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Paolo Flores d'Arcais
Undici
riflessioni sui movimenti
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l'articolo, comparso su Micromega, aprile 2002, è ovviamente datato, ma in ogni caso utile per mettere a fuoco il problema del rapporto fra politica e cittadini, riemerso clamorosamente col V-Day di Beppe Grillo e col NoB-day.
1. La prima analisi demoscopica sui nuovi movimenti, pubblicata
dal quotidiano la Repubblica, mette in luce come su 100
elettori del centro-destra solo 44 siano contrari ai girotondi
e ai Palavobis. La incredibile percentuale del 24 per cento (un
elettore di Berlusconi su quattro!) è invece favorevole,
il resto è dubbio, incertezza, disinteresse.
Si
tratta di numeri clamorosi (e con i numeri è inutile polemizzare,
come ha ricordato D’Alema nel dibattito di Firenze con i
«professori»), clamorosamente ignorati dagli altri
mass media, dai commentatori, dai politici.
La
maggioranza berlusconiana, infatti - il ministro della Giustizia
Castelli, prima, lo stesso presidente del Consiglio poi, per
non parlare dei Vito, Schifani e altri Cossiga (con la significativa
eccezione di An) - ha inviato ai suoi elettori un messaggio
violentemente intimidatorio nei confronti dei movimenti, accusati
di poter favorire un ritorno del terrorismo. Questo messaggio
è stato massicciamente sostenuto dalla potenza manipolatoria
di un monopolio televisivo ormai compiuto e totale. Ciononostante,
meno della metà degli elettori del centro-destra si schiera
contro gli «estremisti» di girotondi e Palavobis.
E,
soprattutto, uno su quattro è dalla parte di questi «facinorosi».
È la prima volta - non già dalla «discesa
in campo» di Berlusconi, ma probabilmente in tutta la storia
dell’Italia repubblicana - che una iniziativa d’opposizione
conquista immediatamente un quarto dei consensi del campo avverso,
e altrettanti (e più) ne neutralizza. Se la logica e la
buonafede hanno ancora corso, perciò, i dirigenti del centro-sinistra,
soprattutto quelli ossessivamente preoccupati dalla necessità
di conquistare i «moderati», dovrebbero fare un monumento
ai girotondi, e appiattirsi con entusiasmo sulla linea del Palavobis,
visto che consente di ottenere praticamente in «tempo reale»
il sogno che da anni smaniano di realizzare e che ogni inciucio
ha invece puntualmente allontanato.
Queste
reazioni, che sarebbero le uniche logiche, ancora non si sono
viste, segnalando una indigenza di realismo politico ormai cronica.
Realismo
e tempismo ha invece dimostrato il mondo berlusconiano con il
suo tentativo, fin qui fallito, di criminalizzare i movimenti
e di giustificare in anticipo ogni eventuale provocazione contro
di essi. Il partito dell’impunità - che i suoi
sondaggi li fa ogni giorno e quelle cifre probabilmente le ha
avute subito - sa perfettamente, infatti, come questi movimenti,
con il loro carattere spontaneo, gioioso, sereno, intransigente,
pre-politico, stiano facendo breccia proprio in settori consistenti
di un elettorato conquistato e illuso con overdose di anticomunismo
e di irrealizzabili bengodi.
2. Sembra paradossale che a conquistare i moderati sia un movimento
che si caratterizza per la sua intransigenza su alcuni valori,
considerati non negoziabili. È invece la conferma che giustizia
e televisione (la legge eguale per tutti e un’informazione
pluralista, libera e magari imparziale) costituiscono la posta
in gioco essenziale e ineludibile della fase storica che stiamo
vivendo, iniziata con la crisi della partitocrazia, e tutt’altro
che conclusa.
Mani
Pulite ha rappresentato e rappresenta, simbolicamente e concretamente,
il carattere intrattabile, di gioco a somma zero, fra le due ipotesi
con cui si può uscire dalla crisi: l’affermarsi,
nella politica, negli affari, nel comune sentire, della cultura
della legalità, oppure la sostituzione dei vecchi e screditati
partiti di malgoverno con una nuova forma di «primato»
della politica, che «garantisca» il potere dai controlli
della magistratura e della libera informazione, asservendole o
neutralizzandole.
Uso
i verbi al presente, anziché al passato, perché
la seconda vittoria elettorale di Berlusconi non segna affatto
l’esito definitivo dello scontro tra queste due ipotesi,
e dunque il superamento della crisi. Anzi: i due partiti (1) trasversali,
dell’impunità e della legalità, sono questa
volta costretti allo show down, senza più margini di possibili
inciuci, ma l’esito non è affatto scontato.
È
del tutto fuorviante, perciò, leggere l’attuale situazione
(competizioni elettorali comprese) come un confronto o uno scontro
fra uno schieramento di centro-destra e uno schieramento di centro-sinistra.
