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 SECONDO PERIODO 1848 - 1859   VIAGGIO IN ITALIA  In sessantatre lasciammo le sponde del Plata per andare in Italia a combattere 
          la guerra di liberazione. In tutta la penisola c’erano vari segnali 
          di movimenti insurrezionali, ma in caso contrario eravamo ben decisi a 
          provocarli noi, sbarcando sulle coste della Toscana o dovunque la nostra 
          presenza fosse richiesta e necessaria.Grazie ai nostri risparmi ed al generoso patriottismo di alcuni conterranei 
          (tra cui G. Batta Capurro, Gianello, Della Zoppa, Massera, Giuseppe Avegno, 
          e soprattutto Stefano Antonini) potemmo noleggiare il brigantino Speranza: 
          andavamo a soddisfare il desiderio di tutta una vita: quelle armi degnamente 
          impugnate per difendere gli oppressi di altri paesi, volavamo ad offrirle 
          alla nostra vecchia patria! Quell’idea era il più grande 
          compenso per i pericoli, le difficoltà, le sofferenze, di un’intera 
          vita di affanni. [...]
 Si partì il 15 aprile 1848. Usciti dal porto di Montevideo con 
          una buona brezza, anche se il tempo non era favorevole, verso sera eravamo 
          tra la costa di Maldonado e l’isola di Lobos; la mattina dopo si 
          vedeva appena la sommità della Sierra de las animas e poi scomparve: 
          alla nostra vista si offrivano solo gli spazi dell’Atlantico, e 
          davanti la più bella e sublime delle aspirazioni: la liberazione 
          della patria.
 Sessantatre, tutti giovani, tutti pronti a combattere, tranne due: con 
          la salute assai compromessa per via delle tante lotte, Anzani era molto 
          debilitato, e Sacchi, gravemente ferito al ginocchio, aveva una gamba 
          che faceva spavento; la forza d’animo e le cure fraterne riuscirono 
          a portarlo in Italia non sano, ma almeno salvo, mentre per Anzani in patria 
          lo attendeva solo la sepoltura, accanto ai suoi familiari.
 Il nostro viaggio fu ottimo e breve, e l’ozio della navigazione 
          fu utilizzato proficuamente: i più colti insegnavano agli altri 
          e si facevano molti esercizi di ginnastica; un inno patriottico composto 
          dal nostro Coccelli era la preghiera di ogni sera: intonato da Coccelli, 
          era poi ripetuto da tutti, e con grande entusiasmo lo cantavamo in coro 
          sulla tolda della Speranza.
 Attraversammo l’Oceano senza notizie certe sull’Italia, sapendo 
          soltanto delle riforme promesse da Pio IX. L’approdo era stato fissato 
          in Toscana, indipendentemente da quale fosse stata la sua situazione politica, 
          e quindi non sapevamo se avremmo incontrato amici o combattuto nemici. 
          Una tappa a Santa Pola, in Spagna, modificò le nostre intenzioni 
          e fissammo come meta Nizza. La malattia di Anzani peggiorava ed i pochi 
          viveri andavano esaurendosi: bisognava approdare e fare provviste, e quando 
          giungemmo a Santa Pola il capitano Gazzolo, comandante della Speranza, 
          scese a terra; tornato a bordo ci diede delle notizie che avrebbero fatto 
          impazzire anche uomini meno entusiasti di noi: Palermo, Milano, Venezia, 
          e le cento città sorelle erano in rivolta, l’esercito piemontese 
          stava mettendo in fuga quello austriaco, tutta l’Italia rispondeva 
          come un sol uomo all’appello e mandava i suoi figli alla guerra 
          santa. Lascio immaginare l’effetto che produssero su di noi queste 
          notizie: correvamo sulla tolda abbracciandoci l’un l’altro, 
          fantasticando e piangendo di gioia! Anzani balzava in piedi malgrado le 
          sue pessime condizioni, Sacchi voleva a tutti i costi scendere dal letto 
          ed essere portato su in coperta.
 "Alla vela, alla vela!", era il grido di tutti, e non c’è 
          dubbio che se non si fosse partiti subito ci sarebbero stati dei disordini. 
          In un lampo l’ancora fu salpata ed il brigantino spiegò le 
          vele: il vento sembrava corrispondere alla nostra impazienza e in pochi 
          giorni costeggiammo la Spagna e la Francia, arrivando alla vista dell’Italia, 
          della terra promessa! Non eravamo più banditi, non eravamo più 
          obbligati a combattere per entrare in patria, e così scegliemmo 
          il primo porto italiano, Nizza, dove sbarcammo il 23 giugno 1848.
 Nei momenti più difficili della mia vita tempestosa avevo sempre 
          sperato in giorni migliori e lì a Nizza provavo una felicità 
          enorme, che nessuno avrebbe potuto desiderare più grande: davvero 
          troppa felicità, ed ebbi allora quasi il presentimento di sciagure 
          non lontane. Anita ed i bambini, partiti alcuni mesi prima, erano già 
          lì, insieme a mia madre, che amavo teneramente e che non vedevo 
          da quattordici anni; riabbracciavo cari parenti e amici preziosi, felici 
          di vedermi, tanto più in quei giorni fortunati. [...]
 Ormeggiato il brigantino e fatti sbarcare Anzani e Sacchi, scese a terra 
          tutta la nostra gente, ansiosa di camminare su terra italiana. Corsi ad 
          abbracciare i miei figli e colei che avevo così tanto afflitto 
          con la mia vita avventurosa. Povera mamma! Il mio più ardente desiderio 
          era certo quello di rendere sereni i tuoi ultimi giorni, e il tuo, naturalmente, 
          di vedermi tranquillo accanto a te: ma come si può sperare in un 
          periodo di quiete, in cui consolarti nella triste e sofferta vecchiaia, 
          in questa terra di preti e di ladri!
 I pochi giorni passati a Nizza furono una festa continua, ma sul Mincio 
          si combatteva e quell’ozio era per noi un delitto, mentre i nostri 
          fratelli si battevano contro lo straniero: così partimmo per Genova, 
          dove ci attendeva un’altra calorosa accoglienza. Per accelerare 
          il nostro arrivo, da là ci avevano mandato un vapore, che però 
          ci cercò inutilmente sulle coste della Liguria, perché le 
          correnti e i venti contrari ci avevano spinti verso la Corsica. Alla fine 
          arrivammo, e con noi alcuni giovani nizzardi che avevano voluto accompagnarci 
          con l’entusiasmo tipico della loro età e con la fiamma vitale 
          che allora ardeva in tutti gli italiani coraggiosi. Il popolo di Genova 
          ci accolse pieno di gioia e di affetto, le autorità con la freddezza 
          di chi non ha la coscienza a posto: le loro smorfie e perdite di tempo 
          erano il preludio del comportamento che avremmo tanto spesso trovato in 
          coloro che vivevano di compromessi e parlavano di libertà più 
          per paura del popolo che per intima convinzione.
 Anzani, che avevo lasciato a casa di mia madre, impaziente e spinto dal 
          suo genio di fuoco, si era imbarcato sul vapore e ci aveva preceduti a 
          Genova, ad onta della spossatezza a cui lo aveva ridotto la sua malattia 
          mortale.
 Qui comincia l’ostracismo a cui mi condannarono gli amici di Mazzini 
          (1848) e che continua ancora oggi (1872), più duro che mai: il 
          pretesto fu certamente che io ed i miei compagni volevamo marciare subito 
          verso il campo di battaglia, sul Mincio e nel Tirolo: e tutto perché 
          a fronteggiare gli austriaci era un esercito regio. E si badi che quelli 
          che allora tormentavano il povero Anzani affinché mi facesse cambiare 
          idea, sono gli stessi che oggi formano il gruppo dei servi più 
          fedeli della monarchia! Quando udii il mio amato fratello d’armi, 
          compagno di tante battaglie, raccomandarmi di "non abbandonare la 
          causa del popolo", confesso che rimasi profondamente amareggiato, 
          forse più di quanto non lo sia oggi nel sentirmi chiedere di "dichiararmi 
          apertamente repubblicano."
 Nella casa dell’amico Gaetano Gallino, in pochi giorni quel grande 
          italiano morì, e per lui l’Italia intera avrebbe dovuto vestirsi 
          a lutto; se, per fortuna nostra, ci fosse stato lui alla guida del nostro 
          esercito, da molto la penisola sarebbe libera da qualsiasi dominatore. 
          Sicuramente non ho mai conosciuto uomo più corretto, onesto, ed 
          esperto di cose militari, di Anzani. La salma dell’illustre soldato 
          attraversò senza clamori la Liguria e la Lombardia per essere sepolta 
          nella tomba dei suoi padri, ad Alzate, dov’era nato.
 A 
          MILANO  La nostra idea, quando lasciammo l’America, era di servire l’Italia 
          e di combattere i suoi nemici, qualunque fosse l’orientamento politico 
          di chi avrebbe guidato il paese verso la libertà. La maggioranza 
          dei concittadini aveva la stessa opinione, ed io dovevo unire il mio piccolo 
          contingente a chi combatteva la guerra santa: era Carlo Alberto il condottiero 
          di chi lottava per l’Italia, ed io mi dirigevo a Roverbella, al 
          quartier generale, per offrire senza rancore il mio braccio e quello dei 
          miei compagni a colui che mi aveva condannato a morte nel ‘34.Lo vidi e avvertii tutta la sua diffidenza; e deplorai che il destino 
          della nostra povera patria fosse nelle indecisioni e nei dubbi di quell’uomo. 
          Io avrei servito l’Italia del re come se fosse stata repubblicana, 
          con lo stesso slancio, e avrei trascinato con me tutta la gioventù 
          che si fidava di me.
 Rendere l’Italia unita e libera dal mortale straniero, questo era 
          il mio scopo, e credo che allora lo fosse della maggior parte delle persone. 
          L’Italia non avrebbe trattato con ingratitudine chi la liberava.
 Non solleverò la lapide di quel defunto per criticare il suo contegno: 
          lascio che sia la storia a giudicare. Dirò soltanto che egli, chiamato 
          dal suo ruolo, dalle circostanze e dall’insieme degli italiani, 
          a guidare la liberazione, non meritò la fiducia riposta in lui: 
          non solo non seppe servirsi dei grandi mezzi di cui disponeva, ma fu la 
          principale causa del loro disastro.
 Da Genova marciavamo verso Milano, consapevoli dell’opinione generalmente 
          diffusa, e quindi senz’altro accreditata dai nemici, che cioè 
          l’azione dei corpi volontari fosse inutile e dannosa: andavo da 
          Genova a Roverbella, da lì a Torino, e quindi a Milano, senza poter 
          ottenere di servire il mio paese, senza alcun incarico. Casati, capo del 
          governo provvisorio di Milano, fu l’unico che ritenne di avvalersi 
          di noi, e ci aggregò all’esercito lombardo: così, 
          stabilendomi a Milano, terminai i miei vagabondaggi. Il governo provvisorio 
          m’incaricò di organizzare i vari corpi, associandovi anche 
          i miei compagni d’America, e le cose non sarebbero andate male senza 
          l’ingerenza malefica di un ministro regio, Sobrero, le cui sordide 
          manovre mi disgustano ancora. [...]
 La febbre da cui ero stato colpito nel viaggio a Roverbella e gli incontri 
          con Sobrero, che fra le varie antipatie aveva quella per la camicia rossa, 
          sostenendo che era un ottimo bersaglio per i nemici, mi resero insopportabile 
          il soggiorno nella bella e patriottica città delle cinque giornate, 
          e respirai di sollievo il giorno in cui lasciai la capitale della Lombardia 
          diretto a Bergamo con un pugno di uomini senza mezzi e male armati: ancora 
          una volta avevo un compito organizzativo, incarico assai poco indicato 
          per il mio carattere e le mie scarse cognizioni di teoria militare. È 
          da notare che i miei uomini erano per la maggior parte riserve o scarti 
          dei corpi volontari che operavano nel Tirolo, impigriti dal lungo soggiorno 
          nella capitale. La permanenza a Bergamo fu brevissima: stavamo approntando 
          le prime misure di difesa e cercavamo con tutti i mezzi di arruolare uomini, 
          inviando i reclutatori nelle valli e fra le montagne per aggregarne i 
          robusti abitanti, e ciò soprattutto tramite gli insostituibili 
          Davide e Camuzzi, che avevano un grande ascendente ma le cui fatiche furono 
          annullate dall’improvvisa partenza; un ordine perentorio, infatti, 
          ci richiamò a Milano per raggiungere il grosso dell’esercito 
          in ritirata e prendere parte alla battaglia che ci sarebbe stata vicino 
          alla città, a qualsiasi condizione: finalmente era venuto il momento 
          di combattere e non c’era tempo da perdere. [...]
 Lasciati a Tricate i bagagli e i sacchi per poter marciare più 
          in fretta, vicino a Monza ci venne ordinato di operare sulla destra e 
          stavamo preparandoci inviando esploratori a cavallo per conoscere posizioni 
          e intendimenti del nemico: ma, arrivati in città, insieme a noi 
          arrivò anche la notizia della capitolazione, dell’armistizio, 
          e fiumi di fuggitivi non tardarono a intasare le strade. Armistizio, capitolazione, 
          fuga: una dopo l’altra queste notizie ci colpirono come un fulmine, 
          mentre paura e demoralizzazione si diffondevano tra la popolazione, fra 
          i soldati, ovunque. Alcuni vigliacchi che purtroppo si trovavano coi miei 
          abbandonarono i fucili sulla stessa piazza di Monza e scapparono in tutte 
          le direzioni: i veri soldati, incolleriti e scandalizzati per quest’infamia, 
          spianarono le armi per fucilarli, ma per fortuna io e gli ufficiali riuscimmo 
          a prevenire la strage e ad evitare il caos; punimmo alcuni fuggitivi, 
          gli altri furono degradati e cacciati. [...]
