QUINTO PERIODO 1870 - 1871

 

CAMPAGNA DI FRANCIA

A chi ha la pazienza di leggermi accennerò una circostanza che sembrerà incredibile, ma che tuttavia è assolutamente vera, e sulla quale preferisco lasciare ogni commento al lettore.
Che io non sia entrato nelle buone grazie della monarchia Sabauda al mio arrivo in Italia dall’America nel 1848 è naturale; che io abbia suscitato antipatia fra i suoi servitori, dal primo ministro ai generali dell’esercito, e da questi all’ultimo degli uscieri, legati all’esistenza del governo regio, lo era altrettanto nel normale ordine delle cose. Ma quello che non riesco esattamente a spiegarmi è l’accoglienza così negativa riservatami da quegli uomini che possiamo giustamente definire come i luminari del moderno periodo del risorgimento nazionale, di cui furono benemeriti, come ad esempio Mazzini, Manin, Guerrazzi ed alcuni dei loro amici.
La stessa sorte mi toccò in Francia nel 1870 e nel 1871, eppure in Francia, come in Italia, ho trovato fra la gente una simpatia entusiastica, certo molto superiore ai miei meriti. Il governo di difesa nazionale, composto da tre persone perbene che meritavano la fiducia del paese, mi accolsero perché gli avvenimenti lo imponevano, ma con freddezza, con la palese intenzione, come talvolta mi era accaduto in Italia, di servirsi del mio povero nome ma nulla più, ed in sostanza privandomi dei mezzi necessari a rendere efficace il mio contributo.
Gambetta, Crémieux, Glais-Bisoin, individualmente con me furono gentili, ma soprattutto il primo, da cui avrei dovuto aspettarmi se non una simpatia a livello personale almeno un sostegno attivo ed energico, mi lasciò in disparte per un prezioso periodo di tempo.
Ai primi di settembre 1870 in Francia fu costituito il governo provvisorio ed il 6 io offrii i miei servigi a quel governo che sempre si vergognò di proclamarsi repubblicano: stettero un mese senza rispondermi, tempo prezioso in cui si poteva fare molto e che invece fu perduto, o in cui si fece pochissimo. E qui giova ripetere che è un grande errore da parte dei popoli che diventano padroni del proprio destino, come avvenne per la Francia e per la Spagna in due settembri consecutivi, non eleggere al governo un solo uomo onesto, col titolo di dittatore o altro, ma uno solo!, invece di ricorrere a governi con più persone, generalmente professori che passano la maggior parte del tempo a discutere, in luogo di agire rapidamente come esigono le situazioni di emergenza.
In Francia fecero anche di peggio: invece di uno con più persone ce ne furono due, e tutti conoscono i risultati di un tale sistema. Diversamente, la persona eletta da sola avrebbe probabilmente identificato la sede del governo col proprio quartier generale, come fecero i prussiani acquisendo un enorme vantaggio sugli avversari: al posto di una Babele la Francia avrebbe avuto un governo forte.
Solo ai primi di ottobre seppi che sarei stato accettato in Francia ed il generale Bourdon, a cui soltanto devo la mia accoglienza, venne a cercarmi a Caprera col piroscafo Ville de Paris, capitano Coudray: su questa nave arrivai a Marsiglia il 7 ottobre 1870. Il prefetto dell’illustre città, Esquiros, e la popolazione in festa mi accolsero calorosamente, e lì un telegramma del governo di Tours mi convocava immediatamente; a Tours trovai Crémieux e Glais-Bisoin, entrambi persone simpatiche, e credo anche onestissime, ma non in grado di risollevare la Francia dalla tremenda sventura in cui Bonaparte l’aveva fatta precipitare; essi, poi, appartenevano ad un sistema di governo degenerato, in cui, anche se avevano la capacità di agire bene non potevano.
Gambetta, giunto in pallone il giorno dopo, scosse alquanto la macchina governativa, la galvanizzò, improvvisò iniziative formidabili, ma anch’egli fu inadeguato alle circostanze, sia a causa del cattivo funzionamento del governo, sia per l’errata decisione di affidare il comando del nascente esercito agli stessi uomini dell’impero che avevano portato alla disfatta il precedente esercito, e sia per mancanza di esperienza rispetto a quel tipo di situazioni drammatiche. A Tours persi vari giorni, per l’indecisione del governo, e fui sul punto di dovermene tornare a casa perché capii, come ho accennato, che ci si voleva servire del mio povero nome e basta. L’incarico che mi si voleva affidare era quello di organizzare alcune centinaia di volontari italiani che si trovavano a Chambéry e a Marsiglia: dopo varie controversie con questi signori andai finalmente a Dole per raccogliere gli elementi di varia nazionalità che dovevano servire come nucleo del futuro esercito dei Vosges.
