Pietro Ingrao

Volevo la luna

Einaudi, 2006, pp. 376, € 18,50


L'autobiografia di Pietro Ingrao

«Queste memorie sono in qualche modo la ricostruzione di una vicenda personale e sociale nelle insanguinate vicende del mio tempo. Ma - anche per il memorialista - non è proprio certo che le cose siano andate così, e con tale "ordine" sotteso. L' accaduto forse diverrà più sicuro, quando saranno appurati nessi ed eventi che a tutt'oggi, almeno per chi scrive, risultano ambigui o ancora nel farsi, o ancora troppo personali e segreti.
Quell'evento fu così, come sta aggrappato nella mia dolce, dolorosa memoria? O si è consumata la chiave, ammesso che ci sia in campo una chiave, sia pure per una raccolta di frammenti? Essendo incerta la lingua, come si dà e si legittima la memoria ? E perché temiamo tanto che la memoria si perda ? E la vanità di stare ancora e per sempre sulla scena o un tentativodi salvezza ? O forse è la memoria di una soggezione ad altri, tale che non può reggere il silenzio».

Pietro Ingrao è nato nel 1915 a Lenola, in provincia di Latina. Nel 1936, dopo l'aggressione franchista alla Repubblica spagnola, diviene membro attivo dell' organizzazione clandestina comunista. Alla cacciata dei nazifascisti da Roma entra nell'esercito di Liberazione. Deputato del PCI dal 1948 al 1992, è stato presidente della Camera dal 1976 al 1979. Direttore del quotidiano «
l'Unità» nella prima metà degli anni Cinquanta, è autore di diversi saggi, tra i quali Masse e potere, Le cose impossibili, Appuntamenti di fine secolo (con Rossana Rossanda e altri) e raccolte di poesie tra cui Il dubbio dei vincitori e Variazioni serali.

Rossana Rossanda

Gracile, amaro, aspro, le tre note di un'autobiografia

Quando Pietro Ingrao pubblicò, nel 1986, il suo primo volume di versi (Il dubbio dei vincitori, Mondadori) qualcuno si offuscò: ma come, era il dirigente comunista più amato, fermo, il sicuro punto di riferimento nella crisi del partito, ed ecco che rivelava una sua dimensione personale, tumultuosa e inquietante, che cercava un raggiungimento nella forma, era come se dicesse: non appartengo tutto a voi, mia comunità politica.
Oggi, riandando sulla sua vita (Volevo la luna, Einaudi, pp.376, euro 18,75) egli scosta da sé di nuovo l'icona di leader del popolo e padre della patria, infrangibile, quello che nella copertina parla alla folla, il volto asseverativo e la mano alzata in esortazione. L'icona - dicono le sue pagine - è la cristallizzazione forzosa d'un percorso, interiore e pubblico, nel quale, al momento dei bilanci le priorità e i pesi si ridistribuiscono, e molto rischia di apparire vanità. Ingrao sa di essere un uomo pubblico, e ci tiene, anche se gli pare un poco cedere alla lusinga, ma quel che ha raggiunto va soppesato e gli errori vanno ammessi. E' una vita autentica.
Il titolo stesso pone un interrogativo. Voleva l'irraggiungibile o che quel che voleva è rimasto distante? La risposta è sospesa. Penso ai versi di Eluard: «Et s'il était à refaire, je referais ce chemin». Sì, se si trattasse di rifarla, rifarebbe quella strada. Con qualche illusione o protervia comunista di meno. E quale ne è l'esito? Il suo attuale compagno di partito, Fausto Bertinotti, non cessa di citare i versi di Kavafis in Itaca: importante non è l'approdo, è il viaggio. Ma l'approdo dà senso al viaggio. L'approdo di Ingrao è che la rivoluzione degli oppressi contro l'oppressione, che resta da compiere, sarà diversa dall'immaginato dalla sua passata milizia e il suo soggetto sarà plurimo. Per strada rimane, con le sue macerie, il leninismo-stalinismo, coppia di sostantivi che non aveva incontrato ancora. E la violenza.

