Paola Bordandini e Aldo Di Virgilio

PdCI: ritratto di un partito che non avrebbe dovuto esserci

3. Il modello di partito: tre ipotesi a confronto, ovvero un PCI in sedicesimo

A quale tipo di partito ha messo capo la scissione da cui nel 1998 è nato il PdCI? La retorica ufficiale, la denominazione degli organismi, le previsioni inserite nello statuto sembrano caratterizzare il PdCI come una sorta di partito di massa nella versione partito nuovo togliattiano 16. Nel preambolo dello statuto, ad esempio, si ricorda che il PdCI «opera per organizzare gli operai, i lavoratori, gli intellettuali, i cittadini che lottano» e «fa riferimento al marxismo e agli sviluppi della sua cultura, alla storia e all’esperienza dei comunisti italiani e persegue il superamento del capitalismo e la trasformazione socialista della società». Tra i principi generali, lo statuto stabilisce che ogni iscritto «è tenuto a: (…) svolgere attività di proselitismo (..); accrescere le proprie conoscenze culturali e politiche, approfondire lo studio della storia e del patrimonio di idee dei comunisti italiani e di tutto il movimento operaio» 17. Lo statuto disegna un partito strutturato territorialmente per federazioni e comitati regionali e a livello di base su sezioni territoriali o di luoghi di studio e di lavoro. Anche a livello centrale l’impianto e la terminologia sono quelle classiche: comitato centrale, direzione, segreteria, commissione di garanzia. E l’art. 9.1 stabilisce che «la vita interna del partito è retta secondo i principi del centralismo democratico» e dunque che «la minoranza deve accettare e applicare le decisioni democraticamente assunte a maggioranza ed è fatto espresso divieto di rappresentare all’esterno posizioni politiche difformi» (art. 9.2).
La preminenza dei responsabili di partito rispetto agli eletti è anch’essa fissata nei termini tradizionali («Tutti gli amministratori pubblici comunisti, tutti gli eletti nelle istituzioni e i nominati negli enti di promanazione istituzionale rispondono del loro mandato ai rispettivi organismi dirigenti del partito», art. 29.5), così come gli obblighi finanziari di eletti e nominati (i quali, «al momento dell’accettazione della candidatura, sottoscrivono una quota dell'indennità di carica e di ogni emolumento percepito in forza del mandato stesso»: art. 29.5) e le regole relative al numero di mandati («Non può essere ricoperta la stessa carica elettiva per più di due mandati pieni consecutivi. Le eventuali eccezioni dovranno essere deliberate a maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto dei rispettivi organismi dirigenti. Tali norme non si applicano al presidente e al segretario nazionale del partito»; inoltre «Le cariche nelle Assemblee elettive regionali, nazionali, europea non sono cumulabili»: art. 29.5).

Questa caratterizzazione retorico-formale del PdCI come partito di massa contrasta evidentemente con le dimensioni organizzative del partito. Benché si tratti di un’organizzazione in grado di lavorare con successo al proprio mantenimento, il PdCI è pur sempre un piccolo partito di circa 30mila iscritti. Ciò tuttavia non consente di guardare al PdCI come a un caso di piccolo partito comunista (del tutto) ininfluente, condannato al circolo vizioso del settarismo e dunque a fondare la propria sopravvivenza in modo esclusivo su incentivi simbolici a carattere ideologico [Mair 1979; Panebianco 1979]. Da questo punto di vista la scissione cossuttiana non può considerarsi «un fallimento» 18. L’obiettivo dei fondatori del partito non era tanto sopravanzare Rifondazione sul terreno elettorale e organizzativo, bensì rimpiazzare il partito di Bertinotti nella coalizione e accreditarsi come sinistra del centro-sinistra, unitaria e autonoma e dunque leale verso gli alleati ma rispettata nella sua identità neo-comunista. Malgrado le ansie e le incertezze iniziali 19, il PdCI ha sostanzialmente conseguito quell’obiettivo riuscendo a ritagliare per sé una collocazione in uno spazio politico già molto affollato e a inserirsi in maniera stabile nelle relazioni interpartitiche al pari di altri piccoli partiti coalizzati quali i Verdi, l’UDEur, lo SDI 20.
In termini organizzativi una compiuta valutazione dell’incidenza della scissione del 1998 sull’organizzazione di Rifondazione non è per il momento disponibile 21. Ci si deve quindi limitare a constatare che il PdCI rappresentava alla sua origine circa 1/3 della forza organizzativa e elettorale di Rifondazione e che tale forbice è rimasta grosso modo invariata sul piano strutturale e si è invece leggermente ridotta sul terreno elettorale. La capacità di reclutamento è rimasta stabile, con una piccola, regolare crescita che peraltro nasconde significative oscillazioni territoriali (Tab.1). La dimensione elettorale del partito si è consolidata. Il confronto tra elezioni dello stesso tipo (le europee del 2004 e del 1999 e le regionali del 2005 e del 2000) fa osservare generalizzati saldi positivi. Per quanto si ricava dall’unica prova del 2001, il PdCI soffre invece le elezioni politiche. Nelle recenti elezioni europee e regionali si è tuttavia attestato al 2,5%, superando la soglia del 4% in cinque regioni (Umbria, Toscana, Calabria, Basilicata e Marche) (Tab. 2).
Ciò detto, tuttavia, il PdCI può essere considerato tutt’al più un «progetto di partito di massa» se non un «progetto di organizzazione» 22. Più che indicare una prospettiva di sviluppo ritenuta auspicabile, l’adozione di uno statuto e di un assetto formale in tutto conforme al modello del partito di massa costituisce allora soprattutto una modo per ribadire la parentela con la tradizione del comunismo italiano. Come emerge anche da aspetti secondari ma significativi, quale il vezzo di considerare personalità quali Arfé, Tranfaglia o Vattimo i quali in vista delle elezioni europee del 2004 avevano dichiarato il voto pro PdCI o si erano candidati nelle sue liste alla stregua degli indipendenti di sinistra d’antan.