 La situazione mi spinse ad abbandonare quel teatro di sciagure e a dirigermi 
          verso Como, con l’intenzione di fermarmi lì ad aspettare 
          gli eventi, deciso a portare avanti la guerriglia, se altro non si poteva 
          fare. Durante il tragitto comparve Mazzini con la sua bandiera "Dio 
          e popolo". Si unì a noi fino a Como e da lì passò 
          in Svizzera, mentre io mi preparavo alla guerra per bande sui monti comaschi; 
          molti suoi seguaci, o supposti tali, lo seguirono in terra straniera e 
          ciò naturalmente spinse altri ancora ad abbandonarci, assottigliando 
          ancor di più le nostre file. A Milano avevo commesso l’errore, 
          che Mazzini non mi ha mai perdonato, di dirgli che non era una buona cosa 
          trattenere tanti giovani con la promessa di proclamare la repubblica, 
          mentre esercito e volontari combattevano contro gli austriaci.
 A Como trovammo più ordine, ma non meno sgomento per quanto era 
          successo a Milano e per la sconfitta militare.
 [...] NELLO 
          STATO ROMANO ED ARRIVO A ROMA  La fine di Rossi fece capire ai governanti di Roma che non si potevano 
          più calpestare impunemente i diritti e la volontà di una 
          nazione: al governo furono chiamati personaggi meno impopolari e ci fu 
          concesso di restare nel territorio pontificio; ciò non diminuì 
          la diffidenza nei nostri confronti e, quantunque fossimo aggregati all’esercito 
          romano, si provvedeva con ritardo ai nostri bisogni, soprattutto per quanto 
          riguardava l’armamento ed i cappotti, quest’ultimi indispensabili 
          con l’inverno alle porte.A Ravenna erano arrivati quelli che venivano da Mantova, Masina si era 
          unito a noi con la sua esigua ma bella cavalleria: eravamo circa quattrocento, 
          non tutti armati, la maggior parte senza uniformi e malvestiti. Il municipio 
          di Ravenna, dal quale eravamo mantenuti, mi lasciò capire che sarebbe 
          stato meglio suddividere tale onere anche fra altre città, cambiando 
          periodicamente sede di permanenza, e così facemmo, lasciando dopo 
          venti giorni quella gente simpatica e generosa. [...]
 Ho constatato come i ravennati siano di poche parole, ma molto concreti, 
          e quindi penso che sia vero un episodio che mi hanno detto essere accaduto 
          nella loro città: un pomeriggio tra la folla venne individuata 
          una spia e qualcuno gli tirò una fucilata; il feritore non fuggì 
          ma se ne andò tranquillamente, perché non ci sarebbe stato 
          qualcun altro a fare da spia, cosicché il cadavere rimase un esempio 
          per tutti. Dopo Ravenna soggiornammo in varie città romagnole, 
          ben accolti dagli abitanti e mantenuti dai municipi; a Cesena lasciai 
          i miei e mi diressi a Roma per incontrarmi col Ministro della Guerra, 
          al fine di sistemare la nostra situazione: seppi allora della fuga del 
          papa e col ministro Campello si stabilì che la Legione italiana 
          (questo era il nome del corpo che comandai in America e in Italia) avrebbe 
          fatto parte dell’esercito romano e sarebbe partita per Roma per 
          finire di equipaggiarsi. Scrissi quindi al maggiore Marrocchetti, lasciato 
          al comando del corpo, che procedesse e gli andai incontro: ci trovammo 
          a Foligno, e ricevetti l’ordine di raggiungere Fermo e presidiare 
          la zona, che peraltro nessuno minacciava. Era la prova che i nuovi governanti 
          continuavano a non fidarsi di noi e a volerci tenere lontano da Roma. 
          [...]
 A nulla valsero le mie rimostranze sul fatto che non avevamo il vestiario 
          indispensabile per attraversare gli Appennini coperti di neve e dovemmo 
          per forza tornare indietro, ripassare il Colfiorito e andare a Fermo. 
          Naturalmente capivo bene che l’intenzione del governo era di allontanarci 
          dalla capitale, per evitare il contatto fra il nostro gruppo, ritenuto 
          rivoluzionario, ed una popolazione ormai decisa a far valere i propri 
          diritti: opinione confermata dall’ingiunzione del ministero di non 
          far superare alla legione l’organico di 500.
 A Roma dominava lo stesso orientamento che aveva retto prima Milano ed 
          ora Firenze: l’Italia non aveva bisogno di soldati, ma di oratori 
          e diplomatici, dei quali si poteva dire quanto diceva Alfieri degli aristocratici: 
          "Or superbi, or umili, infami sempre." E di tali oratori il 
          nostro paese non è mai stato carente. Il dispotismo aveva temporaneamente 
          lasciato il posto ai chiacchieroni, per imbrogliare ed addormentare il 
          popolo, con la certezza che tali pappagalli avrebbero aperto la strada 
          alla tremenda reazione che si andava preparando in tutta la penisola.
 Per la terza volta, dunque, attraversavamo l’Appennino, coi miei 
          compagni ancora sprovvisti di un cappotto in quel rigido dicembre 1848, 
          e tra le disgrazie che infierirono su di noi, e sul nostro povero paese, 
          non furono tra le minori le calunnie del clero; il suo veleno, nascosto 
          come quello di un rettile, si era diffuso tra la gente ignorante e ci 
          aveva dipinto con i colori più terribili: secondo i negromanti 
          eravamo persone capaci d’ogni specie di violenze, sulle proprietà 
          e sulle persone, scapestrati senza ombra di disciplina, e perciò 
          eravamo temuti come lupi o assassini. Quest’idea però si 
          era sempre modificata alla vista dei nostri giovani, belli e gentili, 
          quasi tutti istruiti e di città: è noto che nei corpi volontari 
          che ho avuto l’onore di comandare in Italia l’elemento contadino 
          è sempre mancato, a causa dei preti, ministri della menzogna, e 
          che i miei soldati appartenevano quasi tutti a distinte famiglie delle 
          diverse zone italiane. È vero che tra i miei uomini non mancarono 
          mai anche alcuni mascalzoni, infiltratisi di nascosto o mandati apposta 
          dalla polizia o dai preti per provocare disordini e delitti e screditarci, 
          ma questi malfattori venivano smascherati dagli stessi volontari, preoccupati 
          per l’onore della legione.
 Nel passaggio dalla Romagna all’Umbria i maceratesi, preoccupati 
          per il nostro arrivo, ci avevano avvertito che avrebbero chiuso le porte 
          della città, ma al ritorno, cioè durante la marcia verso 
          Fermo, informati meglio e pentiti della loro ingiusta decisione, mi avvisarono 
          che desideravano la nostra presenza per dimostrarci come la volta precedente 
          erano stati ingannati. La traversata degli Appennini fu durissima e tutti 
          soffrirono molto, ma l’accoglienza ricevuta a Macerata fu una festa 
          che ci risarcì di tutte le pene sofferte: grazie alla buona volontà 
          della gente e agli aiuti delle autorità si riuscì quasi 
          del tutto a fornire gli uomini di vestiario. [...]
 In quei giorni si procedette anche all’elezione dei deputati alla 
          Costituente ed i nostri soldati furono chiamati al voto. I deputati alla 
          Costituente! Fu uno spettacolo straordinario quello dei figli di Roma 
          chiamati nuovamente ai Comizi dopo secoli di schiavitù e di afflizione, 
          sotto il giogo odioso dell’impero e sotto quello, ancora più 
          infame, della teocrazia papale! Senza tumulti, senza altra passione che 
          quella per la libertà della patria redenta! Senza venalità, 
          senza prefetti o sbirri che limitassero il libero voto, si svolse la sacra 
          funzione del plebiscito, e non vi fu un solo caso di voto comprato, di 
          un cittadino che si prostituisse ai potenti. [...]
 Abbi speranza, Italia! E nel periodo di sofferenze in cui ti hanno vigliaccamente 
          tenuta e ancora ti tengono i prepotenti stranieri ed i ladri nazionali, 
          non perderti d’animo: non è tutta morta la bella gioventù 
          che ti onorava sulle barricate di Brescia, Milano, Casale, sul ponte del 
          Mincio, sui baluardi di Venezia, di Bologna, di Ancona, di Palermo, per 
          le strade di Napoli, Messina, Livorno, là sul Gianicolo e nel Foro 
          della vecchia capitale del mondo! Quella gioventù è sparsa 
          in tutto il mondo, da un emisfero all’altro, ma col cuore vibrante 
          di un amore che non ha eguali, per te e per quella tua rinascita che i 
          freddi speculatori e i mercanti del tuo sangue non capiscono e non capiranno 
          mai fino al giorno in cui verranno spazzate via le porcherie che ti hanno 
          disonorata! Non perderti d’animo. Quella gioventù oggi bruciata 
          dal sole di tante battaglie ricomparirà nell’avanguardia 
          delle nuove generazioni cresciute nell’odio e nelle fucilate da 
          parte dei preti e dello straniero, rinvigorite dal ricordo di tanti oltraggi 
          e dal desiderio di vendetta per le troppe sofferenze subite nel carcere 
          e nell’esilio. [...]
 Nessuno può sapere quanto durerà la degradazione in cui 
          sei sprofondata, Italia! Ma tutti sanno che non è lontana l’ora 
        solenne del tuo risorgimento!
 PROCLAMAZIONE 
          DELLA REPUBBLICA E MARCIA SU ROMA  Restammo a Macerata sino alla fine di gennaio, poi partimmo per Rieti 
          con l’ordine di difendere la città: la legione si mise in 
          cammino per il Colfiorito ed io per Ascoli e la Valle del Tronto, con 
          tre compagni, per costeggiare ed osservare la frontiera napoletana. Attraversammo 
          gli Appennini sulle alture scoscese della Sibilla: infuriava la neve e 
          fui assalito dai dolori reumatici, che mi rovinarono tutto quel bel viaggio. 
          Incontrai le forti popolazioni della montagna e dovunque fummo accolti 
          calorosamente, festeggiati e scortati con entusiasmo: i dirupi echeggiavano 
          degli evviva alla libertà italiana, ma da lì a pochi giorni 
          quell’energico popolo, corrotto e istigato dai preti, si sarebbe 
          sollevato contro la Repubblica romana con le armi fornite dai neri traditori.Arrivai a Rieti, dove completammo la fornitura di vestiario per i soldati, 
          mentre fu impossibile ottenere i fucili necessari per ultimare l’armamento: 
          dato che era inutile insistere con questa richiesta decisi di far fabbricare 
          delle lance da fornire ai disarmati. [...] Il numero degli uomini aumentava 
          e ci si organizzava alla meglio, ma il governo di Roma non voleva, e come 
          ci avevano intimato di non superare i 500 ora ci proibiva di oltrepassare 
          i 1.000: così, avendone già di più, fui costretto 
          a ridurre la già misera paga, compresa quella degli ufficiali, 
          in modo da poter pagare tutti, ma non si levò una sola protesta 
          tra i miei prodi fratelli d’armi. Si approfittò della sosta 
          a Rieti per provvedere all’addestramento dei legionari e si presero 
          alcune misure di difesa lungo la frontiera, per contrastare le manovre 
          del Borbone, già dichiaratosi apertamente contro la libertà 
          italiana.
 Eletto deputato dai maceratesi, fui chiamato a Roma per far parte dell’Assemblea 
          Costituente e l’8 febbraio 1849, alle undici di sera, ebbi la fortuna 
          di essere fra coloro che per primi proclamarono quasi all’unanimità 
          quella Repubblica di gloriosa memoria, e che presto sarebbe stata schiacciata 
          dal gesuitismo collegato come sempre all’aristocrazia europea. Colpito 
          da un forte attacco reumatico fui trasportato a spalla dal mio aiutante 
          Bueno nelle sale dell’assemblea romana. [...]
 Assistevo alla rinascita del gigante delle repubbliche! Nel teatro delle 
          maggiori grandezze del mondo, nell’Urbe! Che speranze, che avvenire! 
          Non erano sogni, dunque, quella massa di idee e di profezie che avevo 
          coltivato nella mente fin dall’infanzia, e a diciotto anni quando 
          per la prima volta vagai fra le rovine dei superbi monumenti della Città 
          eterna; quelle speranze di rinascita della patria che mi accompagnarono 
          nelle foreste americane e negli oceani in tempesta, che mi guidarono nel 
          compiere il mio dovere verso i popoli oppressi e sofferenti!
 Liberamente, nella stessa aula in cui si riunivano i vecchi tribuni della 
          Roma dei Grandi, eravamo riuniti noi, forse non indegni dei nostri antichi 
          padri se guidati da quella stessa ispirazione che li animò in modo 
          straordinario! E la fatidica parola "Repubblica" risuonava nell’angusta 
          aula come il giorno in cui i re ne vennero cacciati per sempre! [...]
 Tornato a Rieti, verso la fine di marzo ebbi l’ordine di marciare 
          con la legione fino ad Anagni, e ad aprile venimmo a sapere che i francesi 
          erano a Civitavecchia: avevano occupato una città che si poteva 
          difendere, se non fosse stato per il tradimento e per la viltà, 
          ed era chiaro il loro proposito di marciare su Roma. In quel periodo era 
          giunto a Roma il generale Avezzana ed assunse l’incarico di Ministro 
          della Guerra: non lo conoscevo personalmente, ma lo stimavo per quello 
          che avevo sentito sul suo carattere e sulla sua attività militare 
          in Spagna ed in America, e il suo nuovo incarico mi riempì di speranze. 
          E non mi sbagliai, perché non tardò ad arrivare l’ordine 
          di partire per Roma, minacciata dai soldati di Bonaparte.
 Inutile dire se si marciava volentieri alla difesa della storica città. 
