Michele Salvati

Una società incivile

Perché può dirsi incivile la società italiana? Per la confusione sulle regole della democrazia, innanzitutto, ma anche per la sfiducia nei confronti di fondamentali organi istituzionali e per la stessa incertezza sulla natura generale ed astratta della legge. Ma soprattutto per l'assenza di ponti fra due comunità politiche, che una sfera pubblica debole stenta a tenere connesse in un clima di dibattito razionale.

L'insoddisfazione per il funzionamento del sistema politico e l'indignazione per il comporta-mento dei suoi esponenti sono fenomeni endemici e ricorrenti in ogni democrazia, e sono in sé fenomeni positivi, che rinsaldano e migliorano la società civile, se inducono una reazione di autocor-rezione. Nel nostro Paese c’è stata - se così possiamo dire - una ipercorrezione, che ha condotto ad un cambiamento nel sistema politico che non ha eguali, in assenza di traumi esterni, in nessuna delle democrazie occidentali in questo dopoguerra: basti ricordare che ne risultano distrutti i due partiti cardine dei principali Paesi europei, la Democrazia cristiana e il Partito Socialista, e in tal modo vengono compromessi quei legami ideologici e quelle tradizioni culturali che fanno da ponte tra gli elettori e il sistema politico in un contesto di dibattito razionale, di funzionamento civile della sfera pubblica. Una ventata populistica e antipolitica ha spazzato l'Italia tra la fine degli anni Ottanta e la prima meta dei Novanta e, in forme diverse, soffia tuttora. Un imprenditore politico intelligente e spregiudicato, che aveva ampie vele finanziarie e mediatiche da issare, ne ha profittato per scendere nel campo di regata e poi operare rapidamente un’inversione di rotta di 180 gradi, un vero capolavoro nautico. Sospinti dall'indignazione contro la corruzione e le malefatte dei politici della Prima Repubblica, oggettivamente favoriti dalle iniziative dei giudici che avevano scoperchiato il vaso di Pandora e contribuito a scatenare la ventata populistica contro il vecchio sistema politico, i partiti nuovi e vecchi che di tale ventata avevano maggiormente approfittato - la Lega, Alleanza Nazionale e Forza Italia - hanno abbandonato del tutto gli obiettivi di lotta alla corruzione e di punizione dei responsabili e attaccano frontalmente i giudici che continuano ad indagare su quei fenomeni.
È questo l'esito più «incivile» di tutta la vicenda, quello che la differenzia, come meglio vedremo, da episodi analoghi in altri Paesi europei e soprattutto dalla Spagna: la confusione che tale esito induce sulle regole della democrazia, la sfiducia nei confronti di fondamentali ordini costituzionali, la stessa incertezza sulla rule of law e sulla natura generale e astratta della legge. Oggi non ci sono più conflitti fondamentali sul modo di organizzare la società e l'economia o da che parte stare nella guerra fredda. L'alternanza è possibile e di fatto è praticata. Il conflitto verte sulle regole di base di una democrazia formale che tutti accettano ed è ancora più esasperato di quello che vedeva opposti democristiani e comunisti ai tempi della guerra di Corea: di nuovo si sono formate due comunità politiche senza ponti, che una sfera pubblica debole stenta a tenere connesse in un clima di dibattito razionale. Si capirà meglio fra poco, ma vorrei subito osservare - prima che un lettore possa sorprendersi perché sembro prendere parte in una disputa politica e abbandonare il distacco che ho cercato di tenere sinora - che in realtà non prendo parte alcuna: non mi interessa discutere se Berlusconi sia colpevole o innocente nei casi giudiziari che lo vedono coinvolto, se abbia ragione o torto a ritenersi oggetto di una persecuzione giudiziaria. Se avesse ragione, sa-rebbe ancor peggio.
