|
Luciano Canfora
La
democrazia. Storia di una ideologia
Laterza,
2004, € 10 |
Al termine di un'ampia analisi del percorso storico, una
riflessione sulle caratteristiche dell'attuale sistema di governo
occidentale e della sua distanza dalla "democrazia vera e
propria". Stralci dal capitolo 15°,
“Il sistema
misto”
Lo svuotamento delle «democrazie progressive», cioè
del contenuto concreto dell'antifascismo tradotto in norme costituzionali,
è avvenuto in due direzioni convergenti: sul piano istituzionale
col rafforzamento dell'esecutivo e con leggi elettorali che spostano
l'elettorato verso il centro e selezionano con criterio censitario
il personale politico, producendo la definitiva sconfitta del
suffragio universale; sul piano sostanziale con l'accentuarsi
della «presa» delle oligarchie che contano sull'intera
società (impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti,
accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione
capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della
idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente
pervasivo).
Di solito ci si indigna quando qualcuno solleva il problema della
costruzione dell'«opinione pubblica» attraverso il
potente mezzo televisivo. (Un po' meno ci si sdegna, contro siffatto
«indecente» argomentare, quando sono in atto le zuffe
per lottizzare il controllo delle emittenti televisive). Però
la validità dell'argomento dovrebbe considerarsi ormai
assodata da quando Murdoch è uno dei pilastri elettorali
di Bush jr. e in Italia il proprietario di quasi tutta l'emittenza
privata, che è anche il più grande pubblicitario
del secolo, ha in pochi mesi creato un partito, e vinto ben due
volte le elezioni (1994, 2001). Ciò non impedisce che,
ciclicamente, un nugolo di facitori di opinioni si «ingegnino»,
come diceva donna Prassede, a dimostrare che una diagnosi del
genere è poco meno che un'infamia, anzi il bieco sofisma
caro a coloro che perdono le elezioni.
Che il mezzo televisivo influenzi direttamente la «intenzione
di voto» degli elettori è fuor di dubbio. In uno
studio molto ben condotto, La spirale del silenzio (2002),
Elisabeth Noelle-Neumann - fondatrice nel lontano 1947 dell'Institut
für Demoskopie Allensbach, collaboratrice per molti anni
di Helmut Kohl, e coeditrice da oltre un decennio dell'Anternational
Journal of Public Opinion Quarterly» - ha raccontato
un istruttivo esperimento fatto dall'Istituto Allensbach durante
la campagna elettorale tedesca federale del 1976. Furono scelti
due significativi campioni di due differenti ambiti: a) telespettatori
assidui di trasmissioni a tema politico; b) soggetti che guardano
di rado o mai trasmissioni a tema politico.
Le due rilevazioni principali furono nel marzo e nel luglio 1976:
si votò il 3 ottobre. Da marzo a luglio, di fronte alla
domanda «Anche se nessuno può saperlo, chi ritiene
che vincerà le prossime elezioni?», il gruppo
a si spostò da un iniziale 47% ad appena il 34% convinto
della vittoria della Cdu/Csu, mentre inversamente le risposte
che davano vincente la coalizione socialista-liberale balzarono
dal 32 al 42%. Invece il gruppo b rimase stabile (36 contro 24
in marzo, 38 contro 25 in luglio ed un'altissima percentuale di
incerti: circa il 40%). In realtà, sebbene i due schieramenti
si pareggiassero (infatti alla fine la coalizione socialista-liberale
prevalse per trecentomila voti su 38 milioni di votanti), i giornalisti
politici attivi in Tv continuavano a dichiarare che non c'era
alcuna possibilità di vittoria per la Cdu/Csu. E questo
ebbe un effetto ben visibile.
Naturalmente l'esperimento, proprio perché riferito a telespettatori
«assidui di trasmissioni a tema politico», riguardava
una ristretta élite del corpo elettorale. I fruitori di
trasmissioni politiche, come del resto i lettori di giornali da
cui intendono trarre il loro orientamento politico, sono una esigua
minoranza politicizzata. La conferma di questo dato ben noto viene
proprio dal risultato delle elezioni ora ricordate, nelle quali
il piccolo (in cifre assolute) spostamento elettorale determinato
dalla parte politica delle trasmissioni televisive risultò
decisivo rispetto ad un elettorato praticamente diviso in due
parti uguali.