          La legione era di circa 1200 uomini, ed eravamo partiti da Genova in 60: 
          è vero che avevamo percorso buona parte dell’Italia, ma occorre 
          considerare che ovunque eravamo stati respinti dai governi e calunniati 
          come sanno calunniare solo i preti, e che eravamo quasi sempre senza armi, 
          tutte condizioni che demoralizzavano i volontari e ne ostacolavano l’organizzazione; 
          fra tante difficoltà potevamo quindi essere soddisfatti del numero 
          raggiunto. Arrivati a Roma ci stabilimmo a S. Silvestro, un convento di 
          monache abbandonato.
 DIFESA 
          DI ROMA  [...] Il giorno successivo ci venne ordinato di accamparci sulla piazza 
          del Vaticano e di difendere le mura da Porta S. Pancrazio a Porta Portese: 
          l’arrivo dei francesi era imminente e dovevamo prepararci a riceverli. 
          Il 30 aprile doveva illuminare di gloria i giovani e inesperti difensori 
          di Roma e vedere la fuga vergognosa dei soldati del clero e della reazione. Il sistema di difesa organizzato dal generale Avezzana era degno di quel 
          veterano: instancabile, aveva provveduto a tutto e andava ovunque poteva 
          essere utile la sua presenza. Incaricato della difesa da S. Pancrazio 
          a Portese, avevo sistemato al suo esterno degli avamposti, approfittando 
          della posizione dominante di Villa Corsini (Quattro venti), del palazzo 
          del Vascello, e di altri punti strategici: osservando le imponenti posizioni 
          di quegli edifici era facile dedurre che non bisognava permettere il loro 
          controllo da parte del nemico e che, una volta perduti, la difesa di Roma 
          sarebbe risultata impossibile.
 Nella notte precedente il 30 aprile non solo mandai degli esploratori 
          lungo le due strade che conducevano alle porte, ma ordinai che due piccoli 
          distaccamenti si appostassero lungo quelle strade in modo da prendere 
          prigionieri alcuni esploratori nemici. All’alba avevo davanti a 
          me, in ginocchio, un soldato della cavalleria nemica che mi chiedeva salva 
          la vita: confesso che per quanto fosse poco importante aver fatto un prigioniero, 
          me ne rallegrai e lo considerai un buon segno, come fosse la Francia stessa 
          inginocchiata, a chiedere perdono per la condotta indegna dei suoi governanti. 
          Quest’uomo era stato catturato con abilità e sangue freddo 
          dal reparto comandato dal giovane nizzardo Ricchieri: una squadra di esploratori 
          nemici era stata messa in fuga e i fuggitivi, benché superiori 
          di numero, avevano abbandonato anche alcune armi. Sapendo dell’avvicinarsi 
          del nemico, è sempre utile tendere delle imboscate lungo le strade 
          che questo deve percorrere, perché ci sono due vantaggi quasi certi: 
          il primo è sapere dov’è la testa della colonna nemica, 
          il secondo di prendere dei prigionieri.
 Intanto dalle alture di Roma veniva avvistato l’esercito francese, 
          che si avvicinava lentamente e con attenzione: marciava in colonna sulla 
          strada che da Civitavecchia arriva a Porta Cavalleggeri, e giunto a tiro 
          di cannone sistemò alcuni pezzi in posizione dominante, dispiegando 
          alcuni corpi che partirono all’assalto delle mura.
 Era pieno di arroganza il modo in cui il generale nemico decise di attaccare: 
          Don Chisciotte contro i mulini a vento, attaccò come se non vi 
          fossero state difese o se queste fossero tenute da bambini; per sbaragliare 
          quattro brigands d’Italiens il generale Oudinot, figlio di un maresciallo 
          del primo impero, non aveva nemmeno ritenuto di doversi procurare una 
          cartina di Roma e si accorse in fretta che c’erano degli uomini 
          che difendevano la loro città e che si chiamavano repubblicani: 
          questi valorosi, dopo aver lasciato con molta calma che i nemici si avvicinassero, 
          li fulminarono coi moschetti e i cannoni e ne lasciarono sul terreno parecchi.
 Dall’alto dei Quattro Venti avevo osservato l’attacco e l’accoglienza 
          preparata dai nostri a porta Cavalleggeri e sulle mura attigue: pensai 
          che non era disprezzabile l’idea attaccare il nemico sulla destra 
          e le due compagnie che inviai portarono lo scompiglio fra i nemici; ma 
          erano troppo inferiori di numero e furono costrette a ripiegare verso 
          il gruppo di ville che ho già menzionate, chiamate Casini. [...] 
          Giunti nei pressi di queste postazioni, i francesi furono accolti dal 
          fuoco incrociato e si ripararono sfruttando le asperità del terreno 
          e dietro i muri delle ville, sparando a più non posso. Il combattimento 
          durò a lungo, ma avendo ricevuto rinforzi caricammo energicamente, 
          facendo progressivamente perdere terreno al nemico: la vittoria fu agevolata 
          dal cannone sulle mura e da una sortita da Porta Cavalleggeri e i francesi 
          furono costretti a ritirarsi precipitosamente e allo sbando, fermandosi 
          solo a Castel Guido e lasciando molti morti e varie centinaia di prigionieri. 
          [...]
 Questa prima battaglia contro truppe ben addestrate alzò notevolmente 
          il morale dei nostri e nei giorni seguenti se ne ebbe conferma. L’indomani 
          mi fu ordinato di tenere sotto osservazione i francesi e con la legione 
          ed una parte della cavalleria mi diressi verso Castel Guido, dove ci fermammo 
          a studiare la situazione, finché nel pomeriggio non arrivò 
          un medico francese per parlamentare: lo feci quindi scortare alla sede 
          del governo. Il generale Oudinot, non sentendosi sufficientemente forte 
          per proseguire l’assedio, cercava di temporeggiare con trattative 
          diplomatiche in attesa che gli arrivassero rinforzi dalla Francia: approfittando 
          di questa debolezza e della sua esitazione, avremmo potuto ricacciarlo 
          in mare, e poi avremmo fatto i conti.
 In maggio ebbero luogo gli scontri di Palestrina e di Velletri, dove la 
          legione si ricoprì di gloria. I soldati del regno di Napoli, che 
          da tempo erano entrati nel territorio romano insieme a francesi, austriaci 
          e spagnoli, attaccarono a Palestrina ma furono respinti: nella battaglia 
          si distinsero Manara coi suoi bersaglieri, Zambianchi, Marrocchetti, Masina, 
          Bixio, Daverio, Sacchi, Coccelli, ecc. A Velletri, dove il comandante 
          era il generale Roselli, la battaglia fu molto più dura, dato che 
          c’era il re di Napoli in persona con tutto il grosso dell’esercito, 
          mentre noi si era in circa ottomila, di ogni arma.
 Partiti da Roma per prendere alle spalle l’esercito napoletano, 
          facemmo la strada da Zagarolo a Monte Fortino: Roselli mi aveva assegnato 
          il comando di tutto il corpo di battaglia, ma dato che l’avanguardia 
          era composta da Marrocchetti con la legione italiana, a me particolarmente 
          affezionata sin dalla sua creazione e composta per la maggior parte dai 
          miei vecchi compagni, mi unii ad essa nella marcia, raccogliendo dagli 
          abitanti di quei luoghi notizie sui napoletani, che poi trasmettevo al 
          quartier generale; da quanto venni a sapere dedussi che il nemico stava 
          per ritirarsi e non mi sbagliai. Giunto sulle alture che dominano Velletri, 
          vicino a Monte Fortino, diedi l’alt e feci schierare la legione 
          ai lati della strada che conduceva a Velletri; il terzo reggimento di 
          linea, che pure faceva parte dell’avanguardia, rimase in colonna 
          come riserva, con alcune compagnie disseminate nelle vigne circostanti 
          la strada; due pezzi di artiglieria furono collocati dietro al terzo reggimento, 
          in posizione dominante e adatta a tenere sotto tiro la strada; una parte 
          della cavalleria di Masina andò avanti in esplorazione mentre il 
          resto rimase di riserva.
 Il nemico aveva convogliato sulla via Appia, in direzione di Napoli, le 
          salmerie ed il grosso dell’artiglieria, ma avendo ancora gran parte 
          delle proprie truppe a Velletri e sapendo del numero assai inferiore di 
          chi lo fronteggiava, volle almeno tentare un contatto: verso di noi avanzò 
          quindi una colonna, con la copertura di tiratori appostati nelle vigne, 
          attaccò i nostri avamposti e li cacciò indietro con furia, 
          rovesciandosi sul resto dello schieramento; una loro avanguardia di cavalleria 
          aveva sorpreso lungo la strada alcuni nostri cavalleggeri che erano lì 
          in qualità di esploratori, e per aiutarli inviai la riserva a cavallo: 
          questa riuscì abilmente a respingere gli avversari, ma, giunta 
          sul ciglio della collina, si trovò di fronte la colonna principale 
          che avanzava e naturalmente dovette ripiegare, inseguita a sua volta dai 
          borbonici. I nostri cavalli erano per lo più giovani e non ancora 
          ben addestrati, e quindi si precipitarono a tutta velocità: non 
          mi sembrò uno spettacolo dignitoso, al cospetto di tanti amici 
          e nemici, e così commisi l’imprudenza, assieme ad alcuni 
          miei aiutanti ed al mio coraggioso aiutante nero, Andrea Aguyar, di mettermi 
          in mezzo per frenare la corsa dei nostri.
 In un attimo ci fu un mucchio di uomini e di animali rovesciati, perché 
          i nostri in fuga non riuscirono a frenare e ci vennero violentemente addosso: 
          si formò un groviglio che ingombrava tutta la strada, i nemici 
          ci attaccarono alla sciabola e riuscimmo a salvarci approfittando della 
          confusione; subito dopo i legionari schierati lì intorno caricarono 
          energicamente e respinsero il nemico, togliendoci da quella situazione 
          imbarazzante. Una compagnia di ragazzi, vedendomi a terra, si scagliò 
          furibonda contro i napoletani e credo di essermi salvato proprio per merito 
          di quei coraggiosi, perché, rimasto schiacciato da cavalli e cavalieri, 
          ero così malconcio da non potermi muovere; rialzatomi a fatica 
          mi tastai il corpo per vedere se c’era qualcosa di rotto. La carica 
          guidata da Masina e Daverio fu condotta con tale impeto che per poco i 
          nostri non entrarono a Velletri insieme ai nemici in fuga.
 A quel punto, più vicini alla città, ebbi la conferma che 
          il nemico intendeva ritirarsi: oltre alle informazioni raccolte in precedenza, 
          ora potevo vedere chiaramente la cavalleria ordinata in scaglioni al di 
          là di Velletri, cioè lungo la strada della ritirata. Nel 
          frattempo inviavo rapporti dettagliati al quartier generale, ma sfortunatamente 
          il grosso del nostro esercito era lontano, bloccato a Zagarolo dove attendeva 
          invano i rifornimenti da Roma; viceversa io avevo fatto mangiare la mia 
          gente cammin facendo, macellando dei buoi trovati in abbondanza nelle 
          ricche tenute dei cardinali.
 Finalmente, verso le quattro del pomeriggio, arrivarono il comandante 
          in capo e le prime colonne, e mi sforzai a lungo, ma inutilmente, di convincerlo 
          che il nemico intendeva ritirarsi: Roselli ordinò un breve attacco 
          e poi diede le disposizioni necessarie per l’offensiva della mattina 
          seguente, ma il nemico scelse giustamente di non attendere le nostre decisioni 
          e sgombrò Velletri nella notte, facendo togliere le scarpe ai soldati 
          e fasciando le ruote dei cannoni per potersi ritirare in maggior silenzio.
 All’alba si seppe che la città era deserta e dalle alture 
          si poteva vedere il nemico ritirarsi velocemente sull’Appia, verso 
          Terracina e Napoli. Il grosso del nostro esercito tornò a Roma 
          ed io ebbi l’ordine di entrare nello Stato napoletano lungo il percorso 
          Anangni, Frosinone, Ceprano e Rocca d’Arce, dove giunsi con l’avanguardia 
          di bersaglieri di Manara; il reggimento di Masi, con la legione e una 
          parte della cavalleria, tenevano la situazione sotto controllo. Il prode 
          colonnello Manara inseguì il generale Viale, che guidava un corpo 
          nemico e non si fermò un istante per individuare chi lo inseguiva; 
          a Rocca d’Arce arrivarono varie delegazioni dei paesi vicini, salutandoci 
          come liberatori e sollecitando l’invasione del regno, dove avremmo 
          incontrato la simpatia e l’appoggio di tutti.
 Ci sono dei momenti decisivi nella vita di un popolo, come in quella dei 
          singoli, e questo era appunto un momento solenne e decisivo. Ci voleva 
          un’ispirazione.
 Mi preparavo a proseguire verso S. Germano, dove saremmo arrivati facilmente 
          e senza ostacoli: era il cuore degli stati borbonici, alle spalle degli 
          Abruzzi, le cui intrepide popolazioni erano assai ben disposte a unirsi 
          a noi. Il favore della gente, la demoralizzazione dell’esercito 
          nemico, battuto due volte e sull’orlo di sfaldarsi, dato che i soldati 
          volevano tornarsene a casa, l’ardore dei miei giovani soldati, vittoriosi 
          in tutte le battaglie sostenute e quindi disposti a battersi come leoni 
          senza preoccuparsi del numero dei nemici, la Sicilia non ancora piegata 
          e rincuorata dalle sconfitte dei suoi oppressori, tutto lasciava pensare 
          a buone possibilità di successo se ci fossimo spinti avanti. Ma 
          ecco che un ordine del governo ci richiama a Roma, minacciata nuovamente 
          dai francesi: per compensare tale atto debole, intempestivo e sbagliato, 
          mi si lasciava libero, sulla via del ritorno, di costeggiare gli Abruzzi!