La coalizione berlusconiana ha poco o nulla di un centro-destra
di tradizione europea (o americana): non il liberismo (che è
antitrust), meno che mai «law and order». La sua è
una miscela di populismo, videocrazia, autoritarismo, perfino
originale rispetto ad altre forme conosciute di eclissi della
democrazia.
Si
potrà tornare a parlare a pieno di titolo di destra e sinistra
(come si fa in Europa, senza bisogno di quel centro- che vorrebbe
rendere più innocuo e digeribile il bipolarismo) solo quando
sarà risolta la questione prepolitica della legalità
e del pluralismo televisivo. Essi, infatti, non costituiscono
valori di parte bensì, in tutte le democrazie più
o meno funzionanti, valori ovvi e comuni, il condiviso orizzonte
all’interno del quale ci si divide sulle altre scelte. La
destra di tipo tradizionale ed europeo è rappresentata
in Italia, non a caso, da personalità che si sono schierate
contro Berlusconi, come Montanelli ieri e Sartori oggi. L’esito
della crisi stabilirà anche, perciò, se in Italia
verrà colmata quell’arretratezza storica, quel deficit
di normalità civile costituito proprio dalla mancanza di
un partito conservatore degno del nome, come già sottolineava
Gobetti ottant’anni fa.

3. Il carattere intrattabile di questi valori nasce proprio dalla
loro natura prepolitica. Non è un caso che, ironicamente,
durante una manifestazione alcuni cittadini inalberassero un cartellone
con la scritta «brigate Montesquieu». E proprio riferendosi
a questo carattere prepolitico, molti politici di mestiere hanno
per anni irriso (e spesso irridono tuttavia) al presunto «moralismo»
di chi considera questi temi prioritari (e addirittura valuta
la «questione morale» e la legalità come parte
consistente della questione sociale).
Ma
quando qualcosa di assolutamente ovvio per la convivenza democratica
liberale viene rimesso in discussione, umiliato e calpestato dall’azione
di un governo, è inevitabile che diventi la posta in gioco
assolutamente fondamentale e lo spartiacque dirimente dell’intera
vicenda politica.
Questo
spiega l’apparente e duplice paradosso di un movimento di
moderati («brigate Montesquieu», appunto), che si
esprime contro il governo con una radicalità ignota all’opposizione
parlamentare, e anzi da essa paventata e condannata come «demonizzazione»
dell’avversario, ma che con il suo «massimalismo»
riesce esattamente a conquistare settori vastissimi dell’opinione
pubblica che ha votato per il governo.
Ciò
che continua a suonare arcano a molti politici di mestiere è
dunque perfettamente logico e comprensibile, ed è destinato
a durare, benché con andamento carsico, fino a che la normalità
dello Stato di diritto non venga decentemente approssimata, e
la pretesa di tornare ai politici (e altri eccellenti) legibus
soluti definitivamente sconfitta.
Anche
per questo è necessario non azzerare il recente passato.
Mettere una pietra sopra l’inciucio e altre fonti di polemica
potrebbe sembrare un’opera meritevole, necessaria per «guardare
avanti» e privilegiare «il bene irrinunciabile dell’unità».
E tuttavia, troppe volte la retorica dell’unità ha
coperto nella storia della sinistra le peggiori rimozioni e ha
funzionato da alibi per gruppi dirigenti incapaci (o addirittura
colpevoli). Con questo strumento hanno fin troppe volte evitato
di cambiare linea, hanno garantito la continuità del potere
burocratico, il gattopardismo, il cambiare tutto perché
tutto resti eguale (per non parlare di tutte le scissioni possibili,
o di tutte le espulsioni ed epurazioni). Oltretutto, cercare si
sfuggire agli errori, non farci i conti, lanciando anatemi sul
carattere staliniano dell’autocritica che così si
pretenderebbe, impone un modesto, sussurrato ma fermo «da
che pulpito!».
E
poi non si è sempre ripetuto, contro il dilagante revisionismo
storico della destra, e riabilitazione di fascismi e altre equidistanze,
che senza custodire criticamente il passato la sinistra (e la
democrazia) non avrà futuro?
Altrimenti
si ripeteranno gli stessi errori (come sta accadendo con la Rai,
ad esempio. Ma su questo più avanti).
4. Per quanto riguarda le polemiche sulla giustizia, del resto,
il passato è più che mai il presente (e il futuro)
anche in un senso tecnico. I partiti dell’Ulivo, dopo alcune
iniziative della società civile (2), hanno infatti parlato
espressamente della necessità di promuovere alcuni referendum.
Quali, è tema di dibattito (e di contrasto) sia interno
all’Ulivo che tra l’opposizione parlamentare e i «movimenti».
