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 QUINTO PERIODO 1870 - 1871  
        
         CAMPAGNA 
        DI FRANCIA           A chi ha la pazienza di leggermi accennerò una circostanza che 
          sembrerà incredibile, ma che tuttavia è assolutamente vera, 
    e sulla quale preferisco lasciare ogni commento al lettore.Che io non sia entrato nelle buone grazie della monarchia Sabauda al mio 
          arrivo in Italia dall’America nel 1848 è naturale; che io 
          abbia suscitato antipatia fra i suoi servitori, dal primo ministro ai 
          generali dell’esercito, e da questi all’ultimo degli uscieri, 
          legati all’esistenza del governo regio, lo era altrettanto nel normale 
          ordine delle cose. Ma quello che non riesco esattamente a spiegarmi è 
          l’accoglienza così negativa riservatami da quegli uomini 
          che possiamo giustamente definire come i luminari del moderno periodo 
          del risorgimento nazionale, di cui furono benemeriti, come ad esempio 
          Mazzini, Manin, Guerrazzi ed alcuni dei loro amici.
 La stessa sorte mi toccò in Francia nel 1870 e nel 1871, eppure 
          in Francia, come in Italia, ho trovato fra la gente una simpatia entusiastica, 
          certo molto superiore ai miei meriti. Il governo di difesa nazionale, 
          composto da tre persone perbene che meritavano la fiducia del paese, mi 
          accolsero perché gli avvenimenti lo imponevano, ma con freddezza, 
          con la palese intenzione, come talvolta mi era accaduto in Italia, di 
          servirsi del mio povero nome ma nulla più, ed in sostanza privandomi 
          dei mezzi necessari a rendere efficace il mio contributo.
 Gambetta, Crémieux, Glais-Bisoin, individualmente con me furono 
          gentili, ma soprattutto il primo, da cui avrei dovuto aspettarmi se non 
          una simpatia a livello personale almeno un sostegno attivo ed energico, 
          mi lasciò in disparte per un prezioso periodo di tempo.
 Ai primi di settembre 1870 in Francia fu costituito il governo provvisorio 
          ed il 6 io offrii i miei servigi a quel governo che sempre si vergognò 
          di proclamarsi repubblicano: stettero un mese senza rispondermi, tempo 
          prezioso in cui si poteva fare molto e che invece fu perduto, o in cui 
          si fece pochissimo. E qui giova ripetere che è un grande errore 
          da parte dei popoli che diventano padroni del proprio destino, come avvenne 
          per la Francia e per la Spagna in due settembri consecutivi, non eleggere 
          al governo un solo uomo onesto, col titolo di dittatore o altro, ma uno 
          solo!, invece di ricorrere a governi con più persone, generalmente 
          professori che passano la maggior parte del tempo a discutere, in luogo 
          di agire rapidamente come esigono le situazioni di emergenza.
 In Francia fecero anche di peggio: invece di uno con più persone 
          ce ne furono due, e tutti conoscono i risultati di un tale sistema. Diversamente, 
          la persona eletta da sola avrebbe probabilmente identificato la sede del 
          governo col proprio quartier generale, come fecero i prussiani acquisendo 
          un enorme vantaggio sugli avversari: al posto di una Babele la Francia 
          avrebbe avuto un governo forte.
 Solo ai primi di ottobre seppi che sarei stato accettato in Francia ed 
          il generale Bourdon, a cui soltanto devo la mia accoglienza, venne a cercarmi 
          a Caprera col piroscafo Ville de Paris, capitano Coudray: su questa nave 
          arrivai a Marsiglia il 7 ottobre 1870. Il prefetto dell’illustre 
          città, Esquiros, e la popolazione in festa mi accolsero calorosamente, 
          e lì un telegramma del governo di Tours mi convocava immediatamente; 
          a Tours trovai Crémieux e Glais-Bisoin, entrambi persone simpatiche, 
          e credo anche onestissime, ma non in grado di risollevare la Francia dalla 
          tremenda sventura in cui Bonaparte l’aveva fatta precipitare; essi, 
          poi, appartenevano ad un sistema di governo degenerato, in cui, anche 
          se avevano la capacità di agire bene non potevano.