TAB. 1 - Iscritti al PdCI per regione negli anni congressuali
Congresso
3° - Rimini 2004
2° - Bellaria 2001
1° - Fiuggi 1999
 
n.
%
n.
%
n.
%

Piemonte

2.318
8,4
2.035
7,8
1.928
7,5
Lombardia
1.753
6,4
1.541
5,9
1.736
6,7
Veneto
951
3,5
819
3,1
800
3,1
Trentino Alto Adige
127
0,5
46
0,2
36
0,1
Friul i - Venezia Giulia
307
1,1
255
1,0
229
0,9
Liguria
498
1,8
717
2,7
822
3,2
Emilia Romagna
2.379
8,6
1.652
6,3
1.225
4,7
Toscana
2.085
7,6
2.139
8,2
1.827
7,1
Marche
783
2,8
726
2,8
648
2,5
Umbria
910
3,3
1.061
4,1
796
3,1
Lazio
3.555
12,9
2.971
11,4
3.829
14,8
Abruzzo
1.039
3,8
858
3,3
1.301
5,0
Molise
177
0,6
42
0,2
258
1,0
Campania
2.366
8,6
2.966
11,3
1.920
7,4
Puglia
2.008
7,3
2.031
7,8
313
8,3
Basilicata
560
2,0
404
1,5
313
1,2
Calabria
3.063
11,1
3.320
12,7
3.364
13,0
Sicilia
1.757
6,4
1.475
5,6
1.440
5,6
Sardegna
914
3,3
1.103
4,2
1.218
4,7
Totale
27.550
100,0
26.161
100,0
25.839
100,0
Fonte: PdCI - Dipartimento Organizzazione

TAB. 2 - Il voto per il PdCI per regione (1999-2005)
El Reg 2005
El. Reg. 2005-
El Reg. 2000
El Pol. 2001
El Eur 2004
El. Eur. 2004-
El Eur. 1999
n.
%
n.
%
n.
%
n.
%
n.
%
Valle d'Aosta            
843
1,5
+192
+0,4
Piemonte
53.388
2,6
+11.458
+0,5
52.917
1,8
71.827
2,9
+9.242
+0,3
Lombardia
104.246
2,4
+18.219
+0,5
93.689
1,5
101.079
1,9
+1.256
-
Veneto
34.782
1,5
+11.433
+0,5
34.636
+10.920
43.122
1,6
+10.920
+0,4
Trentino Alto Adige
 
 
 
 
3.046
0,5
3.681
0,7
+933
+0,1
Friuli-Venezia Giulia
 
 
 
 
13.926
1,7
13.304
1,9
+2.751
+0,3
Liguria
21.912
2,7
+5.405
+0,8
26.293
2,4
21.741
2,3