 Se chi nel 1848 mi diceva di passare il Ticino dopo la capitolazione di 
          Milano e non solo mi tratteneva i volontari in Svizzera ma li spingeva 
          a disertare, anche dopo la vittoria di Luino, e mi faceva dire da Medici 
          che avrebbero fatto meglio!; se chi mi faceva marciare e vincere a Palestrina; 
          se chi, non so per quale motivo, mi faceva andare a Velletri agli ordini 
          di Roselli; se Mazzini, insomma, il cui voto era decisivo nel Triumvirato, 
          avesse voluto capire che anch’io m’intendevo un po’ 
          di guerra e avesse lasciato che il comandante in capo m’incaricasse 
          solo dell’impresa secondaria, come era accaduto per la prima, cioè 
          dell’invasione dello Stato napoletano, il cui esercito sconfitto 
          non avrebbe retto e le cui popolazioni ci aspettavano a braccia aperte: 
          come sarebbero cambiate le cose! Che avvenire avrebbe avuto l’Italia, 
          non ancora abbattuta dall’invasione straniera!
 Invece egli convoca tutte le forze dello Stato, dalla frontiera borbonica 
          a Bologna e le concentra su Roma per offrirle come un sol boccone al tiranno 
          della Senna, il quale, se non gli fossero bastati i quarantamila uomini, 
          ne avrebbe mandati anche centomila per annientarci in un colpo solo. Chi 
          conosce Roma e le sue diciotto miglia di mura, sa perfettamente che non 
          è possibile difenderla con poche forze da un esercito superiore 
          in numero e in mezzi com’era quello francese nel 1849.
 Per la difesa della capitale non bisognava impiegare tutte le forze dell’esercito 
          repubblicano, ma distribuirne la maggior parte nelle varie posizioni inespugnabili 
          di cui abbonda lo Stato, chiamare alle armi tutta la popolazione, lasciarmi 
          continuare la marcia vittoriosa nel cuore del regno, e infine, dopo aver 
          portato all’esterno tutti i possibili mezzi di difesa, far evacuare 
          lo stesso governo e dargli una sede centrale e difendibile. Contemporaneamente 
          occorreva prendere alcune misure di polizia nei confronti degli elementi 
          clericali, che invece non furono attuate, per una discutibile prudenza, 
          lasciandoli completamente liberi di congiurare e di contribuire così 
          alla caduta della Repubblica e alla sventura dell’Italia. Quali 
          sarebbero stati i risultati di tutte queste misure? Se proprio dovevamo 
          cadere, saremmo almeno caduti dopo aver fatto tutto il possibile, e certamente 
          dopo l’Ungheria e Venezia!
 Giunto a Roma da Rocca d’Arce, vedendo come si provvedeva alla causa 
          nazionale e prevedendo l’inevitabile rovina, chiesi la dittatura: 
          e la chiesi come in altri momento avevo chiesto il timone di una barca 
          che la tempesta stava spingendo verso gli scogli. Mazzini e i suoi rimasero 
          scandalizzati! Ma pochi giorni dopo, il 3 giugno, il nemico che li aveva 
          presi in giro si era impadronito delle posizioni dominanti della città 
          e noi tentavamo inutilmente di riconquistarle: allora il capo dei triumviri 
          mi scrisse offrendomi l’incarico di generale comandante in capo. 
          Ero impegnato sul fronte dell’onore, lo ringraziai e continuai col 
          sanguinoso lavoro di quella triste giornata.
 Oudinot, avendo ricevuto i rinforzi di cui aveva bisogno, dalle trattative 
          con cui aveva addormentato il governo della Repubblica decise di passare 
          ai fatti ed annunciò alla città che avrebbe ripreso le ostilità 
          il 4 giugno: e il governo si fidò della parola del traditore bonapartista. 
          Da aprile a giugno, da quando cioè incombeva il pericolo, non si 
          era pensato a nessuna opera di difesa, soprattutto nei punti dominanti 
          essenziali all’esterno della città: ricordo che il 30 aprile, 
          dopo la vittoria, Avezzana ed io durante una riunione ai Quattro Venti 
          avevamo deciso di fortificare questa fondamentale posizione ed alcune 
          altre nei dintorni, di non minore importanza, ma il generale Avezzana 
          era stato inviato ad Ancona ed io incaricato di altri compiti.
 Fuori Porta S. Pancrazio e Porta Cavalleggeri si trovavano poche compagnie 
          come posti avanzati, essendo il nemico dalla parte di Castel Guido e Civitavecchia. 
          Io ero tornato a Velletri e, lo confesso, ero addolorato per l’andamento 
          disastroso della causa del mio povero paese. La legione occupava S. Silvestro 
          e non si pensava che a far riposare i soldati dopo le fatiche della campagna.
 Oudinot, che aveva dato l’ultimatum per il 4 giugno, preferì 
          attaccare di sorpresa nella notte fra il 2 e il 3 giugno: ci svegliammo 
          per il rumore delle fucilate e delle cannonate verso Porta S. Pancrazio. 
          Demmo l’allarme e i legionari, malgrado fossero molto stanchi, furono 
          pronti in un lampo precipitandosi dove si stava combattendo; i nostri 
          che tenevano gli avamposti, vigliaccamente presi di sorpresa erano stati 
          massacrati o presi prigionieri, e quando arrivammo a Porta S. Pancrazio 
          il nemico era già padrone dei Quattro Venti e degli altri punti 
          strategici.
 Sperando che il nemico non avesse consolidato la posizione, diedi immediatamente 
          ordine di attaccare il casino dei Quatto Venti: sentivo che là 
          c’era la salvezza di Roma, se l’avessimo preso, o la sua rovina, 
          se restava in mano ai francesi. L’attacco fu portato non con bravura, 
          ma con eroismo, prima dalla legione italiana, poi dai bersaglieri di Manara, 
          e in seguito anche da altri corpi, sostenuti dalla artiglierie delle mura 
          sino a notte fonda. Il nemico, consapevole dell’importanza del luogo, 
          l’aveva occupato con un forte nucleo delle sue truppe scelte e noi 
          tentammo invano d’impadronircene con ripetuti assalti dei nostri 
          migliori soldati: guidati dal valoroso Masina penetrarono nella villa 
          combattendo corpo a corpo coi francesi, costringendo più volte 
          i reduci dell’Africa a ripiegare, ma il numero dei nemici era sproporzionato 
          e troppo frequente il ricambio di truppe fresche, tanto da rendere inutili 
          gli eroici sforzi dei nostri. Mandai in loro aiuto il corpo di Manara, 
          nostro compagno di gloria in tutte le battaglie, poco numeroso ma coraggiosissimo, 
          il meglio organizzato e il più disciplinato di Roma: il combattimento 
          durò a lungo, ma alla fine, sopraffatti dal numero sempre crescente 
          di nemici, i nostri dovettero ritirarsi.
 La battaglia del 3 giugno 1849, una delle più gloriose dei soldati 
          italiani, durò dall’alba fino alle prime ore della notte: 
          i tentativi per riprendere il Casino dei Quattro Venti furono numerosi, 
          e tutti tremendi: quando fu buio mandai all’assalto alcune compagnie 
          fresche del reggimento Unione, sostenute da altri reparti, che impegnarono 
          una lotta furibonda; ma i nemici erano troppi e anche quei valorosi, dopo 
          aver perso lo stesso comandante, furono costretti a ripiegare. Masina, 
          Daverio, Peralta, Mameli, Dandolo, Ramorino, Morosini, Panizzi, Davide, 
          Melara, Minuto: che nomi! E tanti altri eroi che non ricordo furono le 
          vittime dei preti e di una Repubblica fratricida. Roma libera dalla negromanzia 
          e dai ladri, a questi straordinari figli d’Italia lo erigerà 
          un monumento sulle macerie del mausoleo eretto dai preti allo straniero 
          ladro e assassino?
 La prima legione italiana, che contava appena mille uomini, perse ventitré 
          ufficiali, quasi tutti morti, e molti ne persero il corpo di Manara ed 
          il reggimento Unione, che avevano combattuto con uguale coraggio, senza 
          contare gli ufficiali degli altri corpi.
 Il 3 giugno decise le sorti di Roma: i migliori ufficiali e sottufficiali 
          erano morti; il nemico era padrone di tutti i punti chiave, e forte com’era 
          di numero e di artiglieria vi si stabilì solidamente, così 
          come nelle importanti posizioni laterali, conquistate a tradimento: cominciò 
          tutti i preparativi per l’assedio, come se avesse avuto a che fare 
          con una piazzaforte di prim’ordine, avendo trovato degli italiani 
          che si battevano; non parlerò di tutto questo, trincee, batterie 
          di breccia, bombardamento coi mortai, ecc.: credo che se ne sia scritto 
          in modo dettagliato ed io non potrei farlo con grande precisione, poiché 
          in questo momento non ho a disposizione i dati e i documenti che sarebbero 
          necessari. Ciò che posso assicurare, però, è che 
          di fronte ad un esercito perfettamente addestrato, assai superiore di 
          numero, organizzato meglio, con mezzi immensi, i nostri giovani soldati 
          hanno combattuto con valore da aprile a luglio: il terreno fu difeso palmo 
          a palmo, non ci fu un solo caso di diserzione né uno scontro in 
          cui si cedesse alla forza ed al numero senza battersi furiosamente.
 Come ho detto, i reparti erano privi dei migliori ufficiali e a ranghi 
          ridotti; nei corpi di linea, cioè i vecchi papalini, alcuni si 
          erano comportati ben fin dall’inizio, ma ora, vedendo che tutto 
          andava in malora, avevano quell’aspetto inerte o svogliato che prelude 
          alla defezione o al tradimento, e ciò si manifestava gesuiticamente 
          nella mancata esecuzione dei propri compiti; in particolare c’erano 
          degli ufficiali superiori, che speravano nella restaurazione e che la 
          Repubblica non aveva saputo o voluto eliminare, i quali non solo si opponevano 
          agli ordini ma provocavano la svogliatezza fra i loro soldati: ciò 
          provocava enormi difficoltà al bravo Manara, mio Capo di Stato 
          Maggiore, e al tempo stesso era portatore di sicuri disastri.
 Una notte si tentò una sortita, ma il panico fra coloro che marciavano 
          in testa si diffuse nell’intera colonna e l’impresa fallì. 
          Tenevamo ormai poche posizioni esterni non avendo forze sufficienti: solo 
          il Vascello resistette fino all’ultimo grazie al coraggio di Medici 
          e della sua gente, e quando alla fine lo si abbandonò di quel grande 
          edificio non restava che un mucchio di macerie.
 La situazione si faceva ogni giorno più difficile: il valoroso 
          Manara incontrava sempre maggiori ostacoli a garantire il collegamento 
          fra prima linea e retrovie, essenziale per la sicurezza di tutti; questa 
          carenza contribuì in modo decisivo a facilitare l’ingresso 
          dei francesi nelle brecce aperte dai cannoni di Bonaparte e infatti queste 
          furono superate di notte, e con pochissime perdite, proprio perché 
          mal sorvegliate.
 Se Mazzini - non si deve incolpare nessun altro - avesse avuto capacità 
          pratiche pari alla sua bravura nel progettare movimenti e imprese; se 
          avesse avuto - come ha sempre creduto - la necessaria preparazione militare; 
          se, soprattutto, avesse dato ascolto a qualcuno dei suoi che per le esperienze 
          fatte poteva avere qualche competenza, avrebbe commesso meno errori; e, 
          nelle circostanze che sto narrando, avrebbe potuto, se non salvare l’Italia, 
          almeno ritardare indefinitamente la catastrofe romana; e, ripeto, forse 
          avrebbe potuto lasciare a Roma l’onore di essere caduta per ultima, 
          cioè dopo Venezia e l’Ungheria.
 Il giorno prima della sua eroica morte, avevo mandato Manara da Mazzini 
          per suggerirgli di uscire da Roma e marciare con tutte le forze disponibili 
          verso le forti posizioni degli Appennini. E non so perché non si 
          fece così! La storia non è priva di precedenti analoghi 
          rivelatisi provvidenziali e lo testimonia quanto ho narrato del Rio Grande, 
          o quanto accaduto negli Stati Uniti d’America non molto tempo fa. 
          Che fosse impossibile non è vero, giacché sono uscito da 
          Roma pochi giorni dopo con quattromila uomini, senza difficoltà. 
          I rappresentanti del popolo, in maggioranza giovani ed energici patrioti, 
          amati nei loro collegi elettorali, potevano andare lì e fare appello 
          al patriottismo della gente, e tentare ancora la fortuna. Invece si disse 
          che la difesa diventava impossibile e che i deputati dovevano restare 
          al loro posto: decisione coraggiosa, che li onora, ma pessima per l’onore 
          e gli interessi della patria, e riprovevole, visto che restavano ancora 
          molti uomini per continuare a combattere, e che altri ancora stavano combattendo. 
          [...]
 Si attendeva l’ingresso dei francesi per consegnare le armi e prolungare 
          un doloroso e disonorevole periodo di schiavitù. Io, contando su 
          un pugno di compagni, decisi di non sottomettermi e di tentare ancora 
          la sorte.
 Il signor Cass, ambasciatore americano, conoscendo la situazione mi fece 
          sapere che desiderava parlarmi (2 luglio 1849) e c’incontrammo: 
          gentilmente mi disse che a Civitavecchia c’era una corvetta americana 
          a mia disposizione, se volevo imbarcarmi con quei compagni che potevano 
          essere compromessi. Gli risposi che lo ringraziavo per la generosità 
          ma che sarei uscito da Roma con coloro che volevano seguirmi e proseguire 
          la lotta per il mio paese; poi mi avviai in piazza S. Giovanni per raggiungere 
          la mia gente, cui avevo ordinato di andare lì e prepararsi per 
          la sortita. Vi trovai la maggior parte di essi, mentre gli altri stavano 
          arrivando: molti soldati di altri corpi, intuendo o conoscendo la nostra 
          decisione, si univano a noi per non sottostare all’umiliazione di 
          deporre le armi ai piedi dei soldati di Bonaparte, guidati dai preti.