 Gambetta, giunto in pallone il giorno dopo, scosse alquanto la macchina 
          governativa, la galvanizzò, improvvisò iniziative formidabili, 
          ma anch’egli fu inadeguato alle circostanze, sia a causa del cattivo 
          funzionamento del governo, sia per l’errata decisione di affidare 
          il comando del nascente esercito agli stessi uomini dell’impero 
          che avevano portato alla disfatta il precedente esercito, e sia per mancanza 
          di esperienza rispetto a quel tipo di situazioni drammatiche. A Tours 
          persi vari giorni, per l’indecisione del governo, e fui sul punto 
          di dovermene tornare a casa perché capii, come ho accennato, che 
          ci si voleva servire del mio povero nome e basta. L’incarico che 
          mi si voleva affidare era quello di organizzare alcune centinaia di volontari 
          italiani che si trovavano a Chambéry e a Marsiglia: dopo varie 
          controversie con questi signori andai finalmente a Dole per raccogliere 
          gli elementi di varia nazionalità che dovevano servire come nucleo 
          del futuro esercito dei Vosges.
 Dopo Sedan i prussiani marciavano su Parigi e naturalmente sul loro fianco 
          sinistro, dove si raccoglievano le nuove reclute di Francia, dovevano 
          tenere dei fiancheggiatori: questi alcune volte comparvero fino nei dintorni 
          di Dole, dove tenevo i pochi uomini che ero riuscito a riunire, ancora 
          da organizzare, e che restarono per diverso tempo poco equipaggiati e 
          male armati. Il nostro comportamento fu comunque energico: prendemmo posizione 
          prima a Mont Rolland e poi nella forête de la Serre, così 
          che Dole rimase inviolata per tutto il tempo che vi soggiornammo. Dato 
          che l’esercito nemico marciava su Parigi, era naturale che si dovesse 
          minacciare almeno la sua linea di operazioni, dal Reno alla capitale, 
          e questa necessità fu avvertita dal governo di difesa, che inviò 
          nei Vosges la maggior parte dei franchi tiratori, ed il generale Cambriels 
          con circa trentamila uomini della nuova leva, alcuni battaglioni del vecchio 
          esercito e qualche pezzo di artiglieria: queste forze furono respinte 
          dai Vosges su Besançon dalle preponderanti forze nemiche mentre 
          ci trovavamo ancora a Dole, ed il prefetto di Besançon, Ordinaire, 
          mi telegrafò due volte affinché mi recassi da lui per trovare 
          il modo di impedire lo sbandamento di queste truppe.
 Il signor Ordinaire aveva pensato di riunire sotto il mio comando tutte 
          le frazioni dei corpi presenti nel dipartimento ed io ero stato accolto 
          da quelle truppe e dalla popolazione di Besançon con lo stesso 
          entusiasmo che se mi fossi trovato in Italia; ma il signor Gambetta, giunto 
          poco dopo, ritenne di riorganizzare tutto e di rimettere agli ordini del 
          generale Cambriels tutte le forze dell’est. Si osservi che il generale 
          Cambriels asseriva di aver bisogno di riposo per curare una ferita alla 
          testa che lo disturbava molto.
 [...] 21, 
          22 E 23 GENNAIO 1871
           La vittoria di Autun rialzò il morale un po’ scosso dei nostri 
          giovani soldati, e quei prussiani che ci avevano respinti a Dijon erano 
          stati respinti a loro volta e cacciati in disordine.Un corpo fresco, anche non numeroso, sarebbe stato sufficiente ad affrettare 
          la ritirata del nemico e lo avrebbe costretto a lasciare i cannoni e molti 
          prigionieri: lo cercai inutilmente e ciò che non riuscimmo a fare 
          noi lo eseguì il generale Cremer, il quale, trovandosi vicino a 
          Beaune con alcune migliaia di buoni soldati, attraversò le montagne 
          a Bligny e attaccando i prussiani di fianco, verso Vendenesse, lo mise 
          in rotta completa.