Un ritiro senza clamori

Diversamente dal suo ultimo lavoro di indagine, Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri), che si interrogava prima di altri sulla precarizzazione del lavoro, Volevo la luna scandisce sulla esperienza personale cinquanta anni di storia del Novecento. Dall'infanzia in una famiglia meridionale di signori poveri, contraddizione significativa, alla formazione intellettuale e politica ormai giovane nella (gracile) resistenza romana, alla lunga militanza al vertice del PCI, che diventa nel dopoguerra scontro (aspro) con l'arroganza del ceto dominante e fra i campi in cui il mondo è diviso. Poi sarà la (amara) divisione nel partito, preludio di una più vasta sconfitta, fino alla uccisione di Moro. Perché la morte di Moro? Ingrao non era stato un fervente del compromesso storico, conosceva abbastanza la Democrazia cristiana per dubitarne, lo aveva detto a Berlinguer, non era stato ascoltato e si era fatto da parte. La ragione è interiore: da quell'anno non accetterà più alcun incarico dal PCI, a cominciare dalla presidenza della Camera che il partito gli vorrebbe imporre una seconda volta, dopo avervelo mandato anche per toglierselo dattorno alle Botteghe Oscure. Sente «il bisogno di riflettere sul fallimento della strategia del PCI in Italia», sull'Europa, sul mondo che cambia. C'è da studiare, cercare, capire. È' politica, ma non più un «fare politico». Ingrao, se ha dubitato della «alta febbre del fare», non si è mai illuso su che cosa sia o non sia il fare politico. Si ritira senza clamori. Nel libro sono poche righe asciutte, prima di chiudersi sulla figura solitaria e emblematica del disperso di Marburg nel racconto di Nuto Revelli.
Non è a causa dell'età che chiude con la milizia attiva; ha sì e no sessant'anni e del resto ancora un paio d'anni fa raggiungeva una manifestazione traversando Roma intasata sul sellino posteriore di una motocicletta. Lasciava per il dubbio, lungamente maturato, sulla capacità del partito di intendere il volgere degli eventi e di farvi fronte. Allora non ne ha parlato, né oggi getta la responsabilità su questo o quello. E non perché sia arrivato alla conclusione, credo, che fin dall'origine il tentativo comunista era destinato a fallire, che c'era il verme nel frutto. Nel tramonto della sinistra che è stata anche sua è sempre attento al sorgere di quelli che per primo ha chiamato «i nuovi soggetti». Ma da un pezzo deve aver cessato di credere che il PCI li intendesse, e non crede che qualcuno altro li abbia intesi meglio. Vano, quando non pericoloso, dev'essergli sembrato il tormentarsi degli anni '70. L'aggettivo che gli viene sotto la penna più spesso è ormai «amaro». Ma non ha risentimenti. Anch'egli ha mancato, sbagliato.
Dove? Nella «soggezione» al modo di essere del partito. Essa gli pesa di più che gli errori di analisi e previsione, dei quali esso è una causa. Se oggi non propone una lettura diversa del mutare dei rapporti di forza, dagli anni sessanta in poi, è perché la partita è complessa, non gliene sfugge la dimensione ed è sua ferma convinzione che soltanto un grande partito - non un coacervo di opinione, ma un «intellettuale collettivo» - avrebbe potuto farvi fronte. E neppure sottolinea di aver personalmente affacciato interrogativi e risposte. È troppo severo con se stesso: molti di noi lo sanno più attento di ogni altro dirigente al mutare delle cose, su cui ha molto ragionato e scritto. Se mai è irresoluto nel trarne le conseguenze quando il partito non le trae. Ingrao è sempre un poco oltre e fuori dalla linea, ma è convinto che non si fa politica da soli. Come se gli parlasse dentro il brechtiano: «Compagno, non avere ragione senza di noi».
Tanto più che c'è una consonanza fra la sua formazione e quella del vertice comunista italiano, in particolare della sua generazione: l'impronta morale, antifascista, nazional-popolare più che marxista, l'acuta sensibilità per gli oppressi più che per gli sfruttati, più per le vessazione dei padroni o dell'apparato repressivo dello stato più che per il meccanismo capitalistico di produzione, che gli appare astratto, dunque pressoché inumano. Umanesimo contro «economicismo» è la «via italiana», e di economicismo mi ha sempre rimproverato. Questo accento, cui è stato piegato (perché piegabile) anche Gramsci e nella discussione interna è malamente tradotto nella contesa fra meridionalisti nazional-popolari e settentrional-cosmopoliti, è stato determinante nel PCI assai più della ubbidienza alla vulgata marxista-leninista dell'Urss. In Ingrao è rafforzato da quello «storicismo assoluto», che è il contrario del determinismo (i popperiani nulla ne hanno capito) e viene dal post-hegelismo filtrato da Labriola e Gramsci. La calorosa scoperta del nonno garibaldino incontra una Weltanschaung segnata dall'intreccio fra risorgimento, antifascismo, democrazia e oppressioni del presente.