 RITIRATA  La mia buona Anita, nonostante le mie raccomandazioni affinché 
          restasse a Roma, aveva deciso di accompagnarmi: dirle che avrei affrontato 
          una vita tremenda di disagi, di privazioni, di pericoli, fu solo uno stimolo 
          per quella donna coraggiosa, come inutile fu osservare che era incinta. 
          Andò in una casa e pregò una donna di tagliarle i capelli, 
          si vestì da uomo e montò a cavallo. Dopo aver osservato a lungo dall’alto delle mura se vi fossero nemici 
          sulla nostra strada, diedi ordine di marciare verso Tivoli, con l’intenzione 
          di combattere chiunque avesse tentato di fermarci: arrivammo a Tivoli 
          senza problemi il 3 luglio e lì cercammo di riorganizzare tutti 
          i pezzi di reparti che formavano il mio gruppo. Fino a quel momento le 
          cose non andavano tanto male: mancavano, perché morti o feriti, 
          la maggior parte dei miei migliori ufficiali - Masina, Daverio, Manara, 
          Mameli, Bixio, Peralta, Montaldi, Ramorino, e tanti altri - ma alcuni 
          c’erano - Marrocchetti, Sacchi, Cenni, Coccelli - e se il morale 
          generale non fosse stato così basso, avrei potuto combattere e 
          dare agli italiani, ripresisi dalla sorpresa e dall’abbattimento, 
          l’occasione di liberarsi dal giogo dei predatori stranieri: purtroppo 
          non fu così!
 Mi accorsi ben presto che non c’era voglia di continuare nella gloriosa 
          e magnifica impresa che il destino ci aveva offerto: da Tivoli mi diressi 
          a nord per rivolgermi a quelle energiche popolazioni, e non solo non riuscii 
          a trovare un solo uomo, ma durante la notte, come se volessero nascondere 
          nel buio quell’azione vergognosa, disertavano anche quelli che mi 
          avevano seguito da Roma. Dentro di me pensavo alla tenacia e all’abnegazione 
          degli americani con cui avevo vissuto e che, privi di ogni comodità, 
          accontentandosi di mangiare quel poco che si trovava, e spesso anche del 
          tutto privi di cibo, resistevano per anni nelle pianure desolate e sulle 
          montagne, impegnati in una guerra atroce piuttosto che piegarsi alla prepotenza 
          di un tiranno o dello straniero: paragonavo quei coraggiosi figli di Colombo 
          ai miei compatrioti, deboli ed effeminati, e mi vergognavo di appartenere 
          allo stesso popolo di questi codardi, incapaci di resistere un mese nelle 
          campagne lontano dalla comodità tipica della città dei tre 
          pasti quotidiani.
 A Terni si unì a noi il prode colonnello inglese Forbes, acceso 
          sostenitore della causa italiana al pari dei più convinti fra noi, 
          soldato coraggioso ed onesto: ci raggiunse con alcune centinaia di uomini 
          ben equipaggiati. Da Terni andammo ancora a nord, attraversando gli Appennini 
          e battendo varie zone, ma nessuno rispondeva all’appello. A causa 
          delle frequenti diserzioni molte armi restavano abbandonate e venivano 
          caricate sui muli, ma erano diventate talmente tante che era troppo difficile 
          trasportarle, e così dovemmo lasciarne una parte a quelli del posto 
          che ci sembrarono più affidabili, affinché le nascondessero 
          e le conservassero per il giorno in cui sarebbero stati stanchi di umiliazioni 
          e offese. Malgrado la situazione poco brillante, c’era comunque 
          motivo di essere orgogliosi: eravamo sfuggiti ai francesi, che ci avevano 
          inseguito inutilmente, ed ora eravamo in mezzo ad austriaci, spagnoli 
          e napoletani: i napoletani erano stati distanziati; gli austriaci ci cercavano 
          dovunque, erano senz’altro informati delle nostre precarie condizioni 
          e certamente volevano accrescere la gloria conquistata nel settentrione, 
          anche perché invidiosi dei trionfi francesi: che la nostra colonna 
          s’indebolisse ogni giorno di più lo sapevano perfettamente 
          grazie al gran numero di spie, traditori e preti, instancabili su questa 
          terra che disgraziatamente li tollera! I preti, soprattutto, padroni assoluti 
          delle campagne che erano per noi il luogo ideale di transito, informavano 
          minuziosamente il nemico su di noi, sulle nostre posizioni e su ogni nostro 
          movimento.
 Viceversa io sapevo ben poco del nemico, perché anche la parte 
          migliore dei contadini era demoralizzata, impaurita, non voleva compromettersi, 
          e non riuscivo a trovare delle guide neanche pagando bene. Accompagnati 
          da ottimi conoscitori dei luoghi (e ho visto io stesso preti col crocifisso 
          in mano condurre contro di noi gli stranieri) i nemici ci scovavano sempre 
          di giorno, dato che ci notte ci muovevamo continuamente, ma in genere 
          ci trovavano sempre in posizioni favorevoli e quindi non osavano attaccare: 
          ciò nondimeno ci logoravano e provocavano la defezione dei nostri. 
          Andò avanti così per un pezzo, senza che il nemico, immensamente 
          più forte, decidesse di attaccare la nostra piccola colonna. Con 
          la gente di città demoralizzata e con quella di campagna ostile 
          e succube dei preti, la precarietà della nostra situazione aumentava 
          e presto sentimmo gli effetti della reazione che prendeva piede in tutte 
          le province italiane.
 Durante la notte dovevamo spostarci, perché ovviamente i nemici 
          si concentravano e i nostri movimenti diventavano sempre più difficili: 
          in Italia non riuscivo a trovare una guida mentre gli austriaci non avevano 
          problemi: che questo serva di monito agli italiani che vanno a messa e 
          a confessarsi da quelle nere figure chiamate scarafaggi!
 Poche cose accaddero fino a S. Marino, tranne alcune scaramucce con gli 
          austriaci. Due nostri cavalleggeri che andavano in esplorazione furono 
          catturati dai contadini del vescovo di Chiusi: un vescovo, dico, e se 
          non erro Chiusi ancora oggi (1872) ha un vescovo; reclamai la restituzione 
          dei due uomini, che ritenevo in grande pericolo nelle grinfie dei discendenti 
          di Torquemada, ma mi furono negati: per rappresaglia feci allora marciare 
          in testa alla nostra colonna tutti i frati di un convento, minacciando 
          di fucilarli, ma l’arcivescovo, duro, rispose che in Italia c’era 
          molta stoffa per far frati e non volle restituire i prigionieri. Dico 
          di più: penso che egli desiderasse la morte di quei suoi soldati, 
          per poi spacciarli di fronte alla plebe come santi martiri, e quindi li 
          lascia liberi. [...]
 A S. Marino feci affiggere sul muro di una chiesa fuori dalla città 
          un ordine del giorno formulato più o meno così: "Soldati, 
          vi sciolgo dall’impegno di seguirmi. Tornate alle vostre case, ma 
          ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nella schiavitù 
          e nel disonore!"
 Al governo della Repubblica di S. Marino era giunta un’intimazione 
          del generale austriaco con condizioni per noi inaccettabili e questo provocò 
          una reazione positiva nei nostri soldati, che decisero di combattere a 
          oltranza piuttosto che accettare compromessi ignominiosi. L’accordo 
          con la Repubblica era di deporre le armi in quel territorio neutrale e 
          di lasciare tutti liberi di tornare a casa: questo il patto col governo 
          e niente fu contrattato coi nemici d’Italia.
 Per quanto mi riguarda, però, non avendo intenzione di deporre 
          le armi, non ritenevo impossibile aprirmi la strada con un pugno di compagni 
          e guadagnare Venezia, e così decisi. Un doloroso ostacolo era la 
          mia Anita, inferma e in fase avanzata di gravidanza: la supplicavo di 
          restare in quel luogo, dove almeno per lei c’era la possibilità 
          di un rifugio e gli abitanti ci avevano dimostrato molto affetto: inutile, 
          quel cuore forte e generoso respingeva qualsiasi mia raccomandazione e 
          m’imponeva il silenzio con queste parole: "Tu vuoi lasciarmi." 
          Decisi di lasciare S. Marino a metà della notte e di raggiungere 
          qualche porto dell’Adriatico dove imbarcarsi per Venezia: dato che 
          vari compagni, in particolare alcuni coraggiosi lombardi e veneti disertori 
          dall’Austria, avevano scelto di seguirmi a tutti i costi, uscii 
          dalla città con alcuni aspettando gli altri in un punto prefissato: 
          questo provocò del ritardo e dovetti aspettare un pezzo prima che 
          ci si riunisse tutti. Durante il giorno girai nei dintorni per avere ragguagli 
          sui punti della costa più agevoli: la fortuna, in cui non ho mancato 
          mai di credere, mi mandò un individuo che in quella circostanza 
          mi fu di grande aiuto, Galapini, un coraggioso giovane di Forlì, 
          che arrivò in calesse e fece da esploratore, correndo come un lampo 
          dov’erano gli austriaci, raccogliendo informazioni dagli abitanti 
          e riferendomi ogni cosa. Decisi quindi di andare a Cesenatico e Galapini 
          trovò delle guide che mi accompagnarono; arrivammo verso mezzanotte 
          e all’entrata trovammo un posto di guardia austriaco: quegli uomini 
          restarono sorpresi per la nostra improvvisa apparizione e sfruttando quel 
          momento d’indecisione dissi ai miei di scendere da cavallo e disarmarli; 
          fu affare di un momento ed entrammo nel paese di cui restammo padroni, 
          prendendo prigionieri alcuni gendarmi che certo non ci aspettavano quella 
          notte. Una delle prime misure fu di intimare alle autorità locali 
          di ordinare che venisse messe a nostra disposizione un numero di barche 
          sufficiente a trasportare tutti i miei soldati.
 La fortuna, però, quella notte cessò di assisterci. Una 
          burrasca agitava il mare all’imbocco del porto in modo tale da rendere 
          impossibile uscire, e qui mi aiutò molto la mia esperienza di marinaio: 
          era indispensabile lasciare il porto, perché il giorno era vicino 
          e i nemici si stavano avvicinando, ed il mare era l’unica via di 
          fuga. La gente salì a bordo di tredici bragozzi: [...] il colonnello 
          Forbes s’imbarcò per ultimo, essendo rimasto, per tutto il 
          tempo in cui si terminavano i preparativi, all’entrata del paese 
          per respingere i nemici qualora fossero arrivati. Messi in acqua i barconi 
          con tutte le persone a bordo, tonneggiandoli uno dopo l’altro, su 
          ciascuno venne distribuita una parte dei viveri forniti dall’autorità 
          municipale, fu raccomandato di navigare più uniti possibile e si 
          partì per Venezia. Era giorno fatto quando salpammo da Cesenatico, 
          il tempo era migliorato ed il vento favorevole: se non fossi stato molto 
          preoccupato per la mia Anita, che si trovava in uno stato deplorevole 
          e soffriva enormemente, avrei potuto dire che, superate tante difficoltà 
          e sulla via della salvezza, potevamo dirci fortunati; ma i dolori della 
          mia compagna erano troppo forti e ancora più forte il mio rammarico 
          di non poterla aiutare.
 A causa del poco tempo disponibile e delle difficoltà incontrate 
          per uscire in mare, non mi ero potuto occupare dei viveri e avevo dato 
          l’incarico ad un ufficiale, che aveva raccolto il possibile: di 
          notte aveva assalito di sorpresa un paesetto sconosciuto ed aveva requisito 
          il poco che c’era, poi distribuito nelle barche. Mancava soprattutto 
          l’acqua e mia moglie aveva una sete che la divorava, sintomo chiaro 
          della malattia; anch’io, provato dalla fatica, avevo sete e l’acqua 
          era scarsissima!
 Per tutta la giornata costeggiammo ad una certa distanza la sponda italiana 
          dell’Adriatico, con vento favorevole e anche di notte le condizioni 
          furono ottime; c’era luna piena e con malinconia vidi sorgere la 
          compagna dei naviganti che tante volte avevo contemplato in adorazione: 
          era bella come non l’avevo mai vista, ma purtroppo troppo bella 
          per noi! E proprio la luna ci fu fatale quella notte.
 A est della punta di Goro c’era la squadra austriaca, che i patriottici 
          governi sardo e borbonico avevano lasciato intatta e padrona dell’Adriatico: 
          dalle informazioni che mi avevano dato i pescatori sapevo dell’esistenza 
          di questa squadra e che forse era ancorata dietro questo promontorio, 
          ma le mie notizie erano incerte. La prima nave che avvistammo fu un brigantino, 
          l’Oreste credo, e quella avvistò noi, manovrando per venirci 
          incontro: feci in modo di segnalare agli altri bragozzi di deviare decisamente 
          a sinistra verso la costa per togliersi dalla rotta nemica, dato che nel 
          chiarore della notte il nemico poteva facilmente scorgere i nostri legni. 
          La precauzione non servì, perché la notte era troppo luminosa 
          ed il brigantino nemico non solo ci vide ma con cannonate e razzi ci segnalò 
          alla squadra. Tentai di passare fra i bastimenti ostili e la costa senza 
          badare ai colpi di cannone, ma gli altri bragozzi, intimoriti dal frastuono 
          e dalle cannonate, retrocessero, ed io feci altrettanto per non abbandonarli.