Ma la parte direttamente politica della produzione televisiva
è il meno, è la parte trascurabile della politicità
dello strumento televisivo.
Sul piano della comunicazione politica contano, semmai, molto
di più i silenzi: quello che una macchina dell'informazione
così vasta che non ha l'eguale nella storia umana riesce
a non dire. Un esempio valga a chiarire l'inverosimile situazione:
un esempio che chiarisce bene il ruolo e la sostanziale subalternità
dell'Europa. Come tutti sanno, nella generale costernazione delle
cancellerie europee e della Organizzazione delle Nazioni Unite,
nel marzo 2003 gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco in grande
stile, aereo navale e terrestre, causando un numero finora non
precisato di vittime, contro la repubblica dell'Iraq accusata
di possedere, nascostamente, armi chimiche di distruzione di massa.
È altrettanto noto che gli ispettori internazionali inviati
prima del conflitto a «scoprire» tali armi non ne
trovarono traccia, e che traccia non se n'è trovata neanche
mesi e mesi dopo che il conflitto era finito, ed il paese veniva
occupato dagli eserciti anglo-americani, e depredato e controllato
in ogni suo angolo. Da principio un'altra «buona causa»
di guerra era stata addotta dagli attaccanti, e cioè l'oppressione
da parte irakena della minoranza curda, ma poiché la Turchia,
alleata indispensabile degli Stati Uniti, perseguita anch'essa
i Curdi e li massacra, si è preferito lasciar perdere quest'altra
«buona causa», e non se n'è parlato più.
Il silenzio calato sui Curdi ed il loro triste destino da parte
dei nostri media, pur già pronti a fare il bis umanitario
dopo il Kossovo ma improvvisamente dimentichi della giusta causa
curda, è di per sé impressionante.
Ma torniamo alle presunte armi di distruzione dell'Iraq, la cui
inesistenza è ormai generalmente riconosciuta, al punto
che il problema della Casa Bianca e di Downing Street oggi non
è più di ostinarsi a sostenere che ci fossero, ma
di individuare qualcuno cui addebitare la colpa di aver fatto
credere (ai due più potenti servizi segreti del mondo)
che quelle armi ci fossero davvero. Il silenzio dei media europei
riguarda un altro imbarazzante dettaglio della vicenda. Il direttore
generale dell'Opac (Organizzazione per la Proibizione delle Armi
Chimiche), José Mauricio Bustani, un anno prima che la
guerra scoppiasse aveva incitato l'Opac a sollecitare l'adesione
dell'Iraq. Ma questo, aveva scritto il 20 aprile 2002 il «Guardian»,
apparve al governo americano come un imprevisto impedimento alla
intenzione di attaccare l'Iraq.
Da parte degli Stati Uniti la reazione è stata di rifiuto
totale della proposta di Bustani fino al passo, significativo,
di ordinare al governo brasiliano (presidente era allora il prof.
Cardoso) di rimuovere Bustani dall'incarico. Il testo dell'ingiunzione,
insieme con la ricostruzione della vicenda, è stato edito
nella rivista dell'Università di San Paolo «Estudos
avançados» (16, 2002). Bustani fu catapultato
come console generale a Londra: ormai la guerra era imminente.
Tuttavia il ricorso di Bustani all'Oit (Organisation International
du Travail) ha avuto successo, e nello scorso luglio la cacciata
di Bustani dall'Opac è stata definita «illegale».
Nessuno nei nostri turgidi telegiornali o nei quotidiani si è
degnato di fornire mai il benché minimo dettaglio di questa
vicenda. I cittadini e i telespettatori non dovevano conoscere
la prova esplicita di quanto criminale fosse stata la condotta
statunitense nel fomentare la guerra che, pure, gli stessi governi
europei avversavano. Ma ammettiamo senz'altro che l'efficacia
di una simile enormità sarebbe rimasta all'interno di una
non vastissima cerchia di «specialisti della politica».
La partita si gioca su altri piani.
A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia «elettorale»
e, più in generale «politica», del potere mediatico
si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza
politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione
con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma
questa costituisce un aspetto minimo della questione: è
al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite
politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza
più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché
queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è
ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del
culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli:
è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento
totale. Il dominio della merce è diventato culto della
merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla
lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa
di emissioni consacrate alla promozione delle merci è,
a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca «macchina»
televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti.
Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo
(di cui attendere la conclusione per «riprendere il filo»)
è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno
alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status
a portata di mano.
Il lato geniale ed irresistibile di questo genere del tutto nuovo
di «conquista dell'opinione» è che esso non
si manifesta mai in modo direttamente politico. Essa ha fatto
tesoro della constatata sconfitta dell'altro metodo: quello, per
così dire, «concettuale» del «lavaggio
del cervello» esplicitamente propagandistico. Come s'è
visto, dovunque il metodo di indottrinamento diretto ha suscitato
fastidio, estraneità e alla fine ripulsa. Lo si può
praticare con successo solo se lo si destina ad una ristretta
élite gravata di speciali responsabilità (è
il caso della Chiesa cattolica nella formazione dei suoi «quadri»):
altrimenti sortisce l'effetto contrario. Invece il metodo «subliminare»,
anche perché le opzioni che deve indurre a preferire sono
di carattere elementare se non proprio infantile (più merci
= più felicità), è di effetto certo: non
fa che prospettare, ininterrottamente, immagini, brevi e di facile
fruizione intellettuale anche per deficienti, di un mondo (fittizio)
già reso perfetto e felice dalla sovrabbondanza delle merci
di ogni genere. Non meno efficace è il ritrovato, costante
nell'intera straripante produzione pubblicitaria, di mostrare
intorno ad ogni (singola) merce la vita felice di tutti i giorni
(nella sua forma più luccicante e attraente) di infinite
«persone qualunque»: le quali in realtà sono
sapientemente selezionate al fine di determinare un immediato
effetto di auto-identificazione, immedesimazione e conseguente
spinta mimetica, al prodursi del quale «il gioco è
fatto». Non c'è bisogno di un orwelliano «grande
fratello» per orchestrare tutto questo: è una macchina
che si autoregola e si moltiplica per il fatto stesso di essere,
anche economicamente, sommamente redditizia.
Prima di indurre centinaia di migliaia di uomini a transitare
al di qua dell'ormai affondata «cortina di ferro»,
o a varcare i mari rischiando anche la vita pur di sbarcare nel
«paese di Bengodi» (si parlò a questo proposito,
anni addietro, di spot people), quegli influentissimi
testi - la cui produzione costa miliardi e che movimentano milioni
e milioni di consumatori in tutto il mondo - avevano preliminarmente
conquistato la mente, per non dire l'anima, innanzi tutto dei
cittadini di serie A, cioè di quelli che «già
c'erano» nel paese di Bengodi. I grandi creatori di pubblicità
sono dunque i veri e a loro modo geniali «intellettuali
organici» della vincente dittatura della ricchezza. Non
ha molta importanza la patetica battaglia per pareggiare più
o meno equamente gli spot elettorali: tutto il resto sono i veri
spot elettorali. Essi indirizzano milioni di utenti a simpatizzare
per quelle forze che gridano con santo sdegno: «lasciateci
godere della nostra ricchezza! », e come unica «ideologia»
trasmettono il più sollecitante dei messaggi: «cercate
di diventare come noi!».
Al potere incontrastabile dell'«ideologia della ricchezza»
si associano altre mitologie di massa: i grandi «miti analfabeti»,
di cui lo sport è forse il massimo esempio, divenuto infatti
ormai, non a caso, un fattore direttamente politico, oltre che
unica occasione di mobilitazione spontanea delle masse.
Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi)
ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo -
la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente
delle masse è la nuova forma della «parola demagogica».
Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico,
l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è
solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale
ottundimentio della capacità critica: l'allarme lanciato
da Giacomo Leopardi, «dove tutti sanno poco, si sa poco»,
poteva sembrare, al tempo in cui fu formulato, affetto da aristocratismo;
è oggi che trova il suo pieno inveramento.
Sembrava il fascismo aver dato il massimo contributo in questa
direzione: era invece pur sempre un movimento che affondava le
sue remote radici nel secolo precedente e nel sempre ritornante
modello bonapartista. Il fascismo prendeva di petto e manipolava
«la folla» così come l'aveva conosciuta e descritta
Gustave Le Bon. Al contrario l'attuale «democrazia oligarchica»,
o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta,
ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme,
omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del «piccolo
schermo»; nutre, illude e proietta verso una felicità
merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli
della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto,
paghi della apparente verità e universalità che
quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro,
soffusa di sogni.