Si tratta infatti di decidere se inserire tra le leggi da abrogare,
alcuni provvedimenti decisi nella passata legislatura di comune
accordo tra i due schieramenti, o altri che il governo si appresta
a varare e che riproducono scelte già firmate di comune
accordo in sede di Bicamerale.
La
Bicamerale, insomma, e il giudizio su di essa, è più
che mai pietra d’inciampo ancora presente, attraverso una
serie di leggi vigenti che la scelta dei referendum potrebbe (e
forse dovrebbe) mettere in discussione, se si vuole che la nuova
linea dell’opposizione sia coerente e, in fase di polemica
durante la campagna referendaria, non offra il fianco a facili
e devastanti argomentazioni al partito delle impunità.
Pochi
esempi (3) per capire la portata del problema, e il suo gravare
tuttora come macigno.
Il
cosiddetto «giusto processo» (mai virgolette furono
più necessarie), inserito addirittura in Costituzione,
dovrebbe garantire che ogni testimone debba sottoporsi al contraddittorio
del dibattimento. Per questo è stato presentato come conquista
garantista. In realtà garantisce solo la possibilità
di sottrarsi al dibattimento, di non andare in aula per il contraddittorio
dopo aver dichiarato al pubblico ministero. Siamo cioè
agli antipodi del sistema americano, dove è bensì
vero che nessuna prova ha valore se non viene reiterata in pubblico
dibattimento, ma dove testimoniare (e testimoniare il vero) è
obbligatorio per chiunque. E per lo stesso imputato, che per avvalersi
della facoltà di non rispondere deve fare riferimento a
un emendamento della Costituzione, altrimenti potrebbe essere
(ulteriormente) incriminato.
Aggiungiamo
proposte della Bicamerale quali: lo smembramento del Csm in due
sezioni, l’aumento dei membri di nomina politica, la ri-gerarchizzazione
degli uffici del pubblico ministero, un procuratore disciplinare
eletto dal Senato (dunque di nomina politica), la separazione
di fatto delle carriere (sotto il nome di separazione delle funzioni),
la formazione dei magistrati sottratta al Csm, la possibilità
per avvocati e docenti di materie giuridiche di poter accedere
a qualsiasi grado della giurisdizione. Tutte cose che ora sta
realizzando il ministro Castelli. È Berlusconi che sta
adottando il programma dell’Ulivo, o è stato l’Ulivo
a condividere il programma di Berlusconi tramite l’inciucio
prolungato delle sette bozze Boato? Di più: nell’ultima
era previsto anche che «non è punibile chi ha
commesso un fatto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato
una concreta effettività», con il che entrerebbe
in Costituzione il principio che una legge ordinaria stabilisce
per quali reati non è più obbligatoria l’azione
penale. E infine il divieto di varare nuove norme penali a meno
che non siano contenute in leggi che disciplinano organicamente
l’intera materia a cui si riferiscono.
Non
è un caso né una boutade che Gelli abbia rivendicato
le royalty sul copyright, sostenendo che la bozza Boato, cioè
l’accordo Berlusconi-D’Alema, «sta
copiando pezzo per pezzo il mio Piano di rinascita democratico».
E del resto vi è una coincidenza altissima tra le misure
della Bicamerale (bozza Boato) e il libro-programma di Cesare
Previti.
5. Conflitto di interessi: l’argomento più forte
dello schieramento berlusconiano (l’unico, anzi) consiste
nel chiedere al centro-sinistra: se era una questione tanto importante,
perché in 5 anni non avete fatto una legge come volevate?
Naturalmente i berlusconiani conoscono perfettamente la risposta
(l’unica plausibile, oltre che vera): per non intensificare
lo scontro con voi, per non «demonizzare» Berlusconi.
Se il partito delle impunità continua ad usare questo unico
argomento polemico, però, è perché sa benissimo
che i dirigenti del centro-sinistra sarebbero in grande imbarazzo
a dare l’unica risposta plausibile. Alcuni hanno cominciato
a farlo, almeno parzialmente. Il primo è stato proprio
Rutelli, che ha il vantaggio di poter ricordare che all’epoca
non sedeva in parlamento ma faceva il sindaco di Roma.
Sarebbe
bene, comunque, che sul tema la chiarezza fosse completa, altrimenti
si regala a Berlusconi la possibilità di fare qualche concessione
verbale e irretire l’opposizione nella trappola di innocui
emendamenti. Bisogna cioè riconoscere che anche le leggi
avanzate dal centro-sinistra (ma poi lasciate cadere, per paura
evidentemente che fossero troppo punitive) erano ridicole rispetto
alla gravità del problema.
L’unica
soluzione possibile è stata più volte ribadita da
un liberale di stampo conservatore come Sartori: o si vende o
non si fa politica. Del resto, esisteva già (ed esiste
ancora) la legge del 1957 che esplicitamente dichiara ineleggibile
chiunque abbia una rilevante concessione governativa (e quella
di una rete televisiva è la più rilevante oggi possibile).