Il corpo e il sangue del partito

Nell'esperienza soggettiva, i rapporti nel partito pesano di più delle scelte del partito. La sua è una appartenenza, calda, diretta, imponente. Con la base e con il gruppo dirigente, che non sono la stessa cosa. La base è parente del popolo, della massa, che il vertice interpreta e dirige, sollecita e frena; in essa la memoria ritaglia i singoli, uomini e donne con nome e cognome, con i quali ha condiviso giorni e speranze, allegrie o angosce, azioni e riflessioni indimenticabili. Dagli inizi con il gruppo romano, a mezzo fra generazionale, amicale e politico, e poi - nell'insensato giro della prima clandestinità - con Salvatore di Benedetto che lo nasconde a Milano o il vecchio pastore che lo copre nella Sila. Poi saranno le centinaia di persone, individui compagni, incontrati nei decenni di lavoro a l'Unità o in segreteria o alla Camera (dalla quale Ingrao s'è mosso come nessuno, ricordo un incontro di lavoro collettivo con l'assemblea della Montedison di Castellanza). La base è la pluralità del paese vivente, che si raggruma nelle istituzioni locali, nei comuni, terminali appunto plurimi di tradizione secolare e modernità. Essi sono il corpo, il sangue del partito. Altro è il gruppo dirigente, nel quale Ingrao è proiettato quasi subito. È un vertice pervaso della propria responsabilità, al quale si è cooptati e nel quale si sperimenta la solidarietà del lavoro comune, un certo senso di missione storica e la discussione quotidiana sul fare. E questa, se spesso converge, altre volte si fa scontro, reso drammatico dalla gerarchia e da un centralismo per il quale il solo balenare di una divergenza sarebbe la catastrofe, spaccherebbe tutto.
Una sola volta Ingrao lo sfida, all'XI congresso, dove presenta un'ipotesi di modello di sviluppo e di alleanze opposta a quella amendoliana (ma nel libro la ricorda appena) e una innovazione di metodo, la legittimazione del dissenso (nel libro il ricordo è vivissimo). Che venga accolto da applausi scroscianti dai delegati poco conta di fronte al gelo del gruppo dirigente. Vuol dire che ha perso; quello è il perimetro vero del confronto. Non tenterà in alcun modo di sollevare o dividere l'assemblea e sopporterà senza reagire la grandine di punizioni che segue su di lui e sui suoi. Non protesta perché ancora oggi pensa di avere violato un interdetto: è vero che eravamo una frazione, scrive. Frazione per aver discusso con quattro o cinque di noi, e per aver confrontato con Lucio Magri il discorso da pronunciare all'XI congresso? Magari ci fossimo mossi come frazione, non lo abbiamo fatto. Non abbiamo cercato di riunire una sola volta i compagni che sentivamo più vicini. Conoscevamo tutti e ci conoscevano tutti, sarebbe stato uno scontro acerbo, ma non ci fu. Ci fu la sua solitaria sfida. Ogni «ingraiano» si mosse da solo, più o meno felicemente, per rispetto di un leader che pareva volere tutto il partito o niente.
Sarà così anche più tardi, dopo la caduta del Muro di Berlino, cui queste memorie non arrivano. Ingrao rifiuta il cambiamento del nome del partito, sa che vuol dire cambiamento di identità e collocazione. Ma quando si coagulano attorno a lui le speranze di una rottura e ricominciamento - una Rifondazione diretta da lui invece che da Armando Cossutta - non se la sente. Il compagno Ingrao non è uno scissionista. La passione urta con il metodo, introiettati tutti e due. Metterà per l'ultima volta tutto il suo peso contro la guerra del Golfo. Poi uscirà dal partito, da solo, senza consultare nessuno.