Dopo Sedan i prussiani marciavano su Parigi e naturalmente sul loro fianco sinistro, dove si raccoglievano le nuove reclute di Francia, dovevano tenere dei fiancheggiatori: questi alcune volte comparvero fino nei dintorni di Dole, dove tenevo i pochi uomini che ero riuscito a riunire, ancora da organizzare, e che restarono per diverso tempo poco equipaggiati e male armati. Il nostro comportamento fu comunque energico: prendemmo posizione prima a Mont Rolland e poi nella forête de la Serre, così che Dole rimase inviolata per tutto il tempo che vi soggiornammo. Dato che l’esercito nemico marciava su Parigi, era naturale che si dovesse minacciare almeno la sua linea di operazioni, dal Reno alla capitale, e questa necessità fu avvertita dal governo di difesa, che inviò nei Vosges la maggior parte dei franchi tiratori, ed il generale Cambriels con circa trentamila uomini della nuova leva, alcuni battaglioni del vecchio esercito e qualche pezzo di artiglieria: queste forze furono respinte dai Vosges su Besançon dalle preponderanti forze nemiche mentre ci trovavamo ancora a Dole, ed il prefetto di Besançon, Ordinaire, mi telegrafò due volte affinché mi recassi da lui per trovare il modo di impedire lo sbandamento di queste truppe.
Il signor Ordinaire aveva pensato di riunire sotto il mio comando tutte le frazioni dei corpi presenti nel dipartimento ed io ero stato accolto da quelle truppe e dalla popolazione di Besançon con lo stesso entusiasmo che se mi fossi trovato in Italia; ma il signor Gambetta, giunto poco dopo, ritenne di riorganizzare tutto e di rimettere agli ordini del generale Cambriels tutte le forze dell’est. Si osservi che il generale Cambriels asseriva di aver bisogno di riposo per curare una ferita alla testa che lo disturbava molto.

[...]

21, 22 E 23 GENNAIO 1871

La vittoria di Autun rialzò il morale un po’ scosso dei nostri giovani soldati, e quei prussiani che ci avevano respinti a Dijon erano stati respinti a loro volta e cacciati in disordine.
Un corpo fresco, anche non numeroso, sarebbe stato sufficiente ad affrettare la ritirata del nemico e lo avrebbe costretto a lasciare i cannoni e molti prigionieri: lo cercai inutilmente e ciò che non riuscimmo a fare noi lo eseguì il generale Cremer, il quale, trovandosi vicino a Beaune con alcune migliaia di buoni soldati, attraversò le montagne a Bligny e attaccando i prussiani di fianco, verso Vendenesse, lo mise in rotta completa.
La maggior parte di dicembre la passammo ad Autun per organizzare le nuove truppe: qualche reparto di artiglieria ed alcuni squadroni di cavalleria, ma sempre in attesa di cappotti, indispensabili vista la stagione fredda, di altri capi di abbigliamento e di fucili che rimpiazzassero il nostro vecchio e scadente armamento.
Lo scontro di Autun accrebbe anche il prestigio del nostro piccolo corpo e le popolazioni che furono salvate da quella vittoria ci benedicevano, e facevano a gara per inviarci indumenti di lana per i soldati e denaro per i feriti. In quella città servimmo come cortina di protezione per due movimenti di fianco che vennero attuati da Chagny ad Orléans da parte del generale Crousat, e verso est dal grande esercito della Loire, comandato dal generale Bourbaki. Tutto il paese era coperto di neve e di ghiaccio e rendeva assai difficoltosi questi spostamenti, micidiali per i cavalli e gli uomini: a causa della manovra del generale Bourbaki i prussiani abbandonarono Dijon e noi l’occupammo con alcune compagnie di franchi tiratori, e l’avremmo presa subito con le nostre forze se i treni non fossero stati usati al servizio del generale.
Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio la temperatura si era fatta molto rigida, la neve si era indurita in ghiaccio e il movimento era diventato difficilissimo, soprattutto per i cannoni e l’artiglieria; i nemici, con truppe agguerrite ed equipaggiate di tutto punto, col prestigio della vittoria e con la presunzione del soldato vincitore in un paese straniero, dove è permesso non solo spogliare di tutte le vivande e le suppellettili i poveri abitanti, ma di cacciarli dal letto per poterci dormire, i nemici, dicevo, avevano molti vantaggi sugli inesperti soldati francesi, di recente reclutamento e privi del necessario. [...]
Deciso a difendere Dijon, la mia prima preoccupazione fu quella di continuare le opere di fortificazione che erano state iniziate dai prussiani e dal generale Pellissier; le posizioni di Talant e Fontaine, che dominano la strada principale per Parigi, e che allo stesso tempo sono le più alte ed importanti, a due chilometri ad est della città, furono le prime a vedere completate le piazzeforti improvvisate e vi si collocarono, rispettivamente, due batterie di campagna da 12 e due da 4, e una batteria da 4 rigata da campagna ed una da montagna dello stesso calibro. Alcune batterie da 12, inviate dal governo dopo il generale Pellissier, furono sistemate nelle altre fortificazioni realizzate a Montmuzard, Mont Chapé, Bellain e nelle altre postazioni, le più indicate nella cinta di Dijon per tener lontane dalle città le batterie nemiche in caso di attacco: cosa che potevamo aspettarci da un giorno all’altro.
In guerra domina la Signora Fortuna e davvero essa ci favorì, dato che il nemico ci attaccò il 21 gennaio, da ponente, e si può dire che egli prese il toro per le corna.
Avevamo esaminato accuratamente il terreno da quella parte: aveva forti posizioni coperte da muri e da pendii per le linee di tiratori, a destra e a sinistra della strada maestra, e piazzammo trentasei pezzi di artiglieria sulle formidabili posizioni di Talant e Fontaine, che dominano tutto, così che la nostra difesa fu efficacissima. E ve n’era ben donde poiché la potente colonna che ci venne incontro dalla strada di Parigi poteva ben chiamarsi colonna d’acciaio! E furono appena sufficienti per fermarla i nostri trentasei pezzi, che tenevano sotto tiro d’infilata la strada, e varie migliaia dei nostri uomini migliori, distesi dietro i ripari. Essendo certi che l’attacco sarebbe arrivato da quel lato, vi concentrammo un buon nucleo delle truppe senza bisogno di sguarnire il fianco nord e quello orientale della cinta di difesa, da dove io fui sempre certo che sarebbe stato portato l’attacco principale. Ma non fu così: l’attacco arrivò da ovest, per nostra fortuna, e solo da quella direzione: con assalti simultanei, però, di corpi sui fianchi, alla sinistra del nemico, verso Hauteville e Daix, e alla sua destra, verso Plombières, nella valle dell’Ouche.
L’attacco fu tremendo: quel giorni vidi i migliori soldati nemici che avessi mai visto. La colonna che avanzava verso il nostro centro era ammirevole per coraggio e sangue freddo, e ci veniva addosso compatta come una nuvola, a passo non celere ma con un’uniformità, un ordine ed una calma spaventosi. Quella colonna, sotto il fuoco incrociato di tutte le nostre artiglierie e di tutte le linee di fanteria davanti a Talant e Fontaine, sul lato della strada, lasciò il campo coperto di cadaveri, e, riordinandosi più volte nelle depressioni del terreno, riprendeva ad avanzare con lo stesso ordine e la stessa calma. Erano soldati famosi! Anche i nostri mostrarono grande coraggio e furono certo degni avversari di chi ci assaliva; per un solo momento i nostri furono incerti di fronte a un terribile attacco di fianco sulla nostra destra, dalla parte di Daix, che ci costò un bel numero di uomini, ma, respinti i nemici sin dentro il cimitero del villaggio, si arrampicarono sul muro stringendosi alle baionette prussiane per strappargliele di mano.
Sulla nostra sinistra, invece, il nemico era quasi circondato da forti linee di tiratori a martello e correva il rischio di essere tagliato fuori dalla sua colonna destra, verso Plombières; furono anche assaliti a fucilate dagli uomini del colonnello Pelletier e dai franchi tiratori di Braòn, che scesero da Bellair, nella valle dell’Ouche, costringendoli a una fuga precipitosa.