Si trattava di estendere la validità di tale legge anche
alle cariche governative (ed eventuali altre).
Il
fatto è che tale legge non fu applicata, e che il centro-sinistra
accettò la ridicola interpretazione secondo cui riguardava
Confalonieri ma non Berlusconi, sia quando si trovò in
minoranza, nel ’94, sia quando si trovò in maggioranza,
nel ’96. Il centro-sinistra preferì violare la legge
anziché aprire un conflitto istituzionale (doveroso) con
Berlusconi. Del resto, per evitare ogni polemica interpretativa
(benché la legge fosse chiarissima) l’onorevole Veltri
aveva proposto una legge di un paio di articoli. Ma il centro-sinistra
non la prese mai in considerazione. E si trattava, semmai, di
affidare il contenzioso non più alle Camere ma alla magistratura
ordinaria (o alla Corte costituzionale).
6.
Anche nella polemica sul sistema televisivo si continuano a scontare
gli errori del passato. Che sono di due ordini. Quanto all’assetto
generale, si è caduti nella trappola di accettare la definizione
di duopolio Rai-Mediaset, dimenticando la radicale asimmetria
tra un’azienda pubblica e un monopolio privato della tv
commerciale.
Il
problema della concorrenza e del necessario antitrust riguarda
intanto questo secondo settore, a prescindere da ogni decisione
sul primo. Poiché le frequenze nazionali in concessione
sono poche, vi sarà un’inevitabile e strutturale
situazione di oligopolio. Il principio del libero mercato, oltre
che del pluralismo dell’informazione, impone perciò
che si trovi il mondo di aumentare al massimo i soggetti che possono
avere accesso.
La
legge spagnola, voluta dalla destra, stabilisce il tetto massimo
del 49 per cento di partecipazione ad una sola rete, ad esempio.
È una soluzione in linea con una visione liberista e concorrenziale,
e non si vede perché non sia stata proposta anche per l’Italia,
e si sia lasciata invece circolare l’idea che avrebbe costituito
un «esproprio proletario». Costituisce invece «esproprio
del mercato» e appropriazione indebita (realizzata grazie
a Craxi, non a particolari capacità imprenditoriali, come
si è invece dimenticato) l’attuale monopolio berlusconiano.
Quanto
al problema dell’imparzialità dell’informazione
e del ruolo del servizio pubblico, anche qui si paga il prezzo
di errori passati, del tutto opposti però ai «delitti»
di cui va favoleggiando l’attuale maggioranza. La colpa
del centro-sinistra è di non aver posto radicalmente fine
alla lottizzazione, e dunque di aver sostituito il manuale inciucio
al manuale Cencelli. Per questo Mimun è stato nominato
al Tg2, ad esempio, e Vespa è diventato il signore e padrone
della «informazione» e «approfondimento»
(!) politici.
Se
si vuole parlare seriamente di imparzialità, senza confonderla
con l’equidistanza che ne è spesso la negazione,
bisogna provare ad applicare un criterio che prescinda dai nostri
gusti e abbia un qualche carattere di oggettività. Quello
più logico sembra il riferimento alla grande stampa internazionale,
magari quella più a destra.
Se
prendiamo perciò due testate iperconservatrici (e «aziendaliste»)
come The Economist o Business Week, o un quotidiano
di destra come El Mundo (che fu fondato proprio per far
eleggere Aznar contro la sinistra, e che tale linea continua a
seguire), possiamo essere certi che non avremo a che fare con
nessuna accondiscendenza verso i «comunisti» (anzi:
verso i più morbidi dei «riformisti»). Ma le
cose affermate da questi giornali su Berlusconi coincidono alla
lettera con quelle dette in tv solo in spazi assolutamente minoritari:
da Enzo Biagi, da Michele Santoro, nella famosa intervista di
Luttazzi a Marco Travaglio eccetera.
Poiché
sarebbe demenziale (in senso tecnico) pensare a un complotto internazionale
(con Luttazzi o MicroMega capaci di orientare la stampa internazionale
conservatrice), è evidentemente vero il contrario: solo
quelle trasmissioni sono imparziali, almeno nel senso in cui l’imparzialità
è assunta dal grande giornalismo conservatore mondiale.
Ma
proprio quelle trasmissioni sono considerate invece fanaticamente
faziose dal mondo berlusconiano. Il quale, dunque, giudica fanatismo
l’imparzialità e imparzialità la smaccata
propaganda a proprio vantaggio. E questo non secondo i criteri
miei o di un lettore, ma della grande stampa conservatrice e di
destra mondiale. A Zaccaria, perciò, non devono essere
imputati quei programmi, ma il dilagante dominio del non imparziale
Bruno Vespa, e via elencando.