La ferrea appartenenza

Oggi sente questa immobilità come una colpa, ma più per alcune discriminanti d'ordine etico che su questa o quella analisi da cui pure dipendevano il presente e il futuro del PCI. Il suo giudizio sui compagni della direzione è generoso, fin indulgente con chi gli aveva fatto guerra, come Amendola di cui ricorda una brutta minaccia senza farne il nome. Soltanto da uno di essi si sente lontano, Togliatti, che non chiama «il compagno Togliatti». Lo chiama «quel capo». Quel capo ha mentito, tacendo o parlando, quel capo ha brindato all'invasione di Budapest, quel capo ha impedito la discussione sul 1956 definendola come un attacco contro lui medesimo e con ciò azzittendo tutti. L'Ingrao di oggi non si perdona di aver taciuto, peggio di avere scritto a favore dell'invasione dell'Ungheria - eppure non taceva per viltà, ma per patita (aspra, amara) condivisione del metodo interno, per una contraddizione fra due principi di lotta. Molti anni dopo fu il solo comunista di rilievo che intervenisse al secondo convegno de il manifesto sull'est, dove di perifrasi non se ne usava nessuna. Ma era il 1981 ed egli era fuori del gruppo dirigente.
Tale è la priorità delle relazioni. In un partito o in un gruppo essa significa appartenenza. Un tempo noi dicevamo più freddamente adesione. Appartenenza è un legame più profondo, comporta vincoli che la mera razionalità non sospetta. Ingrao si accusa di tradimento per aver votato nel 1969 la esclusione del gruppo de il manifesto dal Comitato centrale. Ma quale tradimento? Era evidente che non avrebbe partecipato alla nostra impresa. Non aveva approvato i pochi di noi che erano riusciti a parlare dalla tribuna del XII congresso. Quando gli dicemmo della rivista ci ammonì che, malgrado la rassicurazione di Berlinguer, saremmo stati sicuramente sanzionati. Ci separammo nel modo più limpido e amichevole. Se qualcuno si sentì abbandonato fu molto più tardi, dopo il 1989, ad Arco, quando con qualche ragione si attendeva da lui il lancio di un nuovo inizio.
Per questo ultimo Ingrao, che «parte da sé», la relazione con l'altro vivente, persona o gruppo, è il rapporto essenziale, attraverso il quale filtra la verità dell'esperienza pubblica e privata. È questo che fa sbiadire nelle sue pagine i lineamenti della posta su cui volta per volta si è giocato il destino nostro, e del paese, ed oltre di esso: quale era la discriminate che si profilava dopo la morte di Togliatti, che è stato realmente il partito di Berlinguer, quale consistenza aveva, al di là dei colloqui di vertice, l'incontro fra Dc e PCI, cattolici e comunisti, come si è andata disegnando la crisi dei socialismi reali e la risposta di un neoliberismo alle insorgenze degli ultimi anni '60 e dei '70 - come matura insomma, attraverso quali passaggi, la crisi epocale del comunismo. Le sue pagine echeggiano il rombo del mondo come si sente il frastuono d'una mareggiata, disegnano i grandi motivi della umana sofferenza e del riscatto; non li analizzano più. Il tempo delle scelte è passato.
Di assoluto e dolce resta la famiglia, radice e luogo del ritorno. Laura, la compagna della vita, Laura spesso più forte e avvertita di lui (non perciò le dà retta, sempre maschio italiano è), Laura che risolve, Laura madre che se la deve sbrigare con i loro cinque rampolli, Laura che è la passione e l'occhio indulgente. E le figlie, tramite fisico del 1968 romano, conosciuto soltanto attraverso di loro, il figlio cui ha dato il suo nome nella resistenza (e neanche questo Togliatti aveva capito), la grande tribù degli Ingrao nella grande vecchia casa a Lenola. E poi gli scorci di fogliame e sole e mare che irrompono negli anni e nel ricordo, la felicità del corpo. È il primato della persona in una esperienza che più pubblica non sarebbe potuta essere.
Questo è Pietro Ingrao visto oggi da Pietro Ingrao. Poi ce ne è un altro, simile e dissimile, quello che ha traversato dall'interno la prova politica di molti fra noi. La serie di ritratti che gli fece negli anni Ottanta Alberto Olivetti, e sono stati troppo brevemente esposti all'Auditorium di Roma in occasione dei suoi novanta anni, dicono di lui più delle migliaia di fotografie che ne accompagnano l'itinerario come una scia.