-2.519

-0,4
Emilia Romagna
78.669
3,4
+28.983
+1,3
46.567
1,6
81.067
3,1
+29.304
+1,1
Toscana
77.137
4,3
+17.879
+1.3
57.222
2,3
83.680
3,8
16.174
+0,5
Marche
31.232
4,0
+11.520
+1,6
18.656
1,9
31.479
3,5
+5.031
+0,3
Umbria
24.269
5,3
+7.248
+1,8
13.240
2,3
24.518
4,7
+5.036
+0,8
Lazio
64.474
2,3
+4.498
+0,1
49.186
1,4
83.366
2,7
+27.295
+0,6
Abruzzo
22.485
2,9
+6.815
+0,8
15.172
1,8
18.106
2,4
+1.923
+0,1
Molise
3.250
1,7
2.830
1,6
+527
+0,3
Campania
76.820
2,7
+30.993
+1,1
64.723
2,0
53.260
1,9
+12.275
+0,3
Puglia
48.287
2,3
+13.720
+0,6
33.158
1,4
38.082
1,8
+8.250
+0,3
Basilicata
14.287
4,1
+7.799
+2,2
8.035
2,3
7.737
2,4
+2.200
+0,6
Calabria
45.704*
4,2*
+13.004
+1,1
26.215
2,5
25.641
2,6
-24
-0,1
Sicilia
32.840
1,2
38.187
1,7
+15.805
+0,7
Sardegna
28.088
1,1
37.524
4,2
+18.523
+1,8
Totale
651.988
2,6
+138.755
+0,6
620.859
1,7
781.074
2,4
+165.094
+0,4
Totale su 14 regioni
651.988
2,6
+143.270
+0,6
553.635
1,7
684.705
2,5
+126.363
+0,4
*In Calabria il PdCI si presentava assieme a l’Italia dei Valori e Progetto Calabrie

La tensione del PdCI verso un modello di partito di massa di stampo togliattiano, d’altro canto, corrisponde sia alle preferenze espresse dai delegati congressuali, sia alle descrizioni della vita di partito da essi fornite 23. Più del 70% dei delegati intervistati, ad esempio, giudica negativamente il ruolo delle correnti e più dell’85% aderisce a un’idea di disciplina che impone al gruppo parlamentare di dar seguito a decisioni assunte dal congresso anche se al suo interno prevalesse un diverso orientamento. Tra i delegati intervistati: più del 70% dichiara di partecipare settimanalmente alle riunioni degli organi locali del partito (anche se poi soltanto il 63% afferma che gli organi locali del partito si riuniscono con frequenza settimanale); l’80,4 concorda (molto) con l’attribuire agli organi di base anzitutto la funzione di “divulgare programmi” (mentre per il 71,5% la loro funzione principale è “farsi portavoce delle domande dei cittadini” e per il 56,5% “rafforzare il senso di appartenenza”); e l’86,9% descrive un dibattito precongressule senza o con poche differenze di opinioni. All’attività politica i delegati intervistati dedicano quasi 30 ore settimanali e i delegati con cariche istituzionali dichiarano di versare in media nelle casse del partito un terzo della loro indennità di carica (meno di quanto versassero in passato, quando al partito andava in media un po’ più del 40%).
Dell’ambizione a essere un partito di massa, infine, il PdCI presenta anche un’altra caratteristica: il tentativo di costruire un solido rapporto con il sindacato.
Percorsa così l’ipotesi, obbligata ma surreale, del PdCI come partito di massa, è opportuno presentare due altre possibili caratterizzazioni del partito. Si tratta di ipotesi congruenti con le piccole dimensioni organizzative del PdCI, complementari tra loro, non necessariamente alternative all’ipotesi del PdCI come proto o micro partito di massa, fondate anch’esse sull’esistenza di un forte legame fra PdCI e vecchio PCI.
La prima delle due ipotesi alternative scaturisce dagli interrogativi suscitati dal profilo elettorale del partito. Le figure 1 e 2mettono in evidenza la varietà degli andamenti del voto al PdCI su scala provinciale alle elezioni regionali (2005 e 2000) e europee (2004 e 1999). Se si confronta la collocazione delle province nei due grafici se ne ricava l’impressione di una forza elettorale non priva di volatilità, ovvero legata oltre che all’appartenenza partitica e alla tradizione politico-culturale anche a fattori congiunturali quali il tipo di elezione, le liste e i simboli in lizza 24, il numero e la qualità dei candidati. Le province nelle quali i Comunisti italiani superano la soglia del 4% dei voti validi, che fino al 2000 non erano più di 4, crescono a 9 nel 2004 e a 12 nel 2005. Si tratta per lo più, ma non solo, di province di zona rossa; i “feudi” tuttavia, con il 6,4% dei voti, si chiamano Lucca e Caltanissetta, ovvero, rispettivamente, un’enclave bianca nella zona rossa e un territorio con una propria tradizione rossa ma pur sempre in partibus infedelium. Tra i due casi esiste però un denominatore comune costituito dalla presenza, sul terreno, di due amministratori di peso: un assessore regionale e un sindaco. Ciò che conta è, per un verso, che proprio tale presenza spiega la propulsione elettorale del partito e, per altro verso, che il profilo e l’azione politica dei due esponenti comunisti rispecchia la loro influenza istituzionale e il loro specifico radicamento territoriale assai più della comune appartenenza partitica. È quanto emerge quando si consideri più da vicino, seppur in breve, il risultato del PdCI nelle province di Lucca e Caltanissetta e la carriera politica dell’assessore regionale Marco Montemagni e del sindaco Rosario Crocetta.