Quando
sapranno, i dirigenti del centro-sinistra, ragionare con tanto
ovvio ma fermo buon senso?
7. Uno dei possibili e anzi probabili impegni dei nuovi movimenti
sarà una stagione di referendum. Resta questo l’unico
modo per opporsi all’ondata di leggi reazionarie, di vere
e proprie contro-riforme, che il governo Berlusconi ha varato
e si appresta a varare in tutti i settori cruciali.
I
referendum si fanno per vincerli. Ma non si può decidere
di fare una battaglia solo se si ha la certezza di vincerla. Tale
certezza non c’è mai. Bisogna decidere di fare i
referendum se vi è la ragionevole speranza di vincerli,
insieme alla necessità di opporsi ad un’ondata di
contro-riforme antidemocratiche che non lascia alternative.
Proprio
per questo, naturalmente, bisogna impegnarsi nei referendum solo
se si è in grado di ridurre al minimo tutti i fattori che
renderebbero pressoché sicura la sconfitta.
Il
primo è quello di riprodurre uno scontro fra schieramenti
partitici. I cittadini lo vivrebbero al massimo come un pretestuoso
tentativo di rivincita elettorale. Raggiungere il quorum diverrebbe
perciò altamente improbabile. La logica del referendum
è infatti trasversale e non parlamentare: correggere e
rovesciare con l’impegno diretto dei cittadini le scelte
dei loro rappresentanti.
Dunque,
i protagonisti devono essere i cittadini, non i partiti. Soprattutto
nel campo di chi chiede l’abrogazione di una legge. E tanto
più se la richiesta riguarda temi sui quali si è
visto che è più facile rompere gli schieramenti
di consenso precostituiti e conquistare i moderati. Ma tale conquista,
è bene ripeterlo all’infinito, è possibile
(e perfino agevole) solo alla rigorosa condizione che non abbia
neppure il sentore di una richiesta partitica.
Ecco
perché condizione necessaria (ancorché non sufficiente)
per puntare ai referendum, è che essi godano bensì
dell’appoggio convinto, sistematico, massiccio, leale, dei
partiti di opposizione, ma che vedano a dirigerli e a rappresentarli
presso l’elettorato (cioè in tv e nei giornali, per
non usare perifrasi) esponenti della società civile.
Non
si tratta di voler umiliare i partiti. Si tratta di «realismo
politico» (a cui i partiti e i politici di mestiere dovrebbero
essere massimamente sensibili). Anzi di elementare «realismo
politico». E dunque non è affatto utopistico chiedere
ai partiti una tale linea di comportamento. Poiché il realismo
politico è la loro bussola e il loro primo ferro del mestiere,
non solo si può chiedere loro tutto questo, ma ci si può
aspettare che siano essi stessi a proporlo ed esigerlo.
Bisognerà
poi scegliere le leggi di cui chiedere l’abrogazione. È
opportuno che riguardino sia la giustizia che il conflitto d’interessi
che la vita sociale (il famoso art. 18). E che, se necessario
per motivi di coerenza, tocchino anche provvedimenti del passato,
decisi alla quasi unanimità nella temperie dell’inciucio.
Naturalmente,
perché sia possibile vincere, sarà necessario godere
di una campagna elettorale ad armi pari, fair, a «par condicio».
Sarà questa una battaglia nella battaglia, e cruciale.
Nella quale bisognerà esigere che a farsene garanti siano
tanto la presidenza della Repubblica quanto l’Europa.
In
questa logica non ci sarà nessuna certezza di vincere,
ma certo una possibilità assai alta, tale da giustificare
un grande e prioritario impegno.
8. Ritorna costante la domanda: quali rapporti fra i movimenti
per la legalità, il pluralismo informativo (e magari, intanto,
la laicità della scuola) e quelli ispirati alle tematiche
no global? E quali fra entrambi e il movimento dei lavoratori
in lotta?
Una
prima risposta è già stata data dalla partecipazione
alla manifestazione della CGIL il 23 marzo a Roma, e dalla stessa
impostazione che la CGIL ha voluto dare a quell’evento,
dilatandolo da difesa dell’articolo 18 a vera e propria
«festa dei diritti» (l’omicidio terroristico
ha poi impedito questo aspetto più festoso, come è
noto). Sottolineando con ciò il carattere strettissimo
tra difesa dei diritti dei lavoratori, acquisiti in decenni di
lotta, e libertà civili, legalità, pluralismo: diritti
dei cittadini, insomma. E dimostrando, con la straordinaria mobilitazione,
che già da oggi un’altra Italia è possibile.
E imponendo nei fatti Sergio Cofferati come risorsa «in
riserva della Repubblica».