Della storia che ho evocato intendo ora espandere soltanto i punti che la connettono al nostro modello di spiegazione e rendono più evidente il confronto con la Spagna. Il primo punto sta pienamente dentro quel modello, perché riguarda l'epoca della Prima Repubblica e le ragioni del suo cattivo funzionamento: quelle ragioni di cui abbiamo già dato conto. Comunque si voglia raccontare e spiegare la grande crisi politica dei primi anni Novanta, un ingrediente essenziale del racconto-spiegazione non può non essere la profonda insoddisfazione dei cittadini nei confronti del sistema politico o, più concretamente, del governo e dei partiti di governo. Una insoddisfazione più diffusa e profonda di quella esistente in altri Paesi. I partiti di governo, di fronte alle prime manifestazioni della crisi, commisero errori; i «vecchi» partiti di opposizione (MSI e PCI) videro la possibilità e il vantaggio di assecondare la rivolta populista che montava; l'attacco e la tenacia di una magistratura più indipendente che altrove ebbero un ruolo importante; e gli imprenditori politici nuovi (la Lega e Mario Segni) furono pronti a cogliere l'occasione. Ma senza uno scollamento quasi completo tra cittadini e politica nel Nord del Paese, senza un logoramento terminale dei legami di rappresentanza, un'esplosione come quella cui si assistette nel tragico biennio '92-94 risulterebbe incomprensibile. Diffidenza, distacco, saltuari momenti di indignazione, soprattutto quando la stampa e la magistratura rivelano episodi di corruzione, si verificano ovunque, anche in buone democrazie: in Italia quei sentimenti avevano raggiunto un livello di guardia, anche se pochi si erano accorti, alla fine degli anni Ottanta, che il gigante aveva i piedi d'argilla. Se poi si indaga sui motivi di questo scollamento e logoramento si ritrovano molte delle conseguenze di quel vizio d'origine del nostro sistema politico che abbiamo denunciato più sopra: un'elevata pressione fiscale accompagnata da una pessima provvista di servizi pubblici, una corruzione diffusa e una arroganza crescente di politici che si ritenevano elettoralmente impunibili per mancanza di alternative, una straordinaria insensibilità del sistema consociativo a percepire l'umore dei territori, l'insoddisfazione della parte più industriosa del Paese nei confronti di trasferimenti (a Roma e al Sud) ritenuti ingiustificati. Si tratta di motivi di insoddisfazione che un buon sistema di rappresentanza dovrebbe essere in grado di percepire e a cui un buon sistema politico dovrebbe essere in grado di rispondere, anche promovendo il necessario ricambio al suo interno: i governi degli anni Ottanta non lo furono. Insomma: l'esplosione fu più forte che altrove anche perché la pressione che si era accumulata sotto la crosta del sistema politico italiano era maggiore, perché il sistema della Prima Repubblica, bloccato dal vizio d'origine, non era in grado di fornirle sfoghi all'interrio del sistema stesso.
Proprio questo ci conduce ad un confronto con le vicende spagnole, che è il secondo punto che intendevo toccare. Grossomodo negli stessi anni, il partito politico che era stato al governo per tre legislature consecutive, il Psoe, era sotto il tiro della magistratura, del partito avversario, della stampa e dell'opinione pubblica, e proprio per gli stessi motivi per cui lo erano il Partito socialista e la Democrazia cristiana in Italia. Probabilmente per la minore gravita dei fenomeni corruzione e di illegalità, sicuramente per la diversa natura di un sistema politico in cui esiste un partito di governo e uno di opposizione entrambi riconosciuti come atti a governare, in Spagna la crisi e la conseguente correzione dell'illecito hanno un decorso del tutto interno al sistema politico esistente. Il Partido Popular si aggrappa come un mastino alle illegalità commesse dagli esponenti del Psoe e, anche per questo, conduce una campagna elettorale vincente e la sostituisce al governo del Paese. È una vittoria per la società civile: gli illeciti, la violazione della rule of law, sono riconosciuti come tali e sono puniti. La tendenza all'ubris di un ceto politico assuefatto al potere e frenata. L'opinione pubblica e gli elettori ricevano il messaggio che la giustizia vale per tutti e che le normali procedure democratiche, le elezioni e l'alternanza, sono strumenti efficaci: l'insidioso messaggio cinico - così diffuso in Italia - secondo il quale i politici sono tutti corrotti e gli stessi giudici «fanno politica» non ha modo di diffondersi e di diventare senso comune. Non diversa è la vicenda che ha condotto ad un'analoga «correzione interna» in Germania. L'episodio di illegalità che fu contestato a Helmut Kohl è di scarso rilievo rispetto al vera e proprio sistema di corruzione esistente in Italia, ma anche qui l'esito è simile a quello spagnolo: una punizione elettorale e la riaffermazione dei principi dello Stato di diritto. I due grandi partiti coinvolti, il Psoe in Spagna e la Cdu in Germania, soffrono una seria sconfitta ma restano perfettamente in grado di risollevarsi e sfidare gli avversari. Quel patrimonio prezioso che lega i partiti agli elettori, che orienta e da senso alle loro scelte - le due grandi tradizioni politiche socialista e democristiana - non è scalfito dagli scandali: lo sono le persone e, momentaneamente, l'organizzazione. Il sistema, la cultura politica, reggono.