La carriera di Montemagni è perfettamente aderente al tessuto subculturale della regione 25. Già segretario della federazione versiliese del PCI e funzionario dell’Associazione degli artigiani (CNA) nonché dirigente della Lega regionale delle cooperative e mutue, ex consigliere provinciale a Lucca, ex assessore alle attività produttive del comune di Viareggio, l’esponente del PdCI toscano nel 2005 si presenta al voto come assessore regionale uscente al bilancio, finanze, credito, programmazione, coordinamento degli interventi inerenti l’economia del mare). Rispetto al 2000, il PdCI registra nell’intera provincia una crescita superiore al 50% (dal 4% al 6,4%) e in alcuni comuni del litorale e dell’entroterra (Viareggio, Stazzema e Massarosa) sfiora il 10% dei voti. Se si considera che alle europee del 2004, nella provincia di Lucca, il PdCI non era andato oltre il 2,6% 26, appare plausibile ritenere che il risultato debba molto al ruolo di incumbent di Montemagni e al gioco di squadra realizzato con la giunta provinciale e con il sindaco diessino di Viareggio, il quale allo stesso Montemagni deve in parte la sua elezione 27.
Rispetto al caso Montemagni, l’esperienza di Crocetta, il popolare sindaco di Gela in carica dal 2003 e che il PdCI, assieme ai Verdi, ha proposto ai partiti alleati come candidato dell’Unione alla presidenza della regione in vista delle elezioni regionali del 2006 presenta più differenze che analogie. Si tratta di differenze di contesto, rispetto alle quali, come si è detto, la comune appartenenza partitica rimane in ombra. Crocetta, ad esempio, non proviene dalle fila del PCI, entra nel PdCI soltanto nel 2000, inizia la propria carriera politica, dopo un passato di sistemista informatico all’Enichem, come assessore (alla cultura) del comune di Gela dal 1996 al 1998, chiamato dal sindaco Franco Gallo), prosegue nel 1998 come consigliere comunale (indipendente nella lista Reti-Verdi) e poi, dal 1999 al 2000, come consulente dell'Assessorato regionale Beni Culturali della Sicilia per gli scambi culturali coi paesi del Mediterraneo. La sua relazione col partito non ha molto della relazione, canonica e organica, dell’assessore Montemagni, si intreccia con altre “appartenenze” (la fede cattolica; la dichiarata omosessualità), risente del retroterra civico e culturale della città di Gela. Sul piano dell’azione politico-amministrativa, il sindaco Crocetta lega il suo nome a una serie di iniziative anti-mafia (in particolare l’adozione di nuove procedure per l’assegnazione degli appalti pubblici, provvedimento che lo rende bersaglio delle cosche obbligandolo a muoversi con una scorta armata) e a specifici interventi quali il salvataggio dalla bancarotta del Gela Calcio. La sua notorietà deve molto anche a una condotta di governo “decisionista” (rivelatasi, ad esempio, nell’installazione di alcune decine di telecamere nel centro della città come misura di contenimento della microcriminalità) e al tentativo di sollecitare la partecipazione dei cittadini (ad esempio attraverso referendum deliberativi su temi quali la localizzazione del nuovo mercato centrale). Tutto ciò ha costituito una premessa rilevante del picco di consensi raggiunto dal PdCI nella provincia di Caltanissetta. A Gela, peraltro, già prima dell’elezione di Crocetta a sindaco il PdCI aveva raggiunto percentuali inusitate come il 24,8% delle regionali del giugno 2001. Anche quel risultato, ottenuto a partire dal 4% conseguito dal PdCI alle politiche di pochi mesi prima, aveva un fondamento più personale che partitico, per la “trascinante” presenza in lista dell’ex assessore regionale (ai beni culturali) Salvatore Morinello.