 La maggior parte di dicembre la passammo ad Autun per organizzare le nuove 
          truppe: qualche reparto di artiglieria ed alcuni squadroni di cavalleria, 
          ma sempre in attesa di cappotti, indispensabili vista la stagione fredda, 
          di altri capi di abbigliamento e di fucili che rimpiazzassero il nostro 
          vecchio e scadente armamento.
 Lo scontro di Autun accrebbe anche il prestigio del nostro piccolo corpo 
          e le popolazioni che furono salvate da quella vittoria ci benedicevano, 
          e facevano a gara per inviarci indumenti di lana per i soldati e denaro 
          per i feriti. In quella città servimmo come cortina di protezione 
          per due movimenti di fianco che vennero attuati da Chagny ad Orléans 
          da parte del generale Crousat, e verso est dal grande esercito della Loire, 
          comandato dal generale Bourbaki. Tutto il paese era coperto di neve e 
          di ghiaccio e rendeva assai difficoltosi questi spostamenti, micidiali 
          per i cavalli e gli uomini: a causa della manovra del generale Bourbaki 
          i prussiani abbandonarono Dijon e noi l’occupammo con alcune compagnie 
          di franchi tiratori, e l’avremmo presa subito con le nostre forze 
          se i treni non fossero stati usati al servizio del generale.
 Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio la temperatura si 
          era fatta molto rigida, la neve si era indurita in ghiaccio e il movimento 
          era diventato difficilissimo, soprattutto per i cannoni e l’artiglieria; 
          i nemici, con truppe agguerrite ed equipaggiate di tutto punto, col prestigio 
          della vittoria e con la presunzione del soldato vincitore in un paese 
          straniero, dove è permesso non solo spogliare di tutte le vivande 
          e le suppellettili i poveri abitanti, ma di cacciarli dal letto per poterci 
          dormire, i nemici, dicevo, avevano molti vantaggi sugli inesperti soldati 
          francesi, di recente reclutamento e privi del necessario. [...]
 Deciso a difendere Dijon, la mia prima preoccupazione fu quella di continuare 
          le opere di fortificazione che erano state iniziate dai prussiani e dal 
          generale Pellissier; le posizioni di Talant e Fontaine, che dominano la 
          strada principale per Parigi, e che allo stesso tempo sono le più 
          alte ed importanti, a due chilometri ad est della città, furono 
          le prime a vedere completate le piazzeforti improvvisate e vi si collocarono, 
          rispettivamente, due batterie di campagna da 12 e due da 4, e una batteria 
          da 4 rigata da campagna ed una da montagna dello stesso calibro. Alcune 
          batterie da 12, inviate dal governo dopo il generale Pellissier, furono 
          sistemate nelle altre fortificazioni realizzate a Montmuzard, Mont Chapé, 
          Bellain e nelle altre postazioni, le più indicate nella cinta di 
          Dijon per tener lontane dalle città le batterie nemiche in caso 
          di attacco: cosa che potevamo aspettarci da un giorno all’altro.
 In guerra domina la Signora Fortuna e davvero essa ci favorì, dato 
          che il nemico ci attaccò il 21 gennaio, da ponente, e si può 
          dire che egli prese il toro per le corna.
 Avevamo esaminato accuratamente il terreno da quella parte: aveva forti 
          posizioni coperte da muri e da pendii per le linee di tiratori, a destra 
          e a sinistra della strada maestra, e piazzammo trentasei pezzi di artiglieria 
          sulle formidabili posizioni di Talant e Fontaine, che dominano tutto, 
          così che la nostra difesa fu efficacissima. E ve n’era ben 
          donde poiché la potente colonna che ci venne incontro dalla strada 
          di Parigi poteva ben chiamarsi colonna d’acciaio! E furono appena 
          sufficienti per fermarla i nostri trentasei pezzi, che tenevano sotto 
          tiro d’infilata la strada, e varie migliaia dei nostri uomini migliori, 
          distesi dietro i ripari. Essendo certi che l’attacco sarebbe arrivato 
          da quel lato, vi concentrammo un buon nucleo delle truppe senza bisogno 
          di sguarnire il fianco nord e quello orientale della cinta di difesa, 
          da dove io fui sempre certo che sarebbe stato portato l’attacco 
          principale. Ma non fu così: l’attacco arrivò da ovest, 
          per nostra fortuna, e solo da quella direzione: con assalti simultanei, 
          però, di corpi sui fianchi, alla sinistra del nemico, verso Hauteville 
          e Daix, e alla sua destra, verso Plombières, nella valle dell’Ouche.