La battaglia durò dalla mattina al tramonto, con tutto l’accanimento possibile da ambo le parti, e senza che nessuno acquisisse un vantaggio significativo: al tramonto eravamo padroni delle posizioni iniziali ed il nemico rimaneva sulle proprie.
Ma qui accadde ciò che ho visto succedere in altre circostanze simili tra reclute e veterani: quest’ultimi stanno agli ordini, mentre gli altri, col pretesto delle munizioni, della fame, della sete, od altro ancora, cercano di lasciare i propri posti per andare a rifocillarsi o per raccontare le glorie della giornata. Quindi non smetterò mai di raccomandare ai miei giovani compatrioti la massima costanza e tenacia in battaglia.
Nella misura in cui calava la notte, i nostri soldati, che avrebbero potuto tenere bene le posizioni così valorosamente difese durante il giorno, con qualche scusa si ritiravano verso la città e si ammassavano sullo stradale sotto Talant, tanto da creare una confusione tale che non si capiva nulla, e non si poteva più né dare né ricevere ordini: io stesso, che scendevo da Talant, dov’ero stato per tutta la durata della battaglia, mi trovai in mezzo ad una folla così fitta che non riuscivo più a governare il cavallo.
Il nemico, al contrario, più astuto ed esperto, esplorando le nostre posizioni avanzate e trovandole sgombre, avanzò e ci fulminò con una potente scarica mentre eravamo in quel caos; fortunatamente ci trovavamo in una depressione del terreno e tra noi ed il nemico c’era una collina, per cui le pallottole passarono per la maggior parte sulla nostra testa. Ma la folla mi spinse così brutalmente che per poco non andai a gambe all’aria assieme al cavallo. La ritirata dei nostri avamposti e l’avanzare del nemico mi fecero passare una brutta nottata, resa poi ancora peggiore dalla seguente circostanza.
Erano le undici di notte e mi ero sdraiato, stanchissimo, sul mio lettino nella prefettura di Dijon, quando una delegazione composta dal generale Pellissier, dal Sindaco e da una parte del consiglio municipale e della magistratura, venne ad informarmi che il nemico era penetrato nelle nostre linee, aveva occupato Talant, e forse Fontaine, e che un colonnello nemico, su incarico del generale comandante le forze prussiane, aveva comunicato ad un magistrato lì presente che se all’alba Dijon non si fosse arresa egli l’avrebbe bombardata.
A 64 anni, ed avendo visto un po’ di mondo, non è facile essere presi in giro, ed io capii all’istante che si trattava di una furberia del generale nemico, avvezzo alle rodomontate dopo le strepitose vittorie prussiane. Comunque, la notizia, comunicatami da persone autorevoli, non era da sottovalutare, infatti il magistrato che l’aveva riportata verso sera era uscito sul campo di battaglia in cerca di un figlio che temeva fosse ferito e lì aveva incontrato il suddetto colonnello prussiano. Il mio riposo finì lì e ordinai di attaccare subito i cavalli alla mia carrozza, dando nel frattempo tutte le disposizioni possibili per inviare degli esploratori a verificare i fatti.
Le strade erano ricoperte di ghiaccio e nevicava, e per un invalido come me era davvero difficile arrivare fino agli avamposti, ma non c’era altra via: come si poteva restare a casa con la gente stremata e con un nemico così intraprendente e coraggioso?
Dopo aver riunito un buon nucleo delle truppe migliori, cosa che richiese alcune ore, e aver dato ordine che tutti fossero pronti a combattere prima di giorno, nelle prime ore antimeridiane m’incamminai verso Mont Chapé, prima delle nostre posizioni di fronte al nemico, dov’erano collocati due pezzi da 12, protetti da un battaglione mobile: non trovai nulla di nuovo, e tutto era in ordine. Dopo mi recai a Fontaine, e infine a Talant, dove non c’era traccia del nemico. Era stata una semplice spacconata dei prussiani la minaccia del bombardamento, e infatti il 22 non solo non fummo bombardati ma verso sera, dopo un’altra giornata di scontri, avemmo la fortuna di cacciarli dalle posizioni occupate il giorno prima e di metterli in fuga.