Il confronto con l'Italia, per un italiano, è penoso. Era del tutto evidente che nel nostro Paese le cose non potevano svolgersi come in Spagna e Germania, dove un sistema di alternanza tra partiti entrambi rispettosi dei principi di fondo di un'economia di mercato, di una società capitalistica e di una democrazia liberale si era solidamente affermato: in Italia, dopo l'esperienza anomala della Prima Repubblica, esso andava costruito ex novo e con i materiali che la stessa Prima Repubblica forniva. Disgrazia ha voluto che la «ricostruzione» avvenisse nel contesto di un drammatico ritiro della delega politica ai grandi partiti di governo, ma anche questo - come abbiamo appena visto - è spiegabile con fenomeni di path-dependence. Potevano le case andare diversamente? Se la ragione dominasse la storia, la DC si sarebbe dovuta trasformare nel grande partito moderato e conservatore, e PSI e PCI si sarebbero dovuti fondere in un nuovo, grande partito socialdemocratico. Molti presagirono questi sviluppi e non pochi lavorarono per essi: ma le forze che vi si opposero erano troppo grandi. L'esplosione populistica accelerò drammaticamente i tempi della crisi, il «duello a sinistra» aveva troppo inasprito i rapporti tra i due partiti del movimento operaio, e il vecchio ruolo centrista della Democrazia Cristiana, a cavallo tra destra e sinistra, creava forti resistenze interne alla sua trasformazione in un partito conservatore: di nuovo, la path-dependence è all'opera. Forse Mario Segni avrebbe potuto muoversi in questa direzione con maggiore efficacia, e allora saremmo oggi in una situazione radicalmente diversa e assai più «civile»: ma quando la bestia populista è stata scatenata, solo un domatore populista può cavalcarla, non un politico idealista e misurato della vecchia scuola.
L'esito non fu dunque una correzione interna al sistema, ma una ipercorrezione, una rottura del sistema. Sulle ventate di populismo e antipolitica che possono colpire un sistema democratico, anche in Paesi altamente sviluppati, molto è stato scritto, in generale e con riferimento al caso ita-liano: non intendo aggiungere nulla in entrambe le direzioni. Il punto (il terzo) che intendo toccare è solo questo: quando le forze del populismo e dell'antipolitica sono all'opera, quando un sistema politico frana sotto i loro colpi in una misura così ampia, si sa come si entra nella fase, è impossibile prevedere come se ne esce. In altre parole, alle influenze della path-dependence si possono mi-schiare fattori imponderabili e imprevedibili, veri e propri «accidenti» nel senso storico del termine: insomma, nasi di Cleopatra. E Berlusconi è, per un aspetto centrale della vicenda, un «naso di Cleopatra». All'inizio Berlusconi decide soltanto che deve «scendere in campo», ma neppure sa quale scegliere: lo fa scegliere da valutazioni di efficacia affidate ai suoi esperti. Una volta scelto il campo, il centrodestra, egli affida ai suoi media e alle sue risorse finanziarie e organizzative un messaggio di efficacia poderosa, che intercetta effettive e legittime aspirazioni (libertà da tasse e impedimenti amministrativi), pregiudizi antipolitici (Berlusconi come uomo nuovo), vecchie avversioni (il comunismo) e nuove paure (immigrazione). Ho semplificato in modo quasi caricaturale, ma analisi del messaggio del centrodestra, accurate quanto si vuole, sono facilmente disponibili. Quel che mi premeva sottolineare è che tale messaggio cattura, oltre a comprensibili domande politiche, la ventata populistica e antipolitica allora esistente e la stabilizza definitivamente a destra, dove peraltro normalmente va a sfociare il populismo in Paesi avanzati e in questo momento storico. Dove sta l'accidente, il naso di Cleopatra? Meglio, dove sta l'aspetto più preoccupante di tale accidente, giacché la stessa discesa in campo era del tutto imprevedibile? Sta nel fatto che Berlusconi stesso, per il suo potere mediatico, per i suoi conflitti di interesse, per le sue pendenze giudiziarie, rappresenta una sfida ad alcuni principi di base della «società civile» nell'accezione di Perez-Diaz.