Ma
naturalmente tutti questi movimenti rimangono fra loro profondamente
eterogenei. Del resto lo sono anche al loro interno. Pochi movimenti
sono così articolati, differenziati e talvolta anche aspramente
conflittuali come la galassia no global. Il che vale sia sul piano
internazionale che nazionale. E tuttavia, questo non ha impedito,
e forse ha favorito, il loro irrompere non episodico nella vita
politica dei principali paesi occidentali.
Sarebbe
sbagliato pensare a una differenziazione per ceti sociali o fasce
d’età: è vero che la partecipazione giovanile
è assai più marcata alle manifestazioni no global
che ai girotondi, ma forse il dato più evidente è
il carattere magmatico e in continuo divenire di entrambi, per
cui è assai difficile prevedere la loro evoluzione.
L’impegno
per i referendum potrebbe diventare un terreno di iniziativa comune
(e con possibili riprese di movimento degli studenti nei licei
o nelle università).
La
questione della pace e della guerra (e delle guerre di «intervento
umanitario») certamente porranno problemi di differenti
valutazioni. Ma questi movimenti non hanno alcuna ambizione di
unificarsi in un partito, o qualcosa che anche vagamente gli somigli
(e del resto abbiamo visto come coalizioni politicamente assai
più eterogenee possano addirittura governare insieme).
9. Nel mondo politico dell’opposizione, molte polemiche
(o almeno perplessità) tradiscono il timore che questi
movimenti vogliano rappresentare una leadership alternativa.
Eppure,
alcune cose sembrano chiare.
Nessuno
contesta il carattere insostituibile dei partiti per la vita democratica
del paese. Nessuno vuole mettersi a fare il politico di professione.
Chi si è impegnato nei movimenti, li ha sollecitati, promossi,
talvolta guidati, vuole continuare a fare il suo lavoro, e dedicare
all’impegno civile e politico esclusivamente una parte del
suo tempo libero.
Ma
proprio le diverse sensibilità che percorrono i movimenti,
danno luogo a una tipologia differenziata di rapporti con l’Ulivo.
Per
taluni i movimenti devono avere l’effetto di rinnovare l’Ulivo,
nelle strutture ancor più che nei gruppi dirigenti (che
dovrebbero semplicemente «imparare la lezione»). Non
a caso vi sono gruppi che già si etichettano come «Ulivo
selvatico», quasi a sottolineare l’esito auspicato.
Per
altri i movimenti devono avere l’effetto di spingere a rifondare
in termini nuovi tutto il panorama dell’opposizione e la
loro necessaria unità (col maggioritario ciò è
condizione pregiudiziale per vincere, anzi per concorrere effettivamente).
In entrambi i casi la critica ai gruppi dirigenti attuali è
più o meno radicale, anche a seconda del credito che si
dà a un loro possibile cambiamento o all’idea che
non siano suscettibili di rinnovamento per via interna.
Quello
che però non potrà essere più trascurato
è che la politica democratica non potrà più
essere solo, o maggioritariamente, politica di professione. Dovrà
essere anche politica bricolage.
Il
tema è essenziale.
Questi
movimenti hanno dimostrato che la politica bricolage non solo
è possibile ma è necessaria. Non fosse altro che
come correttivo (ma frequente) contro la burocratizzazione. In
realtà c’è qualcosa di più: una quota
di politica bricolage, aperta cioè davvero al cittadino
comune che continui a fare la sua vita di sempre, e che alla
politica riesca a dedicare - però con efficacia e «potere»
- solo alcune ore settimanali del suo tempo libero, è
un antidoto insostituibile alla eclissi di democrazia che percorre
da tempo l’Occidente (4).
Che
questo fosse necessario fu del resto ipotizzato con convinzione
quando il Partito comunista decise di cambiare nome e natura.
Furono esaminati anche progetti dettagliati di nuova organizzazione,
niente affatto utopistici. Non se ne fece nulla solo per inerzia
autoconservativa di ceti dirigenti. Per un riflesso potentissimo
di corporativismo di mestiere. Per mantenere il proprio monopolio
sulla direzione della politica.
In
realtà concepire anche i partiti in modo diverso non solo
è possibile ma strettamente necessario (lo era anche allora:
se si fosse tentato non vi sarebbero stati tanti errori). Bisogna
cioè volere che la quota di politici di professione (dirigenti
che siano anche funzionari, che vivono di politica) diventi minoritaria
in tutti gli organismi che contano. E che per un’altra quota
tale professione sia parziale (parzialissima) nel tempo. E che
per il resto strutture, tempi, modi dell’agire politico
(anche di partito) consentano davvero al cittadino bricoleur
di esercitare un ruolo dirigente (servendosi di funzionari che
restino davvero tali).
Si
tratta cioè di inventare le forme organizzative (e di promuovere
la mentalità adeguata) per stabilizzare una voglia di partecipazione
che è altissima e forse crescente fra i cittadini che però
professionalmente non vogliono cambiare mestiere.
10.