 L’attacco fu tremendo: quel giorni vidi i migliori soldati nemici 
          che avessi mai visto. La colonna che avanzava verso il nostro centro era 
          ammirevole per coraggio e sangue freddo, e ci veniva addosso compatta 
          come una nuvola, a passo non celere ma con un’uniformità, 
          un ordine ed una calma spaventosi. Quella colonna, sotto il fuoco incrociato 
          di tutte le nostre artiglierie e di tutte le linee di fanteria davanti 
          a Talant e Fontaine, sul lato della strada, lasciò il campo coperto 
          di cadaveri, e, riordinandosi più volte nelle depressioni del terreno, 
          riprendeva ad avanzare con lo stesso ordine e la stessa calma. Erano soldati 
          famosi! Anche i nostri mostrarono grande coraggio e furono certo degni 
          avversari di chi ci assaliva; per un solo momento i nostri furono incerti 
          di fronte a un terribile attacco di fianco sulla nostra destra, dalla 
          parte di Daix, che ci costò un bel numero di uomini, ma, respinti 
          i nemici sin dentro il cimitero del villaggio, si arrampicarono sul muro 
          stringendosi alle baionette prussiane per strappargliele di mano.
 Sulla nostra sinistra, invece, il nemico era quasi circondato da forti 
          linee di tiratori a martello e correva il rischio di essere tagliato fuori 
          dalla sua colonna destra, verso Plombières; furono anche assaliti 
          a fucilate dagli uomini del colonnello Pelletier e dai franchi tiratori 
          di Braòn, che scesero da Bellair, nella valle dell’Ouche, 
          costringendoli a una fuga precipitosa.
 La battaglia durò dalla mattina al tramonto, con tutto l’accanimento 
          possibile da ambo le parti, e senza che nessuno acquisisse un vantaggio 
          significativo: al tramonto eravamo padroni delle posizioni iniziali ed 
          il nemico rimaneva sulle proprie.
 Ma qui accadde ciò che ho visto succedere in altre circostanze 
          simili tra reclute e veterani: quest’ultimi stanno agli ordini, 
          mentre gli altri, col pretesto delle munizioni, della fame, della sete, 
          od altro ancora, cercano di lasciare i propri posti per andare a rifocillarsi 
          o per raccontare le glorie della giornata. Quindi non smetterò 
          mai di raccomandare ai miei giovani compatrioti la massima costanza e 
          tenacia in battaglia.
 Nella misura in cui calava la notte, i nostri soldati, che avrebbero potuto 
          tenere bene le posizioni così valorosamente difese durante il giorno, 
          con qualche scusa si ritiravano verso la città e si ammassavano 
          sullo stradale sotto Talant, tanto da creare una confusione tale che non 
          si capiva nulla, e non si poteva più né dare né ricevere 
          ordini: io stesso, che scendevo da Talant, dov’ero stato per tutta 
          la durata della battaglia, mi trovai in mezzo ad una folla così 
          fitta che non riuscivo più a governare il cavallo.
 Il nemico, al contrario, più astuto ed esperto, esplorando le nostre 
          posizioni avanzate e trovandole sgombre, avanzò e ci fulminò 
          con una potente scarica mentre eravamo in quel caos; fortunatamente ci 
          trovavamo in una depressione del terreno e tra noi ed il nemico c’era 
          una collina, per cui le pallottole passarono per la maggior parte sulla 
          nostra testa. Ma la folla mi spinse così brutalmente che per poco 
          non andai a gambe all’aria assieme al cavallo. La ritirata dei nostri 
          avamposti e l’avanzare del nemico mi fecero passare una brutta nottata, 
          resa poi ancora peggiore dalla seguente circostanza.