 All’alba ci trovammo nell’insenatura di Goro accerchiati dalle 
          navi nemiche: continuavano a cannoneggiarci e mi accorsi con dolore che 
          già alcuni bragozzi si erano arresi; era impossibile sia indietreggiare 
          che avanzare perché i legni avversari erano assai più veloci 
          e non c’era altra soluzione che puntare verso la costa, dove arrivammo, 
          inseguiti da lance e scialuppe e sotto i colpi di artiglieria, solo in 
          quattro, mentre gli altri bragozzi erano stati catturati. Lascio immaginare 
          qual era il mio stato in quei momenti: la mia infelice compagna moribonda; 
          il nemico all’inseguimento con quell’energia tipica di chi 
          ha già la vittoria in mano; diretto a una costa dov’era molto 
          probabile trovare molti altri nemici, non solo austriaci ma anche papalini. 
          Comunque sia approdammo: presi in braccio Anita, sbarcai e la deposi a 
          terra; i miei compagni mi chiedevano con lo sguardo cosa dovevano fare 
          e dissi loro d’incamminarsi alla spicciolata e di cercare rifugio 
          da qualche parte, e soprattutto di allontanarsi da lì, essendo 
          imminente l’arrivo delle barche: io non potevo muovermi, non potevo 
          abbandonare mia moglie morente.
 Quegli uomini mi erano molto cari: Ugo Bassi, Ciceruacchio coi suoi due 
          figli! Bassi mi disse che avrebbe cercato un casolare dove potersi cambiare 
          perché indossava dei pantaloni rossi, credo tolti al cadavere di 
          un soldato francese da uno dei nostri, che poi li aveva regalati a Bassi 
          vestito in modo cencioso. Ciceruacchio mi diede un addio affettuoso e 
          si allontanò coi figli. Mi separai da quei valorosissimi italiani 
          e non li avrei rivisti mai più. La ferocia austriaca e clericale 
          di lì a pochi giorni avrebbe soddisfatto la propria sete di sangue 
          fucilando quei generosi, vendicandosi delle paure passate.
 Oltre a Ciceruacchio ed ai suoi figli erano in nove: il capitano Parodi, 
          uno dei miei prodi compagni di Montevideo, e un sacerdote genovese, Ramorino; 
          degli altri non ricordo. "Scavate nove fosse" ordinò 
          il capitano austriaco, agli ordini di un principe straniero che comandava 
          in quella parte d’Italia, che aveva catturato i miei commilitoni; 
          "Scavate nove fosse" diceva imperiosamente quel capitano ad 
          una folla di contadini che, grazie ai preti, avevano paura dei liberali, 
          dipinti come assassini, ma non degli austriaci: e in quel terreno leggero 
          le fosse furono scavate in pochi minuti.
 Povero vecchio Ciceruacchio! Il vero tipo dell’onesto popolano, 
          con davanti a sé le fosse che dovevano racchiudere lui, i suoi 
          compagni, i suoi figli: un figlio di 13 anni! Pronte le fosse, furono 
          tutti fucilati, e poi sepolti da mani italiane, s’intende. Il soldato 
          straniero era padrone, comandava ai servi e l’obbedienza doveva 
          essere immediata, altrimenti bastonate! Anche Ugo Bassi venne arrestato 
          e fucilato con Levré, uno dei miei di Montevideo, coraggioso e 
          simpatico milanese. Prima dell’esecuzione Bassi fu torturato dai 
          preti: essendo lui stato prete, la loro rabbia era ancora maggiore!
 Rimasi nelle vicinanze del mare, in un campo di frumento, con la mia Anita 
          e col tenente Leggero, mio compagno inseparabile, che era con me in Svizzera 
          l’anno precedente, dopo il fatto di Morazzone: le ultime parole 
          della mia donna furono per i suoi figli, che ella immaginò di non 
          poter vedere più! Rimanemmo lì per un po’, indecisi 
          sul da farsi, finché dissi a Leggero di andare verso l’interno 
          a cercare qualche casa: coraggioso come sempre egli si mosse subito ed 
          io rimasi in attesa; non molto tempo dopo udii qualcuno che si avvicinava 
          e vidi Leggero accompagnato da una persona la cui vista mi confortò: 
          era il colonnello Bonnet, uno dei miei migliori ufficiali, ferito nell’assedio 
          di Roma, dove aveva perso anche un fratello. Era tornato a casa per curarsi 
          e non poteva accadermi niente di più fortunato che incontrare quel 
          fratello d’armi: abitava nei dintorni e, udite le cannonate, aveva 
          immaginato che fossimo sbarcati, e si era avvicinato al mare per cercarci 
          e aiutarci. Il coraggioso e intelligente Bonnet, rischiando molto, ci 
          aveva cercato e trovato, ed una volta arrivato lui mi rimisi interamente 
          alle sue decisioni, cosa che ci salvò: propose di andare a una 
          casupola vicina per dare un po’ di ristoro alla mia infelice compagna.
 Ci muovemmo sostenendo Anita in due ed arrivammo a fatica in quella casa 
          di povera gente dove si trovò dell’acqua, la prima cosa che 
          serviva alla malata, e altro; di qui ci spostammo nella dimora della sorella 
          di Bonnet, che fu gentilissima e poi attraversammo parte delle valli di 
          Comacchio, andando verso la Mandriola dove ci sarebbe stato un medico: 
          ci arrivammo in calesse, con Anita sdraiata su un materasso, e subito 
          dissi al dottor Zannini "Cercate di salvare questa donna!"; 
          rispose di portarla a letto e in quattro afferrammo gli angoli del materasso 
          e la trasportammo in casa, su per una scaletta che conduceva alla stanza; 
          nell’adagiarla sul letto mi sembrò di scorgere sul suo viso 
          la fisionomia della morte: le presi il polso e non batteva più! 
          Avevo davanti a me la madre dei miei figli, che amavo tanto, morta! Quando 
          li rivedrò mi chiederanno della loro madre! Piansi amaramente la 
          perdita della mia Anita, che mi fu compagna inseparabile nelle più 
          avventurose circostanze della mia vita.
 Pregai quella brava gente di dare sepoltura al cadavere e mi allontanai 
          sollecitato da quelle stesse persone, che con la mia presenza stavo compromettendo. 
          Mi avviai barcollando per S. Alberto, con una guida che mi condusse da 
          un sarto, povero ma onesto e generoso: con Bonnet, a cui devo la vita, 
          comincia la serie dei miei protettori senza i quali non avrei potuto sopravvivere 
          per trentasette giorni dalle foci del Po al golfo di Sterlino, dove m’imbarcai 
          per la Liguria. Dalla finestra della casa in cui mi trovavo, a S. Alberto, 
          vedevo passeggiare i soldati austriaci, padroni e insolenti come sempre! 
          Abitai in due case, in questo piccolo ma bellissimo paese, e in entrambe 
          fui tenuto al sicuro, trattato con una generosità superiore alla 
          condizione economica di quella gente. Da S. Alberto i miei amici pensarono 
          bene di farmi trasferire nella vicina pineta, dove rimasi qualche tempo 
          cambiando spesso abitazione per ragioni di sicurezza: varie persone condividevano 
          questo segreto, che come una nuvola magica mi nascondeva alle ricerche 
          dei miei persecutori, non solo austriaci ma anche papalini, addirittura 
          peggiori; la maggior parte di questi coraggiosi romagnoli erano giovani 
          e bisognava vedere con che sollecitudine si preoccupavano della mia protezione: 
          quando ritenevano che fossi in pericolo li vedevo arrivare di notte, su 
          un calesse, e mi portavano a molte miglia di distanza in un luogo più 
          sicuro.
 Austriaci e preti non trascuravano di fare tutte le indagini possibili 
          per trovarmi: i primi avevano diviso un battaglione in sezioni che percorrevano 
          la pineta in tutte le direzioni; i preti, poi, dal pulpito e dal confessionale 
          incitavano le contadine ignoranti a fare la spia, per la maggior gloria 
          di Dio. I miei giovani protettori, per trasferirmi da un luogo all’altro 
          e per dare l’allarme in caso di pericolo, avevano predisposto i 
          loro segnali notturni con un’abilità ammirevole: quando si 
          sapeva che c’era qualche nemico, scorgendo un fuoco in un determinato 
          punto, si passava oltre; se in un certo luogo non si vedeva alcun fuoco 
          si tornava indietro, o si andava in un’altra direzione, talvolta, 
          temendo un malinteso, il conduttore fermava il calesse, scendeva e andava 
          avanti lui stesso per controllare, oppure senza scendere trovava subito 
          chi lo informava di ogni cosa.
 Queste misure erano prese in modo tale da suscitare ammirazione: si noti 
          che qualsiasi cosa fosse trapelata, qualunque accenno di ciò che 
          stava accadendo avessero notato i miei persecutori, essi avrebbero fucilato 
          senza processo e senza pietà tutti quelli che mi aiutavano, anche 
          i bambini. Quanto mi dispiace non poter consegnare alla storia i nomi 
          di quei generosi romagnoli, a cui certamente devo la vita: se non fossi 
          votato alla sacra causa del mio paese, basterebbe quella circostanza a 
          impormene l’obbligo. Così passai vari giorni nella bella 
          pineta di Ravenna: un po’ alla capanna di un caro, onesto e generoso 
          popolano di nome Savini; altre volte sdraiato fra i cespugli, di cui il 
          bosco era pieno.
 In una di quest’ultime occasioni un giorno accadde che mentre con 
          Leggero eravamo nascosti dietro un arbusto, dall’altra parte passarono 
          degli austriaci e le loro voci, assai poco piacevoli, disturbarono molto 
          la quiete della foresta e le nostre pacate riflessioni; passarono a poca 
          distanza e l’oggetto della loro animata conversazione eravamo certamente 
          noi.
 [...] Da Ravenna ci trasferimmo a Cervia, nella fattoria di un’altra 
          cara persona di cui ricordo perfettamente la bonaria fisionomia ma non 
          il nome; dopo un paio di giorni andammo a Forlì, dove passammo 
          una notte ospitati in una casa di brava gente, e poi ci avviammo verso 
          l’Appennino con delle guide. Vale la pena osservare che nessuno, 
          fra quella gente generosa, è capace di abbassarsi alla delazione 
          e che aiutando un ricercato lo custodiscono come cosa sacra: lo salvano, 
          lo mantengono, lo guidano con una cordialità incomparabile. La 
          lunga dominazione del più perverso e corrotto dei governi non è 
          stato capace di fiaccare e rovinare il carattere di quelle forti e generose 
          popolazioni.
 Il governo di ladri (1872) seguito al pessimo governo dei clericali, non 
          la conosce questa gente, per disgrazia caduta sotto la sua amministrazione, 
          e la tormenta senza scrupoli, ma imparerà a conoscerla il giorno 
          in cui dalla terra dei Vespri e dalla Romagna alle Alpi si chiederà 
          conto della sua gestione.
 Passammo la frontiera ed entrammo in Toscana: la medesima simpatia la 
          trovammo fra questa gente colta, parte di un’Italia allora divisa 
          dai preti ma destinata a formare un popolo solo. Un certo Anastasio, fra 
          gli altri, ci accolse e ci diede ospitalità in una casa tra le 
          montagne. Poi un prete, un vero angelo custode del ricercato!, ci venne 
          a cercare, ci trovò e ci portò a casa sua, a Modigliana. 
          Ricorderò qui a chi ha la pazienza di leggere queste memorie, ciò 
          che ho già detto molte volte: odio il carattere falso e perverso 
          del prete, ma se la persona viene staccata dalla sua funzione d’impostore, 
          e resta l’uomo, io lo considero come chiunque altro.
 Padre Giovanni Verità era un vero sacerdote di Cristo, e qui per 
          Cristo intendo l’uomo virtuoso, il legislatore, non il Cristo fatto 
          Dio dai preti e di cui si servono per coprire l’oscenità 
          e l’ipocrisia della propria esistenza: se un perseguitato transitava 
          in quelle contrade era cura di padre Verità proteggerlo, nutrirlo 
          e farlo condurre, o condurlo egli stesso, in un luogo sicuro. In questo 
          modo aveva salvato centinaia di romagnoli braccati dall’inesorabile 
          rabbia del clero che si rifugiavano in Toscana perché lì 
          il governo era, se non buono, almeno meno scellerato di quello dei papalini. 
          Fra quelle sventurate popolazioni, poi, le condanne all’esilio erano 
          frequenti e ovunque, nelle mie peregrinazioni, avevo incontrato molti 
          romagnoli esiliati, e da tutti avevo sentito benedire il nome del pio 
          sacerdote.
 Ci fermammo un paio di giorni in casa di don Giovanni, nel suo paese, 
          dove la stima generale e l’affetto di cui godeva rendevano ancora 
          più sicura la sua ospitalità; poi ci condusse attraverso 
          l’Appennino con l’idea di passare negli Stati Sardi. Giunti 
          una sera nelle vicinanze delle Filigari, la nostra generosa guida ci lasciò 
          in un luogo appartato e si spinse verso l’abitato per cercare una 
          guida, e in tale circostanza avvenne un contrattempo che ci separò 
          dal nostro protettore: una guida inviata da lui, essendo notte fonda si 
          smarrì e arrivò tardi; entrammo nel paesino mentre don Giovanni 
          se ne era allontanato per raggiungerci, impaziente per il nostro ritardo, 
          ed aveva preso un’altra strada. All’alba eravamo sulla stradale 
          che conduce da Bologna a Firenze e non potevamo restare a lungo in un 
          luogo così esposto: decidemmo così di cercare un calesse 
          ed avviarci verso Firenze, abbandonando con enorme rincrescimento l’uomo 
          generoso che fino a quel momento ci aveva guidati e protetti; seguimmo 
          lo stradale che era giorno fatto e incrociammo un corpo di austriaci che 
          da Firenze marciava verso Bologna: facemmo finta di niente e continuammo 
          così per un pezzo lungo il versante occidentale dell’Appennino.
