esauriscono nel disperato tentativo di identificare questi rogue states, e di far sopravvivere concetti moribondi come quello di guerra (secondo il buon vecchio diritto europeo) e di terrorismo. D'ora in poi, non si ha più a che fare con una guerra internazionale classica - perché nessuno stato l'ha dichiarata, o vi si impegna in quanto tale contro gli Stati uniti. E neppure - poiché nessuno stato-nazione vi è coinvolto in quanto tale - con una guerra civile; né con una «guerra partigiana» (secondo l'interessante accezione di Karl Schmitt) dato che non si tratta più di resistenza a un'occupazione territoriale, di guerra rivoluzionaria o di guerra d'indipendenza per liberare uno stato colonizzato e fondarne un altro. Per queste stesso ragioni, si giudica in maniera non pertinente il concetto di terrorismo, che per l'appunto è stato sempre associato a quelli di «guerre rivoluzionarie», «guerre d'indipendenza» o «guerre partigiane», delle quali lo stato ha sempre costituito la posta in gioco, l'orizzonte e il terreno.
Dunque ormai gli stati sono tutti rogue states, e perciò i rogue states non esistono più. Il concetto sta toccando il suo limite e la fine, più terrificante che mai, della sua epoca. Una fine che già dall'inizio è sempre stata prossima. Ma a tutti i segni sopra citati, in qualche modo concettuali, se ne deve aggiungere un altro, che configura un sintomo di ordine diverso. Proprio coloro che durante l'amministrazione Clinton avevano più contribuito ad accelerare e a intensificare questa strategia retorica, abusando dell'espressione demonizzante di rogue states, hanno finito per dichiarare pubblicamente, il 19 giugno del 2000, di aver deciso di abbandonare almeno questa dizione. Madeleine Albright ha fatto sapere che lo State department non la considerava più appropriata, e aveva quindi deciso di sostituirla con il termine, più moderato e neutro, di states of concern.
Come tradurre States of concern cercando di rimanere seri? Diciamo «Stati preoccupanti». Stati che ci impensieriscono, ma dei quali dobbiamo anche seriamente preoccuparci, nonché occuparci, al fine di trattare bene il loro caso. Il loro caso in senso medico, non giudiziario. Di fatto - come è stato notato - l'abbandono di quel termine segnala una vera e propria crisi nel sistema, così come nel bilancio della difesa missilistica antimissile. Oramai quest'espressione, anche se Bush cerca di riesumarla di tanto in tanto, è caduta in disuso. Questo, in ogni caso, è ciò che ho ipotizzato, tentando di giustificarne la ragione ultima. E il fondo senza fondo. La parola «canaglia» è stata colata a picco, e il suo affondamento ha una storia; e come la parola rogue, non è eterna. Ma «canaglia» e rogue sopravviveranno per qualche tempo agli «stati canaglia» e ai rogue states, che in verità hanno preceduto.

Jacques Derrida (El-Biar, Algeri, 1930 - Parigi, 2004) ha insegnato prima alla Sorbonne (1960-64), poi all’École Normale Supérieure (1964-1984) e infine all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (di cui è stato direttore) e alla California University di Irvine. È stato il primo direttore del Collège International de Philosophie di Parigi, di cui è membro fondatore (1983).
Insieme ad Heidegger, Husserl e Lacan ha contribuito a una completa rivisitazione dei concetti e delle categorie proprie della filosofia classica occidentale. Partendo da Heidegger, Derrida ha affermato l'impossibilità di conoscere l'essere attraverso il linguaggio, in quanto l'essere è «differenza» rispetto a qualunque forma individuale.
Principale ispiratore della "grammatologia" e della "decostruzione" in filosofia, è autore di numerose opere, molte delle quali tradotte in italiano: La voce e il fenomeno (1967), Milano 1968; Della grammatologia (1967), Milano 1969; Margini della filosofia (1972), Torino 1997; La scrittura e la differenza (1967), Torino 1990; La disseminazione (1972), Milano 1989; Dello spirito (1989), Milano 1989; Spettri di Marx (1994), Milano 1995; Donare il tempo (1991), Milano 1996; Dell’ospitalità (1997), Milano 1999.