L’ipotesi in discussione può essere precisata se si considerano due aspetti aggiuntivi. Il primo è che, contrariamente quanto la coesione del gruppo dirigente nazionale, le piccole dimensioni strutturali e la regola del centralismo democratico potevano lasciare prevedere, la vita organizzativa del PdCI non si è snodata finora nella in una calma piatta e ordinata. Essa è stata al contrario costellata da conflitti interni relativi che hanno indotto il vertice nazionale a commissariare federazioni importanti come Napoli, Roma, Milano e Catanzaro o a convocare congressi straordinari come quello previsto in Emilia Romagna nei prossimi mesi. Il secondo aspetto aggiuntivo è che per le cifre riportate in apertura e relative alla presenza istituzionale del partito (più di 350 amministratori regionali e locali per quasi 650 eletti) rendono il PdCI simile a alcuni «partiti degli assessori» della Prima Repubblica (tanto più se si tiene conto che dopo le riforme degli anni Novanta le posizioni di governo locale e regionale sono separate da quelle elettive). Questa connotazione trova indiretta conferma nelle parole dello stesso segretario Diliberto, il quale sembra assumere la relativa turbolenza e competizione interna come indicatore di consolidamento organizzativo: «Tre anni fa, si veniva al Comitato centrale e ci si lamentava perché nei territori la maggioranza di centrosinistra ci ignorava o ci trattava male o non ci dava l’assessore anche se lo meritavano. Adesso gli assessori sono (con qualche rara eccezione) praticamente ovunque, forse è per questo che litighiamo di più. Non avevamo consiglieri regionali, e oggi si litiga su chi deve andare a fare il consigliere regionale, e in qualche caso ne abbiamo due e persino tre. Badate, certe pratiche vanno contrastate, ma sono anche il segno di una crescita» 28.
Ancora Diliberto, in altra sede, aveva auspicato che il proprio partito assumesse il profilo di «un’organizzazione a metà strada tra il partito di massa tradizionale e il partito di quadri» [Galloni 2003]. Volendo prendere sul serio l’auspicio, le considerazioni svolte fin qui inducono a precisare che il profilo di tali quadri non sarebbe né quello dei quadri rivoluzionari del partito leninista [Duverger 1951], né quello dei quadri del «nuovo partito di quadri» che sembra essersi affermato in Europa nell’ultimo decennio [Koole 1994]. Si tratterebbe piuttosto di quadri assimilabili ai notabili rossi della Francia degli anni Settanta e Ottanta, radicati assai più nella politica locale e nei benefici assicurati dalla strategia elettorale di Union de la gauche che non nell’ideologia ufficiale [Lacorne 1980].
La seconda ipotesi alternativa a quella del PdCI come (micro o proto) partito di massa si basa sull’esame delle risorse strategiche di cui il partito dispone e che ne sostengono l’azione e, come vedremo nella sezione successiva a quelle che segue, caratterizza il PdCI come partito di nicchia. Per ora il punto da fermare è che le tre ipotesi rinviano tutte, seppure in modi
diversi, all’esistenza di un forte legame tra il PdCI e la tradizione del vecchio PCI. Nell’ipotesi del partito di massa tale legame è soprattutto retorico-formale, pur chiamando in causa anche aspetti funzionali relativi, come si è visto, alla vita interna del partito e alla sua percezione da parte dei quadri intermedi. L’ipotesi del partito di notabili rossi identifica invece un legame reale, che fa cioè riferimento a una continuità di personale politico e/o di interessi e radicamento locali, che dal PCI transitano al PdCI via Rifondazione o via DS 29.
Nell’ipotesi del partito di nicchia, infine, a prevalere è un legame col vecchio PCI a carattere identitarioculturale, nella misura in cui, come vedremo, il partito si caratterizza come spazio per l’espressione della nostalgia. Prima di prendere in esame le posizioni di nicchia e le risorse strategiche che le sostengono è però opportuno volgere l’attenzione alle caratteristiche dei quadri intermedi del partito.