 Erano le undici di notte e mi ero sdraiato, stanchissimo, sul mio lettino 
          nella prefettura di Dijon, quando una delegazione composta dal generale 
          Pellissier, dal Sindaco e da una parte del consiglio municipale e della 
          magistratura, venne ad informarmi che il nemico era penetrato nelle nostre 
          linee, aveva occupato Talant, e forse Fontaine, e che un colonnello nemico, 
          su incarico del generale comandante le forze prussiane, aveva comunicato 
          ad un magistrato lì presente che se all’alba Dijon non si 
          fosse arresa egli l’avrebbe bombardata.
 A 64 anni, ed avendo visto un po’ di mondo, non è facile 
          essere presi in giro, ed io capii all’istante che si trattava di 
          una furberia del generale nemico, avvezzo alle rodomontate dopo le strepitose 
          vittorie prussiane. Comunque, la notizia, comunicatami da persone autorevoli, 
          non era da sottovalutare, infatti il magistrato che l’aveva riportata 
          verso sera era uscito sul campo di battaglia in cerca di un figlio che 
          temeva fosse ferito e lì aveva incontrato il suddetto colonnello 
          prussiano. Il mio riposo finì lì e ordinai di attaccare 
          subito i cavalli alla mia carrozza, dando nel frattempo tutte le disposizioni 
          possibili per inviare degli esploratori a verificare i fatti.
 Le strade erano ricoperte di ghiaccio e nevicava, e per un invalido come 
          me era davvero difficile arrivare fino agli avamposti, ma non c’era 
          altra via: come si poteva restare a casa con la gente stremata e con un 
          nemico così intraprendente e coraggioso?
 Dopo aver riunito un buon nucleo delle truppe migliori, cosa che richiese 
          alcune ore, e aver dato ordine che tutti fossero pronti a combattere prima 
          di giorno, nelle prime ore antimeridiane m’incamminai verso Mont 
          Chapé, prima delle nostre posizioni di fronte al nemico, dov’erano 
          collocati due pezzi da 12, protetti da un battaglione mobile: non trovai 
          nulla di nuovo, e tutto era in ordine. Dopo mi recai a Fontaine, e infine 
          a Talant, dove non c’era traccia del nemico. Era stata una semplice 
          spacconata dei prussiani la minaccia del bombardamento, e infatti il 22 
          non solo non fummo bombardati ma verso sera, dopo un’altra giornata 
          di scontri, avemmo la fortuna di cacciarli dalle posizioni occupate il 
          giorno prima e di metterli in fuga.
 Tenacia e costanza nelle battaglie, ecco una delle chiavi della vittoria! 
          "Ma la gente è stanca, siamo stanchi e affamati!" 
          "Sì, andate in cerca di cibo e riposo: il nemico verrà 
          avanti, vi ruberà i viveri e il riposo ve lo darà col calcio 
            del fucile!" Tenacia, costanza e soprattutto vigilanza, questa 
          non è mai troppa. Quanti generali conosciamo al giorno d’oggi, 
          che per il solo fatto di essere generali, generalissimi, o ancora più 
          alti in grado, credono di essere dispensati dall’assistere da vicino 
          alle battaglie, e si accontentano, da lontano, di ricevere informazioni 
          e di dare gli ordini ai comandanti subordinati. Errore! Il comandante 
          supremo, senza esporsi inutilmente, deve assistere il più vicino 
          possibile, tanto da essere al centro del campo di battaglia: in alto, 
          possibilmente, in modo da tenere sotto controllo il massimo spazio e dare 
          la maggiore rapidità agli ordini inviati ed alle informazioni da 
          ricevere. Il colpo d’occhio dell’uomo che deve dirigere, poi, 
          vale sempre di più di ogni informazione.
 Il 22 gennaio 1871 provò che se noi eravamo stanchi per la battaglia 
          del 21, i prussiani erano ancora più stanchi e sgangherati di noi, 
          dato che, valorosi come si erano dimostrati il primo giorno, lo furono 
          ancora nel secondo, ma tennero meno, e ciò mi fece sperare che 
          il 23 avremmo avuto modo di riposarci dalle fatiche dei giorni precedenti; 
          [...] ma la valanga dei prussiani (per servirmi dell’espressione 
          di un mio ufficiale) era così grande che anche il 23 rischiammo 
          di esserne sepolti.