Tenacia e costanza nelle battaglie, ecco una delle chiavi della vittoria! "Ma la gente è stanca, siamo stanchi e affamati!" "Sì, andate in cerca di cibo e riposo: il nemico verrà avanti, vi ruberà i viveri e il riposo ve lo darà col calcio del fucile!" Tenacia, costanza e soprattutto vigilanza, questa non è mai troppa. Quanti generali conosciamo al giorno d’oggi, che per il solo fatto di essere generali, generalissimi, o ancora più alti in grado, credono di essere dispensati dall’assistere da vicino alle battaglie, e si accontentano, da lontano, di ricevere informazioni e di dare gli ordini ai comandanti subordinati. Errore! Il comandante supremo, senza esporsi inutilmente, deve assistere il più vicino possibile, tanto da essere al centro del campo di battaglia: in alto, possibilmente, in modo da tenere sotto controllo il massimo spazio e dare la maggiore rapidità agli ordini inviati ed alle informazioni da ricevere. Il colpo d’occhio dell’uomo che deve dirigere, poi, vale sempre di più di ogni informazione.
Il 22 gennaio 1871 provò che se noi eravamo stanchi per la battaglia del 21, i prussiani erano ancora più stanchi e sgangherati di noi, dato che, valorosi come si erano dimostrati il primo giorno, lo furono ancora nel secondo, ma tennero meno, e ciò mi fece sperare che il 23 avremmo avuto modo di riposarci dalle fatiche dei giorni precedenti; [...] ma la valanga dei prussiani (per servirmi dell’espressione di un mio ufficiale) era così grande che anche il 23 rischiammo di esserne sepolti.
Verso la metà della giornata essi minacciarono un attacco su Fontaine e vi inviarono alcuni battaglioni fingendo un assalto, ma subito dopo comparvero a nord, sullo stradale di Langre, in fitte colonne, e con reparti di fiancheggiatori da est, verso Montmuzard e Saint Apollinaire; l’attacco sulla via di Langre fu formidabile, degno del terribile esercito che ci stava di fronte: quasi tutti i nostri corpi ripiegavano, meno la 4a brigata che resistette in una fabbrica di nero animale, munita, fortunatamente, di un magazzino chiuso ove erano state praticate delle feritoie alla sinistra della strada; anche alcune centinaia di soldati della 5 a brigata, in formazione, e decimata dal combattimento del 21, sostennero l’urto in uno stabilimento contiguo, più indietro, e poi si riunirono alla 4 a. Questi corpi rimasero a lungo circondati dal nemico a causa della ritirata della nostra ala destra: il nemico aveva collocato le artiglierie sulla prima collina che domina Pouilly e Dijon, a nord, e tirava con quella maestria a cui ci avevano abituato i prussiani, distruggendo in poco tempo tutti i nostri pezzi del centro collocati sullo stradale e lateralmente e resistendo a tutti i tiri dei nostri pezzi, due a Montmuzard, tre al Mont Chapé ed altri due che avevamo collocato su una strada obliqua allo stradale e sulla sua destra appena vedemmo l’impossibilità di tenerli nella prima posizione, fulminata dai cannoni nemici.
Verso il tramonto la nostra situazione era critica ed i prussiani, padroni del campo, minacciavano di attaccare la città: ai nostri corpi in ritirata si badava di assegnare posizioni arretrate presso la stessa cinta dove c’era una discreta quantità di recinti, alcuni dei quali muniti di feritoie. Alcuni codardi che avevano disertato o che avevano denaro da mettere in salvo avevano dato l’allarme in città e diffuso ovunque la paura, invocando un treno per fuggire.
La nostra estrema sinistra, formata per la maggior parte dalla 3 a brigata e posizionata a Talant e Fontaine, alla vista della ritirata del centro aveva spinto i propri franchi tiratori sulla destra nemica e marciava risolutamente per sostenere il centro: all’imbrunire alcuni corpi mobili sulla nostra destra, spingendosi con decisione verso Pouilly, obiettivo principale della battaglia, ricacciarono il nemico dal terreno conquistato e lo respinsero sino al di là di quel castello. In tal modo la 4 a brigata, a cui si doveva l’onore principale del combattimento, venne liberata dalla nuvola nemica che l’aveva avvolta a lungo, e nel respingere i reiterati attacchi del 61° reggimento prussiano, combattendo corpo a corpo, riuscì a togliergli la bandiera rimasta sepolta sotto un mucchio di cadaveri.