 Giunti a un’osteria, sul lato sinistro della strada, il guidatore 
          del carro si fermò e preferimmo sostare anche noi: entrammo nell’osteria, 
          congedammo il vetturino e ordinammo una tazza di caffè; nell’attesa 
          mi ero seduto su una panca vicino all’ingresso, accanto a una di 
          quelle lunghe tavole che si trovano abitualmente nelle locande: un po’ 
          stanco mi ero appoggiato sonnecchiando con le braccia distese sul tavolo, 
          quando Leggero mi svegliò toccandomi la spalla con un dito, ed 
          incrociai con lo sguardo le facce poco simpatiche di certi croati che 
          avevano riempito l’osteria. Era un altro reparto austriaco, o forse 
          una parte di quello che avevamo incrociato: riabbassai il capo e feci 
          conto di non aver visto nessuno; quando l’osteria si svuotò 
          e i padroni furono serviti, potemmo bere il caffè, poi attraversammo 
          lo stradale e trovammo una casa di contadini in cui fermarci.
 Dopo aver riposato ci avviammo verso Prato con l’intenzione di guadagnare 
          la frontiera ligure: marciammo gran parte della giornata fino ad arrivare 
          in una valle dove trovammo una specie di albergo di campagna e chiedemmo 
          alloggio per la notte; nello stesso albergo c’era un giovane cacciatore 
          di Prato che sembrava un frequentatore abituale e amico dei proprietari: 
          aveva un aspetto decoroso, un comportamento aperto ed una di quelle facce 
          oneste che difficilmente ingannano. Stetti ad osservarlo per qualche tempo, 
          con la chiara intenzione di parlargli, e lo avvicinai: dopo poche parole 
          gli dissi il mio nome e capii subito che non mi ero sbagliato. Il giovane 
          pratese era emozionato e vidi brillare nei suoi occhi il desiderio di 
          agire: mi disse che sarebbe andato a Prato, che distava poche miglia, 
          a parlare con degli amici e che sarebbe tornato di lì a poco; fu 
          di parola, tornò presto e lo seguimmo a Prato, dove i suoi amici, 
          con a capo l’avvocato Martini, avevano già fatto preparare 
          una vettura che doveva portarci per la strada di Empoli, Colle, ecc., 
          fino in Maremma: lì, con l’aiuto di altri bravi italiani, 
          avremmo con tutta probabilità trovato qualche imbarcazione che 
          ci avrebbe condotto in territorio ligure. [...]
 Il nostro viaggio da Prato alla Maremma fu veramente singolare: percorremmo 
          gran parte della strada in una vettura chiusa, facendo varie tappe per 
          cambiare i cavalli, e in varie occasioni le soste furono piuttosto lunghe, 
          avendo i cocchieri assai meno premura di noi, e così si dava modo 
          ai curiosi di affollarsi intorno alla vettura; poi eravamo anche costretti 
          a scendere per mangiare qualcosa, pur dovendo continuare a nascondere 
          il fatto straordinario della nostra condizione. Nei piccoli paesi eravamo 
          naturalmente oggetto della curiosità degli sfaccendati, che facevano 
          mille ipotesi sulla nostra identità e chiacchieravano di continuo 
          su questi sconosciuti, con tutti i sospetti inevitabili in quel periodo 
          turbolento. A Colle in particolare, oggi paese patriottico e moderno, 
          fummo circondati da una folla che non mancò di manifestare sospetti 
          e avversione verso il nostro aspetto, che non era proprio quello di pacifici 
          viaggiatori: vi fu qualche parolaccia e niente di più, e noi ovviamente 
          mantenemmo la calma. [...]
 Il primo rifugio sicuro, in prossimità della Maremma, fu a S. Dalmazio, 
          in casa del dottor Camillo Serafini, uomo generoso, un vero patriota dotato 
          di un coraggio e di una fermezza non comuni; da lì passammo presso 
          un certo Guelfi, più vicino al mare, e in ogni luogo ricevemmo 
          un’ospitalità degna della massima gratitudine. Nel frattempo 
          i nostri bravi amici avevano preso contatto con un pescatore genovese 
          affinché ci trasportasse in Liguria: un bel giorno vennero a cercarmi 
          a casa Guelfi alcuni giovani maremmani, armati di doppietta come i cacciatori 
          di Ravenna, ci diedero un’arma e ci condussero attraverso i boschi 
          sulla sponda del mare, poche miglia ad est di Follonica, porto carbonifero, 
          nel golfo di Sterlino. Là ci aspettava il peschereccio e c’imbarcammo 
          commossi dalle prove di affetto che ci avevano dato i nostri giovani liberatori.
 Com’ero fiero di essere nato in Italia! In questa terra di morti, 
          fra questa gente che non lotta, come dicono nei paesi vicini: dove da 
          secoli, una volta caduti dal trono da cui i nostri avi dominavano il mondo, 
          questi arroganti confinanti, pur conoscendo la nostra indole, ci hanno 
          imposto il rettile nero della teocrazia per umiliarci, infangarci e corromperci, 
          affinché piegati e storditi non udissimo nemmeno il sibilo della 
          verga a cui ci avevano condannato in eterno, come se il loro regno di 
          pigmei dovesse durare per sempre mentre il tempo con sue fredd’ali 
          spazzava via il gigante di tutte le grandi imprese, passate, presenti 
          e future, ma che dalle proprie rovine risorge oggi sui sette colli. [...]
 Veleggiamo verso l’isola d’Elba dove avremmo imbarcato attrezzi 
          e provviste, e passammo un giorno e una notte a Porto Longone: di lì, 
          costeggiando la Toscana, giungemmo alla rada di Livorno e senza fermarci 
          proseguimmo verso ponente. Non avevo dubbi in merito alla pessima accoglienza 
          che ci attendeva negli Stati Sardi, tanto che a Livorno pensai di chiedere 
          asilo a bordo di un vascello inglese che era ancorato in rada: tuttavia 
          prevalse il desiderio di rivedere i miei figli prima di lasciare l’Italia, 
          dove non potevo più restare, e ai primi di settembre sbarcammo 
          sani e salvi a Porto Venere. Da lì andammo a Chiavari, ospiti in 
          casa di mio cugino Bartolomeo Pucci, di cui conservo un caro ricordo: 
          fummo bene accolti sia dalla sua famiglia che dalla popolazione del paese 
          e dai molti lombardi che si erano rifugiati lì dopo la battaglia 
          di Novara.
 Ma il generale La Marmora, allora commissario regio in Liguria, saputo 
          del mio arrivo ordinò che fossi trasferito a Genova, scortato da 
          un capitano dei carabinieri in incognito. Non trovai affatto strana questa 
          decisione di La Marmora: era uno strumento della politica allora prevalente 
          nel nostro paese, e anche personalmente ostile, per il suo carattere, 
          nei confronti di chiunque fosse di fede repubblicana. Venni rinchiusi 
          in una cella del Palazzo ducale, a Genova, e quindi di notte trasferito 
          a bordo della fregata da guerra S. Michele: in entrambi i luoghi, comunque, 
          fui trattato con rispetto, sia da La Marmora che dal cavalleresco comandante 
          Persano ed io non chiesi altro che di poter andare a Nizza ad abbracciare 
          i miei figli, per tornare poi a consegnarmi. La Marmora accettò 
          la mia parola e acconsentì. [...]
 Rivedere i miei figli, che ero costretto ad abbandonare chissà 
          per quanto tempo ancora, mi addolorò immensamente: essi rimanevano 
          con persone amiche, è vero: i due maschi con mio cugino Augusto 
          Garibaldi, e Teresa con i coniugi Deidery, che le fecero da genitori. 
          Ma dovevo allontanarmi per un tempo indefinito, sì, indefinito, 
          perché mi chiesero di scegliere il luogo dell’esilio!
 E qui non posso passare sotto silenzio la forte difesa verso la mia causa 
          che svolsero i deputati della sinistra nel Parlamento piemontese: Baralis, 
          Borella, Valerio, Brofferio. [...] Ma, come sempre, c’era un’insaziabile 
          sete di sangue nel partito austro-clericale, vittorioso in tutta la penisola.
 Scelsi Tunisi, perché la speranza di un non lontano futuro migliore 
          per l’Italia mi faceva preferire un paese vicino: lì si trovavano 
          un amico d’infanzia, un Castelli di Nizza, e un Fedriani mio grande 
          amico dal ‘34 e come me allora ricercato. M’imbarcai dunque 
          per Tunisi sul vapore da guerra Tripoli, ma in quella città, su 
          pressioni della Francia, il governo non mi volle e fui portato indietro 
          e lasciato nell’isola di Maddalena, dove restai una ventina di giorni. 
          [...] Da lì fui imbarcato per Gibilterra sul brigantino da guerra 
          Colombo: il governatore inglese mi diede sei giorni di tempo per lasciare 
          la città: pur con tutto il giusto affetto che ho sempre avuto per 
          quella nazione generosa, non posso nascondere che quel modo di comportarsi 
          mi sembrò assai scortese, sciocco e indecoroso.
 [...] RITORNO 
          ALLA VITA POLITICA  Nel febbraio 1859, per mezzo di La Farina, fui convocato a Torino dal 
          conte di Cavour.Il governo sardo, in quel periodo in trattative con la Francia e intenzionato 
          far guerra all’Austria, stava avviando una politica tesa ad accattivarsi 
          il popolo italiano: Manin, Pallavicino ed altri illustri italiani cercavano 
          di avvicinare i settori democratici alla dinastia sabauda, per arrivare, 
          col concorso della maggior parte delle forze nazionali, al raggiungimento 
          di quell’unificazione italiana che per tanti secoli era stato il 
          sogno delle menti migliori della penisola.
 Ritenendo che io avessi mantenuto una qualche autorevolezza fra il popolo, 
          il conte di Cavour, a quell’epoca onnipotente, mi chiamò 
          nella capitale e naturalmente mi trovò favorevole alla sua idea 
          di far guerra al nemico secolare dell’Italia: non m’ispirava 
          fiducia il suo alleato, è vero, ma come fare?, bisognava subirlo. 
          [...]
 È umiliante, ma occorre ammetterlo: con la Francia come alleata 
          si poteva aprire tranquillamente le ostilità, ma senza di essa 
          neanche per sogno! Questa almeno era l’opinione della maggioranza 
          di quei figli degeneri di un grandissimo popolo: e tutto per non sapere, 
          o non volere, utilizzare le forze nazionali a disposizione, e per il fatto 
          che la causa del nostro paese era sempre in mano ai disonesti o alla casta 
          dei parolai, abituati ad argomentare con lunghe chiacchiere e a non agire 
          energicamente. [...]
 A Torino vidi solo Cavour. L’idea che il Piemonte muovesse guerra 
          all’Austria non era nuova per me e nemmeno quella di mettere a tacere 
          le mie convinzioni pur di fare l’Italia: quel programma era lo stesso 
          che avevamo al momento di partire da Montevideo e quando questa bella 
          decisione di Manin e Pallavicino di unificare l’Italia con Vittorio 
          Emanuele mi fu comunicata a Caprera, mi trovò della stessa opinione 
          politica. E non fu tale anche quella di Dante, di Machiavelli, di Petrarca 
          e di tanti altri nostri grandi?
 Poso dire con orgoglio: fui e sono repubblicano, ma al tempo stesso non 
          ho mai pensato che il sistema democratico potesse essere l’unico 
          possibile, tanto da imporlo con la forza; in un paese libero, dove la 
          maggioranza vuole giustamente la repubblica, il sistema repubblicano è 
          certamente il migliore; trovandomi, come mi accadde a Roma nel 1849, a 
          dover esprimere il mio voto lo darei sempre a quel sistema e farei in 
          modo di convincere più persone possibili. Ma se non è possibile 
          la repubblica, almeno per ora (1859), sia per la corruzione che oggi domina 
          la società, sia per la solidità di cui ancora godono le 
          monarchie, e se si offre l’opportunità di unire la penisola 
          con l’accordo tra le forze dinastiche e quelle popolari, io aderisco 
          comunque con la massima convinzione.
 Dopo pochi giorni di permanenza a Torino, dove dovevo servire di richiamo 
          per i volontari italiani, capii subito con chi avevo a che fare e cosa 
          si voleva da me: me ne addolorai, ma cos’altro potevo fare? Accettai 
          il male minore: non potendo fare la cosa migliore, almeno si poteva fare 
          qualcosa per il nostro paese infelice.
 Garibaldi doveva fare capolino, apparire e non apparire: che i volontari 
          sapessero che egli era a Torino, ma che non si mettesse troppo in luce 
          per non danneggiare le manovre diplomatiche. Che situazione!
 Far accorrere i volontari, possibilmente tanti, ma comandarne il minor 
          numero possibile, e magari quelli meno adatti alle armi. I volontari accorrevano, 
          eppure non dovevano vedermi: si formarono due punti di raccolta, a Cuneo 
          ed a Savigliano, ma io fui relegato a Rivoli, verso Susa. La direzione 
          e l’organizzazione dei corpi, che formarono il primo ed il secondo 
          reggimento, base ed orgoglio dei Cacciatori delle Alpi, fu affidata al 
          generale Cialdini: Cosenz ebbe il comando di quello di Cuneo, Medici di 
          quello di Savigliano, ed entrambi erano ottimi ufficiali; a Savigliano 
          si formò anche un terzo reggimento, comandato da Arduino e formato 
          da volontari, che però, a causa del comandante, non si comportò 
          bene come i primi due.
 Una commissione d’arruolamento, istituita a Torino, sceglieva i 
          giovani migliori e più adatti, dai 18 ai 26 anni, per i corpi di 
          linea, mentre quelli troppo giovani o troppo anziani, o scadenti, venivano 
          inviati ai corpi volontari. Per quanto riguarda gli ufficiali ci fu maggior 
          senso pratico e si ebbe il buon senso di accettare la maggior parte di 
          quelli proposti da me: non erano tutti di carriera, ma quasi tutti furono 
          adeguati alle mie aspettative, degni della causa che si propugnava.