Non era impossibile, in astratto, che un altro tipo di imprenditore politico fosse in grado di costruire un blocco di centrodestra, ciò di cui in quel momento c'era bisogno per costruire una dialettica di alternanza democratica. Abbiamo prima ricordato Mario Segni; possiamo pensare anche a qualcuno più spregiudicato e sanguigno di lui, ma senza quei caratteri che rendono difficile accettare Berlusconi come avversario politico normale nel contesto di una buona società civile. Di fatto la storia ci ha dato una sola risposta concreta, Berlusconi, e da essa si origina l'inversione ad U di cui dicevo, producendo in tal modo un paradosso singolare. Una ventata populista gonfiatasi a dismisura, se non nata, a seguito delle rivelazioni di Tangentopoli, una ventata che soffia contro le illegalità dei politici è a favore dell'azione dei magistrati che li accusano, porta al potere un governo che, come obiettivo primario, si pone quello di limitare il potere della magistratura e proteggere i politici contro le inchieste dei giudici. E, sempre in astratto, non era inevitabile che vincesse Berlusconi nelle elezioni del 2001: nel 1996 aveva vinto il centrosinistra con una formula politica originale, l'Ulivo. Perché non insistere con questa, approfondendola politicamente e dunque rendendola convincente agli occhi degli elettori?
La risposta torna ai trascinamenti del passato, in fondo agli stessi motivi che avevano impedito a suo tempo una soluzione «razionale» prima della «discesa in campo» di Berlusconi (una Democrazia Cristiana tranquillamente insediata come principale partito di centrodestra e un partito socialdemocratico frutto della fusione di socialisti e comunisti). Né i popolari, né i democratici di sinistra credevano a ciò che ho chiamato «approfondimento» dell'Ulivo, immersi com'erano nelle tradizioni, nel passato, dei loro partiti: per loro Prodi non era un capo politico (che partito aveva alle sue spalle?), né doveva diventarlo: era semplicemente un Presidente del Consiglio che doveva rispondere agli azionisti principali di una normalissima coalizione. Nel corso della tredicesima legislatura l'Ulivo si sfalda e Berlusconi vince: che cosa sarebbe avvenuto se l'Ulivo non si fosse sfaldato, se si fosse trasformato in un partito (o una federazione compatta), non lo sapremo mai. Ci conviene dunque tornare a ciò che è effettivamente avvenuto, all' «accidente» Berlusconi e ai suoi effetti sulla società civile.
I principali effetti sono due e li abbiamo gia brevemente anticipati nella sintesi di più sopra. Il primo nasce da un confronto con la Spagna (e la Germania) e sfata ogni presunta somiglianza tra Berlusconi e Aznar, al di là del fatto che sono entrambi politici di centrodestra. Aznar appoggia le inchieste dei giudici contro i dirigenti socialisti e gli affaristi loro vicini, ma non cambia palesemente registro una volta arrivato al potere: ovviamente i giudici che indagano contro i reati dei socialisti sono ben visti dal nuovo governo, ma questo non impedisce al potere giudiziario di attaccare anche i popolari. Anzi, di punire con durezza i magistrati che emettono sentenze «politiche» a favore del nuovo governo. Insomma, Aznar è un politico normale, con quella modica quantità di scheletri nell'armadio che hanno i politici normali di Paesi civili: non è Berlusconi, non è il padrone diretto o indiretto dell'intero sistema televisivo, con diffusi e importanti motivi di conflitto di interesse anche al di fuori di questo, coinvolto in vicende giudiziarie apparentemente piuttosto serie. E il messaggio che l'intera vicenda ha trasmesso agli elettori e all' opinione pubblica spagnola è un messaggio esemplare, come abbiamo appena sottolineato, un messaggio che rafforza lo Stato di diritto, la fiducia nella politica e il rispetto per la magistratura. Il messaggio che il governo di centrodestra invia all'opinione pubblica italiana, già per conto suo cinica e antipolitica, non fa che rafforzarne il cinismo e i pregiudizi «incivili»: è desolante che Berlusconi sia riuscito a far scordare agli italiani l'incompatibilità con una buona democrazia di conflitti di interesse così gravi come quelli che lo caratterizzano e a convincere il cinquanta per cento di loro (così dicono i sondaggi) che la magistratura è partigiana, e dunque non rispetta quello che è il suo dovere fondamentale, l'imparzialità. E, come ho gia detto, sarebbe ancor più desolante se ciò fosse vero.