Ho assistito a molte battaglie micidiali ma certo ho veduto poche volte un così gran numero di cadaveri ammonticchiati in un piccolo spazio, a nord di quell’edificio, come vidi in quella posizione occupata dalla 4a brigata e da parte della 5a: se parlo della 4a e della 5a a brigata opposte ad un reggimento prussiano, non si creda che fossero brigate complete, perché erano solo nuclei di brigate in formazione, contando la 4 a mille uomini e la 5 a meno di trecento.
Nelle prime ore della notte il nemico era in piena rotta. [...]
Non finirò il racconto della grande battaglia di Dijon senza menzionare il mio diletto amico e fratello d’armi, il generale Bosak. Questo eroe della Polonia il 21 gennaio mi avvisò dell’avanzata prussiana e alla testa di pochi uomini andò in ricognizione: si scontrò coraggiosamente con l’avanguardia nemica e piuttosto che fuggire trovò la morte.

[...]

RITIRATA - BORDEAUX - CAPRERA

La notizia prima dell’armistizio e poi della capitolazione di Parigi, e infine quella del trasferimento in Svizzera dell’esercito di Bourbaki, cambiarono tutta la situazione: panico ed incertezza s’impadronirono della popolazione, che aveva sperato in un miglioramento delle condizioni della Francia dopo i successi da noi ottenuti, ma nella maggior parte della gente l’effetto fu favorevole, confidando nella prossima fine della guerra.
Com’era sempre accaduto in Italia, avvicinandosi la fine il governo di difesa largheggiava con noi in mezzi di ogni tipo e in rinforzi per tutte le armi, ed il nostro piccolo esercito, a cui si erano aggregati quindicimila uomini dei battaglioni mobili del generale Pellissier, contava ora circa quarantamila effettivi. In ogni caso, il nemico, liberatosi dalla preoccupazione di Parigi e dell’esercito passato in Svizzera, ammassava su di noi forze imponenti, e, malgrado tutte le opere di difesa che avevamo realizzato e l’aumento del nostro numero, avrebbe finito per schiacciarci o per circondarci, come aveva fatto con gli eserciti francesi a Metz, a Sedan, a Parigi.
I prussiani, col loro straordinario vantaggio, facevano naturalmente la parte del lupo e mentre vi era l’armistizio a Parigi e in tutta la Francia, per noi non valeva.
Una delimitazione dei territori male impostata, che avrebbe dovuto attraversare la Borgogna, definiva malissimo il terreno neutro fra le linee nemiche e le nostre, ma comunque ci cacciava da Dijon e da tutte le posizioni occupate sino a quel momento, respingendoci a sud.
Facendo, ripeto, la parte del lupo, il nemico era tanto più insolente quanto più riceveva rinforzi, e ne riceveva molti ogni giorno: con un pretesto o con l’altro tentò varie volte di circondare i nostri avamposti e di farli prigionieri, cosa che però non gli riuscì, avendo a che fare con gente che non si fidava di lui.
Per ordine del governo di Bordeaux bisognava trattare coi prussiani per l’armistizio, la delimitazione dei confini, ecc., ed il generale Bourdon, Capo di Stato Maggiore, si recò varie volte al campo nemico per discutere a questo proposito; ma, come ho detto, il risultato fu che per noi non vi era armistizio.
Dal 23 gennaio al 1° febbraio tenemmo in qualche modo le posizioni di Dijon contro il nemico che incalzava: dopo le lezioni ricevute nei tre giorni di battaglia, esso certamente aveva capito che non bastavano poche forze per spaventarci e, di nascosto, ne accumulava molte; verso la fine di gennaio le colonne prussiane occupavano in forze tutto il fronte e cominciarono ad aggirarci sui fianchi, mentre l’esercito di Manteuffel, non più impegnato col nostro ad est, scendeva per la vallata del Rodano mettendo in pericolo la nostra linea di ritirata.
Il 31 gennaio fin dalla mattina si cominciò a combattere sulla nostra sinistra e si continuò fino a notte avanzata: il nemico saggiava vari punti, prendendo posizione fuori Dijon per l’attacco generale, ed alcuni corpi prussiani si mostravano lungo la valle della SaÛne, minacciando di prenderci alle spalle. Non c’era tempo da perdere: eravamo l’ultimo boccone che solleticava la bramosia dell’esercito vincitore della Francia, e senza dubbio esso voleva farci pagare la temerarietà di avergli contrastato per un momento la vittoria.