 Verso la metà della giornata essi minacciarono un attacco su Fontaine 
          e vi inviarono alcuni battaglioni fingendo un assalto, ma subito dopo 
          comparvero a nord, sullo stradale di Langre, in fitte colonne, e con reparti 
          di fiancheggiatori da est, verso Montmuzard e Saint Apollinaire; l’attacco 
          sulla via di Langre fu formidabile, degno del terribile esercito che ci 
          stava di fronte: quasi tutti i nostri corpi ripiegavano, meno la 4a brigata 
          che resistette in una fabbrica di nero animale, munita, fortunatamente, 
          di un magazzino chiuso ove erano state praticate delle feritoie alla sinistra 
          della strada; anche alcune centinaia di soldati della 5 a brigata, in 
          formazione, e decimata dal combattimento del 21, sostennero l’urto 
          in uno stabilimento contiguo, più indietro, e poi si riunirono 
          alla 4 a. Questi corpi rimasero a lungo circondati dal nemico a causa 
          della ritirata della nostra ala destra: il nemico aveva collocato le artiglierie 
          sulla prima collina che domina Pouilly e Dijon, a nord, e tirava con quella 
          maestria a cui ci avevano abituato i prussiani, distruggendo in poco tempo 
          tutti i nostri pezzi del centro collocati sullo stradale e lateralmente 
          e resistendo a tutti i tiri dei nostri pezzi, due a Montmuzard, tre al 
          Mont Chapé ed altri due che avevamo collocato su una strada obliqua 
          allo stradale e sulla sua destra appena vedemmo l’impossibilità 
          di tenerli nella prima posizione, fulminata dai cannoni nemici.
 Verso il tramonto la nostra situazione era critica ed i prussiani, padroni 
          del campo, minacciavano di attaccare la città: ai nostri corpi 
          in ritirata si badava di assegnare posizioni arretrate presso la stessa 
          cinta dove c’era una discreta quantità di recinti, alcuni 
          dei quali muniti di feritoie. Alcuni codardi che avevano disertato o che 
          avevano denaro da mettere in salvo avevano dato l’allarme in città 
          e diffuso ovunque la paura, invocando un treno per fuggire.
 La nostra estrema sinistra, formata per la maggior parte dalla 3 a brigata 
          e posizionata a Talant e Fontaine, alla vista della ritirata del centro 
          aveva spinto i propri franchi tiratori sulla destra nemica e marciava 
          risolutamente per sostenere il centro: all’imbrunire alcuni corpi 
          mobili sulla nostra destra, spingendosi con decisione verso Pouilly, obiettivo 
          principale della battaglia, ricacciarono il nemico dal terreno conquistato 
          e lo respinsero sino al di là di quel castello. In tal modo la 
          4 a brigata, a cui si doveva l’onore principale del combattimento, 
          venne liberata dalla nuvola nemica che l’aveva avvolta a lungo, 
          e nel respingere i reiterati attacchi del 61° reggimento prussiano, 
          combattendo corpo a corpo, riuscì a togliergli la bandiera rimasta 
          sepolta sotto un mucchio di cadaveri.
 Ho assistito a molte battaglie micidiali ma certo ho veduto poche volte 
          un così gran numero di cadaveri ammonticchiati in un piccolo spazio, 
          a nord di quell’edificio, come vidi in quella posizione occupata 
          dalla 4a brigata e da parte della 5a: se parlo della 4a e della 5a a brigata 
          opposte ad un reggimento prussiano, non si creda che fossero brigate complete, 
          perché erano solo nuclei di brigate in formazione, contando la 
          4 a mille uomini e la 5 a meno di trecento.
 Nelle prime ore della notte il nemico era in piena rotta. [...]
 Non finirò il racconto della grande battaglia di Dijon senza menzionare 
          il mio diletto amico e fratello d’armi, il generale Bosak. Questo 
          eroe della Polonia il 21 gennaio mi avvisò dell’avanzata 
          prussiana e alla testa di pochi uomini andò in ricognizione: si 
          scontrò coraggiosamente con l’avanguardia nemica e piuttosto 
          che fuggire trovò la morte.