I movimenti spontanei non possono avere continuità e stabilità,
per definizione. La passione civile, l’entusiasmo, l’indignazione,
che li animano, sono la loro forza ma anche il motivo di un andamento
incostante. I loro nemici contano proprio su questo, ne aspettano
il rapido declino, la fine. L’entusiasmo non può
essere quotidiano, e dopo l’eccezionalità del sentirsi
insieme subentrerà la routine, la stanchezza, l’apatia.
Il ritorno alle solitudini collettive e diffuse, alla «folla
solitaria» e teledipendente.
In
parte è inevitabile. Ma solo in parte. Intanto i motivi
che hanno spinto tanti a scendere in piazza resteranno come macigni
e anzi sembrano destinati ad aggravarsi per le scelte del governo.
Essi sono poi, come abbiamo visto, prepolitici, cioè fondamentali,
intrattabili. Ci allontanano dall’Europa. Dunque rappresenteranno
un «motore» e una motivazione strutturale permanente
di scontento e opposizione.
Importante
sarà tener fermo con consapevolezza che un movimento di
questo genere non può avere che un andamento carsico: appare,
scompare, si allarga, si disperde in mille rivoli, ritrova momenti
di gigantesca confluenza.
Le
forme di coordinamento dovranno sapersi adattare a tale andamento,
non pretendere di mantenere stabile e permanente nessun livello
alto di mobilitazione, e meno che mai surrogarlo con l’organizzazione.
Le nuove forme di coordinamento dovranno funzionare sempre da
catalizzatore, più che da «promotore».
Ma
internet permette di garantire una rete permanente anche in periodi
di inattività quasi completa, con forme di approfondimento,
discussione, informazione (un tempo si chiamava contro-informazione).
I
coordinamenti dovranno essere come i movimenti: a geometria variabile.
Il che significa che non sempre (anzi solo in via eccezionale)
vi saranno iniziative nazionali, appuntamenti complessivi, mobilitazioni
globali. La normalità sarà che qualcuno (un club,
un gruppo di amici, un coordinamento parziale, una città
eccetera) prenda l’iniziativa su un tema, per una circostanza,
e la cosa riesca più o meno. Altrimenti, se per muoversi
bisognasse sempre consultarsi e decidere prima, tali movimenti
non sarebbero mai nati e morirebbero subito.
Naturalmente,
il successo delle prime iniziative, la dimensione assunta dai
movimenti, rendono necessaria una grande responsabilità:
come è contagioso il successo di una manifestazione è
contagioso anche il fallimento. Ma coordinarsi non dovrà
mai diventare una paralizzante camicia di forza, una sorta di
diffuso diritto di veto, come se sulla spontaneità dei
movimenti si potessero vantare copyright. Tenendo presente la
necessità di trasparenza (non giocare sull’equivoco,
se un gruppo diventa famoso per un nome, non lo si utilizza senza
il loro consenso) e della necessità di evitare inquinamenti
e provocazioni.
Dire
che deve rimanere un movimento senza leader non deve restare una
ipocrita giaculatoria. Deve effettivamente essere così.
Nessuno deve pensare di poter parlare a nome di tutti. Con questo
spirito bisognerà saper fare i conti con l’altro
aspetto, altrettanto inevitabile, dei movimenti spontanei: la
presenza nei mass media dipenderà dalla notorietà
pregressa (inutile lamentarsi se a un girotondo intervistano Nanni
Moretti e non altri), dal caso (la pigrizia dei giornalisti, e
la natura del mezzo televisivo, portano a reiterare la presenza
di chi viene una volta alla ribalta). Bisognerà solo affidare
alla reciproca sensibilità, al senso di comunanza plurale,
o alla capacità di prendere ulteriori e migliori iniziative,
la capacità di non finire in leaderismi controproducenti.
11. Il terrorismo è nemico delle libertà e dei lavoratori.
Sempre. Il terrorismo vuole costringere al silenzio chi ha argomenti
per criticare il potere: o le armi o nulla. Perciò, chi
vuole limitare il diritto alla critica, chi vuole intimidire il
dissenso, chi vuole criminalizzare la disobbedienza civile, fa
precisamente il gioco del terrorismo.
Un
terrorismo che uccide a quattro giorni dalla più grande
manifestazione di lavoratori di tutta la storia dell’Italia
repubblicana, vuole colpire proprio questa lotta, colpire la CGIL,
colpire il diritto stesso di manifestare la propria opposizione,
colpire i movimenti spontanei per la democrazia (Palavobis, girotondi,
fiaccolate).
«Il
senso della responsabilità impone a tutti di interrompere
la catena dell’odio e della menzogna» ha dichiarato
il presidente del Consiglio. Ma semina odio e menzogna, e dunque
favorisce il terrorismo, proprio chi allude anche alla più
lontana e indiretta parentela tra il terrorismo omicida e i cittadini
che pacificamente si riuniscono per chiedere legalità (spesso
con le stesse parole usate in tutta Europa dalla grande stampa
di destra).