In queste condizioni, ecco il secondo effetto incivile, il gioco politico bipolare, l'alternanza, non può dare al Paese quegli esiti di buon governo per cui i cittadini italiani lo hanno voluto. Il bipolarismo, che consente legislature stabili e produce governi di una parte sola, genera un buon governo solo se opera in un contesto in cui le due parti condividono un'ampia area di valori e obiettivi e hanno in comune le priorità di policy più importanti. E soprattutto se esiste tra le due parti un colloquio costante e un sufficiente livello di stima e di fiducia. Genera un pessimo governo se le due parti si comportano come Guelfi e Ghibellini, se si forma un clima di mors tua, vita mea, senza al-cun riguardo per il bene del Paese. Mi ha molto colpito che l'attuale presidente del Psoe, José Luis Rodriguez Zapatero, stia perseguendo una politica di stretto tallonamento del Pp sulle principali questioni di interesse nazionale, ad esempio sul problema basco, o sull'immigrazione, cercando sempre di arrivare a politiche bipartisan, cosa che a volte gli riesce, a volte no. Lo scopo non è particolarmente nobile, naturalmente, perché si tratta di impedire al Pp di rincorrere e cavalcare da solo l'elettorato moderato, ma si tratta di una strategia sorprendente se osservata dal punto di vista italiano: chi, nel centrosinistra, propone politiche bipartisan è visto come poco meno di un traditore, come un collaborazionista. (Il che ha una ovvia spiegazione, se non una completa giustificazione: non è facile «collaborare» con chi rappresenta di per se stesso una violazione patente di alcuni principi fondanti della società civile, con chi propone in continuazione politiche pubbliche, atti legislativi e di governo, che li sfidano o li minacciano.)

Completare la transizione

Povera Italia! Entra in democrazia, dopo i disastri del fascismo e della guerra, con un bipartitismo (molto) imperfetto, un'alternanza impossibile e conflitti politico-culturali che non le consentono di sviluppare a fondo una società civile. Questa «imperfezione» si trascina per quarant'anni, con i costi che abbiamo ricordato più sopra. Quando eventi esterni consentirebbero l'eliminazione di quel vizio d'origine, path-dependence e fatti accidentali la fanno ricadere in un'altra anomalia: il centrodestra è costretto a difendere una condizione personale del suo leader che è in palese contrasto con principi non marginali di una società civile; il centrosinistra - sospinto da movimenti spontanei a livello di base - mantiene posizioni di intransigenza e di scontro frontale; il dibattito politico è urlato e aggressivo; la sfera pubblica è divisa in due e senza ponti di comunicazione; il bipolarismo non funziona come meccanismo di governo per mancanza di un livello sufficiente di fiducia reciproca e di lubrificante bipartisan. Nonostante lo sconforto, continuo a credere che la situazione odierna - largamente prodotta da eventi eccezionali, imperizia e (s)fortuna - sia strutturalmente meno grave di quella della Prima Repubblica. A differenza del Giappone, la cui eterna "prima repubblica" condanna il paese ad un impasse decisionale dal quale non si vede uscita, in Italia la rottura che doveva esserci c'é stata. L'alternanza è dunque possibile e ciò che è avvenuto e sta avvenendo dovrebbe aver fornito buoni insegnamenti su come completare la lunga transizione dalla Prima alla seconda Repubblica. E allora comincerà anche una lenta transizione verso una politica ed una società più civili.