 [...] RITIRATA 
          - BORDEAUX - CAPRERA 
                   La notizia prima dell’armistizio e poi della capitolazione di Parigi, 
          e infine quella del trasferimento in Svizzera dell’esercito di Bourbaki, 
          cambiarono tutta la situazione: panico ed incertezza s’impadronirono 
          della popolazione, che aveva sperato in un miglioramento delle condizioni 
          della Francia dopo i successi da noi ottenuti, ma nella maggior parte 
          della gente l’effetto fu favorevole, confidando nella prossima fine 
          della guerra. Com’era sempre accaduto in Italia, avvicinandosi la fine il governo 
          di difesa largheggiava con noi in mezzi di ogni tipo e in rinforzi per 
          tutte le armi, ed il nostro piccolo esercito, a cui si erano aggregati 
          quindicimila uomini dei battaglioni mobili del generale Pellissier, contava 
          ora circa quarantamila effettivi. In ogni caso, il nemico, liberatosi 
          dalla preoccupazione di Parigi e dell’esercito passato in Svizzera, 
          ammassava su di noi forze imponenti, e, malgrado tutte le opere di difesa 
          che avevamo realizzato e l’aumento del nostro numero, avrebbe finito 
          per schiacciarci o per circondarci, come aveva fatto con gli eserciti 
          francesi a Metz, a Sedan, a Parigi.
 I prussiani, col loro straordinario vantaggio, facevano naturalmente la 
          parte del lupo e mentre vi era l’armistizio a Parigi e in tutta 
          la Francia, per noi non valeva.
 Una delimitazione dei territori male impostata, che avrebbe dovuto attraversare 
          la Borgogna, definiva malissimo il terreno neutro fra le linee nemiche 
          e le nostre, ma comunque ci cacciava da Dijon e da tutte le posizioni 
          occupate sino a quel momento, respingendoci a sud.
 Facendo, ripeto, la parte del lupo, il nemico era tanto più insolente 
          quanto più riceveva rinforzi, e ne riceveva molti ogni giorno: 
          con un pretesto o con l’altro tentò varie volte di circondare 
          i nostri avamposti e di farli prigionieri, cosa che però non gli 
          riuscì, avendo a che fare con gente che non si fidava di lui.
 Per ordine del governo di Bordeaux bisognava trattare coi prussiani per 
          l’armistizio, la delimitazione dei confini, ecc., ed il generale 
          Bourdon, Capo di Stato Maggiore, si recò varie volte al campo nemico 
          per discutere a questo proposito; ma, come ho detto, il risultato fu che 
          per noi non vi era armistizio.
 Dal 23 gennaio al 1° febbraio tenemmo in qualche modo le posizioni 
          di Dijon contro il nemico che incalzava: dopo le lezioni ricevute nei 
          tre giorni di battaglia, esso certamente aveva capito che non bastavano 
          poche forze per spaventarci e, di nascosto, ne accumulava molte; verso 
          la fine di gennaio le colonne prussiane occupavano in forze tutto il fronte 
          e cominciarono ad aggirarci sui fianchi, mentre l’esercito di Manteuffel, 
          non più impegnato col nostro ad est, scendeva per la vallata del 
          Rodano mettendo in pericolo la nostra linea di ritirata.
 Il 31 gennaio fin dalla mattina si cominciò a combattere sulla 
          nostra sinistra e si continuò fino a notte avanzata: il nemico 
          saggiava vari punti, prendendo posizione fuori Dijon per l’attacco 
          generale, ed alcuni corpi prussiani si mostravano lungo la valle della 
          SaÛne, minacciando di prenderci alle spalle. Non c’era tempo 
          da perdere: eravamo l’ultimo boccone che solleticava la bramosia 
          dell’esercito vincitore della Francia, e senza dubbio esso voleva 
          farci pagare la temerarietà di avergli contrastato per un momento 
          la vittoria.