E
invece queste ignobili e farneticanti allusioni sono state
di nuovo pronunciate. Come piccola antologia riportiamo gli
interventi - di virulento attacco al sindacato - di alcuni
altissimi esponenti del buonismo berlusconiano.
Il
ministro Martino ha detto che la manifestazione della CGIL costituisce
«un pericolo enorme (…) per
le libere istituzioni della nostra democrazia» e che quindi contro tale situazione
bisognerà ripristinare una condizione di legalità.
Il
ministro Maroni ha stigmatizzato le opinioni di «esponenti (della sinistra, n.d.a.) che
hanno nomi e cognomi. Parlo del leader dei no global Luca Casarini,
parlo dei rappresentanti dei Cobas, dei centri sociali di Padova,
che esprimono pieno appoggio all’azione
dei terroristi».
Ombretta
Colli, presidente della Provincia di Milano (Forza Italia) ha
così spiegato il delitto delle Br: «Dai
gioiosi girotondi, dalle allegre adunate sindacali e dalle festose
aggressioni degli autonomi, fino alle più tragiche manifestazioni di intolleranza
e odio, il passo è stato breve».
Carlo
Taormina si è esibito nel seguente sillogismo: «Cofferati
e i comunisti sono contro il cambiamento. Biagi è stato
assassinato contro il cambiamento. Gli assassini di Biagi si propongono
come braccio armato di Cofferati e dei comunisti. Cofferati e
i comunisti hanno creato le condizioni perché i terroristi
si mettessero a disposizione».
Sacconi
- ex craxiano di ferro e oggi sottosegretario - ha
spiegato: «Non c’è dubbio che in giro ci sono
cattivi maestri che hanno una grave responsabilità nell’omicidio
del prof. Biagi. Sono coloro che hanno trasformato una normale,
fisiologica dialettica politica e sindacale in una scelta di civiltà.
Costoro hanno creato il clima nel quale qualcuno si sente legittimato
evidentemente a compiere omicidi». E altrove ha «precisato»:
«Vogliamo denunce, delazioni. L’omicidio di Marco
Biagi nasce nel mondo del lavoro (…) e
i sindacati conoscono le nicchie anomale di questo sistema».
Eppure,
a ridurre le scorte, in nome di una indecente demagogia, sono
stati i girotondi o il governo Berlusconi?
La
CGIL di Cofferati ha realizzato la più grande manifestazione
di lotta sindacale e al contempo di impegno civile dell’intera
storia dell’Italia repubblicana. Ha saputo rendere interesse
generale l’interesse dei lavoratori. E riaffermando il carattere
riformista del sindaco, ha saputo assumere come parte integrante
del movimento di opposizione democratica i Palavobis, i girotondi,
i no global, con parole inequivoche di fronte a tre milioni di
cittadini.
A
questa manifestazione il governo ha risposto con accuse deliranti
di Martino, Sacconi, Bossi. Che esprimono in modo trasparente
una volontà di regime. Non è possibile interpretare
altrimenti, infatti, una dichiarazione di «necessità
di ripristinare la legalità» di fronte alla più
legittima delle manifestazioni sindacali. Anzi, se quelle manifestazioni
vengono denunciate come illegali, è evidente che si intende
minacciarle o addirittura proibirle, e cioè siamo non solo
alla vocazione al regime, ma alla tentazione di sovversione della
legalità repubblicana, alla tentazione golpista (non sono
lorsignori a dirci che le parole sono pietre?).
Di
fronte a questa inqualificabile aggressione, il comportamento
di Cofferati e della CGIL è stato esemplare per moderazione
e fermezza: richiesta di scuse al capo del governo come condizione
preliminare per ogni possibile incontro (e viene inevitabile da
chiedersi: se simile moderazione nella fermezza fosse stata la
bussola di tutti i dirigenti del centro-sinistra negli anni trascorsi,
Berlusconi sarebbe mai tornato a vincere?).
Berlusconi
ha infatti voluto strumentalizzare l’ennesimo delitto delle
Brigate rosse. Prima ipotizzando i funerali di Stato in concomitanza
con la manifestazione della CGIL (come riportato da tutti i giornali),
poi intervenendo a reti unificate con un messaggio che surrogasse
quella strumentalizzazione, resa impossibile dal rifiuto della
vedova del professor Biagi.
Ma
mentre la risposta di tutti i democratici è stata inequivoca
(e i settori più radicali del movimento no global, che
il governo cerca invano di criminalizzare, hanno immediatamente
espresso schifo per il terrorismo), il governo ha iniziato un
indecente scaricabarile per giustificare l’ingiustificabile,
cioè il ritiro della scorta.
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