L'epilogo è stato la vittoria, che ha prospettive di lunga
durata, di quella che i Greci chiamavano la «costituzione
mista», in cui il «popolo» si esprime ma chi
conta sono i ceti possidenti: tradotto in linguaggio più
attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia dinamica e
incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso
e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi
elettorali. Scenario beninteso limitato al mondo euro-atlantico
e ad «isole» ad esso connesse nel resto del pianeta.
Pianeta che, altrove, viene messo in riga le armi in pugno.
Non si è giunti a questo esito nello spazio di un mattino.
La nascita e lo sviluppo dello Stato sociale, ad esempio, meriterebbero
una trattazione ad hoc nella quale rientrano non solo
la «sfida» rappresentata dall'assistenzialismo di
tipo sovietico ma anche il New Deal e anche il fascismo.
Alla conclusione del suo percorso esso appare co me un prezioso
pilastro del sistema economico-sociale ed è apprezzato
perciò anche da coloro che lo avversa vano e che tuttora
vorrebbero ridimensionarlo ma che ovviamente sanno quanto sia
prezioso salvaguardarlo.
Per parte sua, anche la democrazia ha avuto i suoi momenti di
grandezza. Mentre gli Stati Uniti d'America appoggiavano attivamente
i fascismi militar-golpisti su tutto il pianeta, dall'Indonesia
all'intero Sud America (con effetti particolarmente feroci in
Cile e in Argentina) e teorizzavano che quelle dittature erano
il necessario baluardo contro il comunismo, ed estendevano questa
linea d'azione al continente europeo (appoggio ai fascismi «storici»
della penisola iberica, instaurazione della dittatura militare
greca, appoggio alla eversione «nera» in Italia),
anche il contrattacco democratico ha avuto i suoi fasti: dalla
rivoluzione portoghese, alla cacciata dei colonnelli greci, all'«era
Brandt» in Germania; per non ricordare se non di sfuggita
lo spostamento di equilibri a sfavore dei ceti possidenti attuatosi
in Italia, non a caso in un clima di rinnovata tensione antifascista,
alla fine degli anni Sessanta e codificato in un testo di legge
non a torto solennemente definito «Statuto dei lavoratori»,
oggi sotto attacco.
Ma questi momenti alti non hanno alla fine prevalso se non temporaneamente.
La democrazia (che è tutt'altra cosa dal sistema misto)
è infatti un prodotto instabile: e il prevalere (temporaneo)
dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per
l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente
ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, «diritti».
Ben diceva il Bobbio del 1975 che «l'essenza della democrazia
è l'egualitarismo.» Il suo affiorare, che non
è così frequente e che nel secondo Novecento ha
avuto un punto di forza nell'antifascismo, è dovuto all'irrompere,
nel regime misto o se si preferisce semi-oligarchico codificato
dal liberalismo classico, di istanze egualitarie più o
meno coronate da durevole successo, che quasi sempre si fanno
strada nell'asprezza di un conflitto: ben lo descrive Platone,
alquanto inorridito, in un celebre passo della Repubblica.
Sono interruzioni più o meno durevoli del sistema «misto».
Chi molto si avvicinò a questo genere di diagnosi fu un
grande interprete delle dinamiche sociali, Gaetano Mosca. Egli
fece ricorso, a sostegno della sua tesi, certo pessimistica, dell'inesistenza
della democrazia, «all'apologo - come scrive -
di quel padre che morendo confidava ai figli che nel campo
avito era sepolto un tesoro, ciò che fece sì che
quelli ne sollevassero tutte le zolle, non trovando il tesoro
ma aumentando notevolmente la fertilità del terreno.»
L'apologo può essere messo a frutto in molti modi, per
esempio a sostegno della tesi che la fiducia nella possibile esistenza
della democrazia ha di per sé effetti migliorativi («democratici»
appunto); certo esso esprime bene l'inesistenza fattuale, e insieme
l'indispensabilità della «democrazia» (beninteso
nel suo senso pieno e originario). |