 Fu ordinata la ritirata su tre colonne. [...] Il quartier generale viaggiò 
          in treno e a Chagny fu stabilito il punto di raccolta di tutto l’esercito: 
          anche vari altri corpi e compagnie di franchi tiratori distaccati dalle 
          brigate si diressero verso la nuova base. Tutto fu eseguito col miglior 
          ordine possibile grazie all’attività del Capo di Stato Maggiore, 
          del comandante dell’artiglieria, colonnello Olivier, e dei comandanti 
          dei corpi, senza essere infastiditi dal nemico e con una confusione minore 
          di quella che ci si sarebbe aspettata da drappelli di reclute in ritirata 
          notturna.
 La ritirata ebbe luogo nella notte fra il 31 gennaio ed il 1° febbraio 
          ed il nemico occupò Dijon verso le otto di mattina del 1°.
 Da Chagny il quartier generale passò a Chalons-sur-SaÛne, 
          poi a Courcelles, in un castello nelle vicinanze della città. Essendo 
          ormai la capitolazione di Parigi un fatto compiuto, e riducendosi l’armistizio 
          ad un preliminare di pace, io, eletto fra i deputati dell’Assemblea, 
          l’8 febbraio decisi di recarmi a Bordeaux, dove quella si sarebbe 
          riunita, con l’unico scopo di portare il mio voto all’infelice 
          Repubblica, così lasciai provvisoriamente a Menotti il comando 
          dell’esercito.
 Tutti sanno come fui ricevuto dalla maggioranza dei deputati, e, certo 
          di non poter fare più nulla per lo sventurato paese che ero venuto 
          a servire nel momento del bisogno, mi recai a Marsiglia e di lì 
          andai a Caprera, dove arrivai il 16 febbraio 1871.
 L’esercito dei Vosges, composto da elementi troppo repubblicani, 
          doveva naturalmente subire l’antipatia del governo Thiers. E fu 
          sciolto.
 
 Nota
 A 
          questo punto le Memorie s’interrompono, bruscamente. Garibaldi 
            si sente vecchio, è seriamente ammalato, ma gli oltre dieci anni 
            che gli restano da vivere non sono certo vuoti.Francesca Armosino gli dà un altro figlio, Manlio, e questa presenza 
            lo assorbe moltissimo, anche perché gli permette di essere quel 
            padre affettuoso e pieno di premure che non aveva potuto essere negli 
            anni passati, turbolenti e frenetici.
 È più volte eletto deputato e presenta importanti progetti 
            di legge: dall’emigrazione alla regimazione del Tevere, dal suffragio 
            universale alla bonifica dell’Agro romano, all’istruzione 
            obbligatoria. La classe politica del nuovo stato, però, è 
          del tutto sorda ai suoi richiami e alle sue proposte, e Garibaldi è 
          definitivamente disgustato dai governi, anche quelli espressione della 
          sinistra, “incapaci di far bene.”
 L’amarezza di fronte a un’Italia che non è certo quella 
            che lui aveva sognato s’intreccia con la frustrazione per il proprio 
            stato di salute, sempre più precario, e con le crescenti preoccupazioni 
            di ordine finanziario.
 Anni difficili e penosi, dunque, solo in parte rasserenati da una situazione 
        familiare al cui centro è il vecchio patriarca. Anni su cui Garibaldi 
            tace, perché Caprera è il luogo del riposo e della dignità, 
            non certo la terra su cui continuare la propria battaglia, e il vecchio 
            combattente non vuole contaminare la narrazione di un’esistenza 
            dedicata alla lotta con pagine dominate da analisi politiche o da resoconti 
            di intrighi e trasformismi. Argomenti che pure Garibaldi affronta con 
            la consueta decisione, e infatti sia nella redazione ufficiale che in 
            altre edizioni delle Memorie si possono ritrovare alcuni di questi scritti: 
            dalle riflessioni su questioni militari (Mentana, Aspromonte), alle lettere 
            in cui espone il proprio pensiero sul socialismo e la democrazia, dagli 
            appelli per il risanamento morale della patria a veri e propri interventi 
            di attualità, fino al testamento politico e spirituale.
 Sono scritti importanti, talvolta di notevole originalità, indispensabili 
            per mettere a fuoco correttamente la complessa personalità di Garibaldi, 
            e tuttavia ci sembra coerente rispettare la volontà dell’Autore, 
            che ha voluto concludere il proprio racconto in modo sommesso e antiretorico.
 
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