Fu ordinata la ritirata su tre colonne. [...] Il quartier generale viaggiò in treno e a Chagny fu stabilito il punto di raccolta di tutto l’esercito: anche vari altri corpi e compagnie di franchi tiratori distaccati dalle brigate si diressero verso la nuova base. Tutto fu eseguito col miglior ordine possibile grazie all’attività del Capo di Stato Maggiore, del comandante dell’artiglieria, colonnello Olivier, e dei comandanti dei corpi, senza essere infastiditi dal nemico e con una confusione minore di quella che ci si sarebbe aspettata da drappelli di reclute in ritirata notturna.
La ritirata ebbe luogo nella notte fra il 31 gennaio ed il 1° febbraio ed il nemico occupò Dijon verso le otto di mattina del 1°.
Da Chagny il quartier generale passò a Chalons-sur-SaÛne, poi a Courcelles, in un castello nelle vicinanze della città. Essendo ormai la capitolazione di Parigi un fatto compiuto, e riducendosi l’armistizio ad un preliminare di pace, io, eletto fra i deputati dell’Assemblea, l’8 febbraio decisi di recarmi a Bordeaux, dove quella si sarebbe riunita, con l’unico scopo di portare il mio voto all’infelice Repubblica, così lasciai provvisoriamente a Menotti il comando dell’esercito.
Tutti sanno come fui ricevuto dalla maggioranza dei deputati, e, certo di non poter fare più nulla per lo sventurato paese che ero venuto a servire nel momento del bisogno, mi recai a Marsiglia e di lì andai a Caprera, dove arrivai il 16 febbraio 1871.
L’esercito dei Vosges, composto da elementi troppo repubblicani, doveva naturalmente subire l’antipatia del governo Thiers. E fu sciolto.


Nota

A questo punto le Memorie s’interrompono, bruscamente. Garibaldi si sente vecchio, è seriamente ammalato, ma gli oltre dieci anni che gli restano da vivere non sono certo vuoti.
Francesca Armosino gli dà un altro figlio, Manlio, e questa presenza lo assorbe moltissimo, anche perché gli permette di essere quel padre affettuoso e pieno di premure che non aveva potuto essere negli anni passati, turbolenti e frenetici.
È più volte eletto deputato e presenta importanti progetti di legge: dall’emigrazione alla regimazione del Tevere, dal suffragio universale alla bonifica dell’Agro romano, all’istruzione obbligatoria. La classe politica del nuovo stato, però, è del tutto sorda ai suoi richiami e alle sue proposte, e Garibaldi è definitivamente disgustato dai governi, anche quelli espressione della sinistra, “
incapaci di far bene.”
L’amarezza di fronte a un’Italia che non è certo quella che lui aveva sognato s’intreccia con la frustrazione per il proprio stato di salute, sempre più precario, e con le crescenti preoccupazioni di ordine finanziario.
Anni difficili e penosi, dunque, solo in parte rasserenati da una situazione familiare al cui centro è il vecchio patriarca. Anni su cui Garibaldi tace, perché Caprera è il luogo del riposo e della dignità, non certo la terra su cui continuare la propria battaglia, e il vecchio combattente non vuole contaminare la narrazione di un’esistenza dedicata alla lotta con pagine dominate da analisi politiche o da resoconti di intrighi e trasformismi. Argomenti che pure Garibaldi affronta con la consueta decisione, e infatti sia nella redazione ufficiale che in altre edizioni delle Memorie si possono ritrovare alcuni di questi scritti: dalle riflessioni su questioni militari (Mentana, Aspromonte), alle lettere in cui espone il proprio pensiero sul socialismo e la democrazia, dagli appelli per il risanamento morale della patria a veri e propri interventi di attualità, fino al testamento politico e spirituale.
Sono scritti importanti, talvolta di notevole originalità, indispensabili per mettere a fuoco correttamente la complessa personalità di Garibaldi, e tuttavia ci sembra coerente rispettare la volontà dell’Autore, che ha voluto concludere il proprio racconto in modo sommesso e antiretorico
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