 In quei primi tempi il governo abbozzò vari progetti: il primo 
          prevedeva che io operassi verso il confine dei Ducati e avrebbe prodotto 
          ottimi risultati, però ben presto fu modificato, senza dubbio per 
          il timore che io entrassi in contatto con popolazioni che avrebbero potuto 
          rafforzare troppo i corpi volontari, e fui destinato all’estrema 
          sinistra dell’esercito regolare. Comunque mi era cara la prospettiva 
          di rivedere la terra lombarda e la sua gente, così martoriate dalla 
          tirannide straniera. Da principio mi promisero le truppe di frontiera 
          e credo che nessuno abbia pensato ai sottufficiali, comunque non ebbi 
          né gli uni né gli altri, anzi, dato che accorrevano molti 
          volontari, per paura che ne avessi troppi si chiamò il generale 
          Ulloa per formare il gruppo dei Cacciatori degli Appennini: avrebbero 
          dovuto raggiungermi ma per tutta la guerra non li vidi mai.
 Il generale La Marmora, Ministro della Guerra, che si era sempre opposto 
          al reclutamento dei volontari, si rifiutò di riconoscere i gradi 
          dei miei ufficiali, e quindi, per dare una qualche legittimità 
          a quei reietti, si ricorse all’espediente di consegnare loro degli 
          attestati firmati dal ministro dell’Interno e non da quello della 
          Guerra. Sopportavamo ogni cosa in silenzio: bisognava lottare per l’Italia 
          e combattere gli oppressori dei nostri fratelli.
 La situazione politica si evolveva rapidamente: i comportamenti arroganti 
          dell’Austria facevano sembrare prossimo l’inizio del conflitto 
          e ciò dava impulso all’armamento dei volontari, la cui organizzazione 
          procedeva sotto la direzione del generale Cialdini.
 L’ingresso degli austriaci nel territorio piemontese non ci trovò 
          pronti, ma comunque disposti a batterci. Fummo destinati sulla riva destra 
          del Po, a Brusasco, sull’estrema destra della divisione Cialdini 
          che aveva il compito di difendere la linea della Dora Baltea e lo stradale 
          che da Brusasco porta a Torino; il ministero aveva inviato alcuni cannoni 
          al vecchio castello di Varrene per controllare, si diceva, la strada da 
          Vercelli a Torino: ebbi ordine di occupare e difendere questa posizione, 
          cosa che però avrebbe intralciato i miei movimenti se il nemico 
          fosse avanzato. Comunque sia, eravamo lanciati verso la liberazione della 
          nostra Italia, il sogno di tutta la vita! Io e i miei giovani compagni 
          aspettavamo con ansia l’ora del combattimento, come il fidanzato 
          aspetta l’ora di incontrasi con la sua amata. [...]
 Passammo alcuni giorni a Brusasco, a Brozolo, a Pontestura: quelle prime 
          marce servirono ad allenare i soldati e si approfittava delle soste per 
          addestrarli ai vari compiti di avamposto, di pattuglia, ecc.. Essendo 
          stato chiamato il generale Cialdini alla difesa di Casale, fummo ai suoi 
          ordini. Facemmo una sortita e vedemmo gli austriaci per la prima volta: 
          i nemici portarono un finto attacco alle posizioni esterne di quella piazza 
          e il secondo reggimento agli ordini di Medici diede prova di cosa sarebbero 
          stati capaci i Cacciatori delle Alpi, caricando coraggiosamente e mettendo 
          in fuga gli austriaci: in quell’occasione si distinsero il capitano 
          De Cristoforis ed il sergente Guerzoni, poi sottotenente.
 Lo stesso giorno, poco prima dello scontro, ero stato chiamato dal re 
          al suo quartier generale di S. Salvatore: mi ricevette cordialmente e 
          mi diede istruzioni con l’ampia facoltà di andare a coprire 
          la capitale se ci fosse stato il rischio di un improvviso attacco nemico 
          e, una volta venuto meno quel pericolo, di dirigermi verso la destra dell’esercito 
          austriaco. Tornai quindi verso Torino fino a Chivasso: fra gli ordini 
          ricevuti per iscritto dal re c’era quello di radunare ai miei ordini 
          tutti i volontari rimasti nei vari centri di raccolta ed il reggimento 
          dei Cacciatori degli Appennini, composto da giovani venuti da ogni parte 
          d’Italia: a proposito dei Cacciatori scrissi a Cavour ma con vari 
          pretesti non si decise mai a inviarmeli, ed ebbi la conferma che non si 
          voleva che i soldati al mio comando aumentassero. Vecchia storia, cominciata 
          a Milano nel 1848 da Sobrero, continuata a Roma da Campello quando aveva 
          ordinato che i miei uomini non avrebbero dovuto superare i cinquecento, 
          e proseguita da Cavour che limitava a tremila i miei effettivi. I reggimenti 
          erano composti da sei battaglioni, ciascuno di 600 uomini, per un totale 
          di 3.600, ma tra quelli malati e quelli debilitati dalle marce, prima 
          di passare il Ticino si erano ridotti a 3.000.
 Il re, se non avesse avuto il difetto di essere tale, e questo gli attribuisce 
          molte colpe, non era certo peggiore rispetto a quelli che lo attorniavano 
          nel ‘59; inviò un secondo ordine di marciare in direzione 
          del Lago Maggiore per operare sulla destra dell’esercito austriaco: 
          alla combriccola non piacque, ma a me sì, e molto, perché 
          mi trovavo libero di manovrare e ciò valeva come un tesoro. Mi 
          congedai, dunque, dal mio vecchio generale, a cui già mi legava 
          un vero affetto, e marciai fino a Chivasso e poi a Biella. L’accoglienza 
          cordiale e simpatica dei biellesi alla mia gente fu di buon augurio, e 
          dopo un paio di giorni in quella città proseguimmo per Gattinara: 
          da Novara, avendo sentito che mi rivolgevo in quella direzione, gli austriaci 
          inviarono una ventina di soldati per tagliare le corde del ponte della 
          Sesia, ma una nostra postazione glielo impedì a fucilate.
 Non è fuori luogo accennare qui a un fatto vergognoso per noi italiani 
          e che non bisognerebbe permettere. Preceduti dal terrore che avevano saputo 
          diffondere, i dominatori dell’Italia estorcevano dalla gente quello 
          che volevano, prova ne sia quanto avvenne: e stupisce oltremodo essendo 
          accaduto tra le forti popolazioni subalpine, di solide tradizioni militari, 
          che da tempo avevano un brillante esercito. Lo stesso plotone che era 
          stato inviato a tagliare la corda del porto, non essendoci riuscito ritornò 
          verso Novara, e per non fare il viaggio del tutto a vuoto requisirono 
          non so quanti viveri, ed i carri per il trasporto: si avviarono così, 
          sbronzi, percorrendo almeno quindici miglia in un territorio straniero 
          densamente popolato da gente forte e decisa senza che a un solo italiano 
          venisse l’estro di tirare una pietra a quell’accozzaglia di 
          ubriachi. Una cosa così umiliante non dovrebbe verificarsi! Ma 
          succede perché i preti hanno insegnato ai contadini che i nemici 
          dell’Italia non sono gli austriaci ma noi liberali scomunicati! 
          E il governo, per grazia di Dio, protegge i preti! Dieci giovani di quei 
          luoghi che avessero deciso di attaccare quegli invasori a bastonate, li 
          avrebbero disarmati e uccisi: ma tanto possono lo sconforto e la menzogna 
          seminati tra la gente, che rimane fiaccata per quanto sia forte e coraggiosa, 
          quella stessa gente che poi, in caso di bisogno, fornisce soldati che 
          se ben guidati sono tra i migliori del mondo.
 Passata la Sesia ci dirigemmo verso Borgomanero e arrivato lì diedi 
          le varie disposizioni per attraversare il Ticino; [...] a Castelletto 
          trovai le barche pronte subito sotto al paese, feci passare il secondo 
          reggimento col colonnello Medici, mentre gli altri uomini restarono sulla 
          riva destra; il trasferimento fu effettuato ordinatamente, eccettuato 
          il fatto che le barche, essendo appesantite dal carico e quindi difficilmente 
          manovrabili, non approdarono tutte nello stesso punto: alcune venivano 
          spinte troppo a valle dalla corrente e ciò provocò qualche 
          ritardo nel riunire il reggimento sulla riva lombarda.
 Finalmente potemmo dirigere verso Sesto Calende, dove prendemmo prigionieri 
          alcuni gendarmi e predisponemmo il porto in cui venne completato l’attraversamento 
          del resto della brigata: era, credo, il 17 maggio 1859.
 Eravamo in terra lombarda! Al cospetto della potenza che da dieci anni 
          preparava il suo esercito vittorioso, che riteneva invincibile, a compiere 
          quello che non era riuscito a fare a Novara: forse sognando piacevolmente 
          di ficcare le unghie della propria aquila sull’intera penisola.
 Eravamo in tremila, con poco equipaggiamento avendone lasciato la gran 
          parte a Biella: i carri avevano ricevuto ordine di fermarsi in Piemonte, 
          poco distanti dai depositi di munizioni, ed i muli erano stati procurati 
          dal bravo ed instancabile Bertani, capo chirurgo. Da Sesto Calende durante 
          la notte condussi la brigata a Varese, mentre Bixio, col suo battaglione, 
          marciò sulla riva del Lago Maggiore verso Laveno, con l’ordine 
          di fermarsi sullo stradale che da quel punto porta a Varese. De Cristoforis 
          rimase a Sesto con la sua compagnia per garantire le comunicazioni col 
          Piemonte: questo valoroso ufficiale fu il primo, come lo fu a Casale, 
          a scontrarsi col nemico: pensando che fossimo a Sesto, gli austriaci inviarono 
          lì in ricognizione un forte reparto e vi trovarono la sola compagnia 
          di De Cristoforis, il quale non badò al numero dei nemici, si batté 
          con decisione e dopo una battaglia onorevole ripiegò verso il distaccamento 
          di Bixio; così eravamo restati d’accordo, perché ero 
          del tutto consapevole che non potevamo tenere l’importantissima 
          posizione di Sesto con forze così ridotte. Gli austriaci, però, 
          con la loro tipica prudenza, non tennero quel punto strategico e tornarono 
          a Milano.
 Nel frattempo le popolazioni lombarde si animavano, anche se non c’era 
          da attendersi una di quelle insurrezioni decisive: troppe erano state 
          le disillusioni e le sofferenze: i giovani più coraggiosi si trovavano 
          con l’esercito austriaco, col nostro, in esilio, o coi volontari, 
          tuttavia ero contento anche di quelli che ci accoglievano, per le premure 
          che ci usavano nel fornirci aiuto ed informazioni sui movimenti nemici; 
          soprattutto le donne, poi, si prodigavano a curare i nostri feriti. L’accoglienza 
          ricevuta a Varese quella notte è qualcosa che difficilmente si 
          può descrivere: pioveva a dirotta, eppure non credo che mancasse 
          un solo abitante, uomo, donna o ragazzo, al nostro arrivo, ed era uno 
          spettacolo commovente vedere soldati e civili stretti in un unico delirante 
          abbraccio; le donne e le ragazze, lasciando da parte il consueto pudore, 
          si lanciavano al collo dei rudi soldati con ardore febbrile. Non tutti 
          i miei soldati, in ogni modo, erano rozzi, dato che molti di loro appartenevano 
          a stimate famiglie della Lombardia o di altre province, ma erano comunque 
          tutti italiani, legati dal sacro giuramento per la patria, come a Pontida. 
          [...]
 Eravamo in una città amica e piena di entusiasmo, e che, compromessa 
          com’era, dovevamo difendere: tuttavia di fronte all’immenso 
          esercito austriaco con tremila uomini si può difendere ben poco, 
          oltre al fatto che, dovendo badare alla difesa di una città, perdevamo 
          quella capacità di manovrare, in modo imprevedibile e segreto, 
          che costituiva la nostra risorsa più preziosa sul fianco dell’avversario. 
          Varese ha delle posizioni forti, come ad esempio Bium, e avrebbe potuto 
          essere ben protetta se vi fossero state delle fortificazioni, che però 
          mancavano: erigemmo delle barricate alle entrate principali della città 
          e alcuni cittadini si armarono coi fucili che essi stessi avevano preso 
          ai nemici.
 Urban era il generale austriaco destinato al nostro sterminio: le prime 
          notizie che ebbi su quel feroce nemico erano che comandava addirittura 
          quarantamila uomini, e con nemici di stanza a Laveno e un reggimento in 
          marcia da Milano c’era proprio da avere i brividi. [...]
 La mattina del 25 maggio fu avvistata la colonna nemica che avanzava su 
          Varese lungo lo stradale di Como: il capitano Nicolò Suzini, che 
          con la sua compagnia era stato inviato a tendere un’imboscata a 
          circa un miglio dalla città, in un casolare di campagna che dominava 
          lo stradale, ricevette il nemico con grande bravura; dopo averlo tenuto 
          a bada per un pezzo a fucilate, da distanza ravvicinata, si ritirò 
          sulla nostra destra, e a quel punto Urban formò la sua colonna 
          per l’attacco: facendola precedere da alcune linee di tiratori la 
          lanciò sulla nostra sinistra, e fu accolta con sangue freddo dai 
          veterani, sostenuti dal battaglione Marrocchetti. Lo scontro durò 
          poco: dopo averli ricevuti sparando a bruciapelo, i prodi cacciatori del 
          secondo reggimento, incitati da Medici e Sacchi, saltarono fuori dai ripari 
          e caricarono alla baionetta, facendo rifare agli austriaci la strada da 
          cui erano venuti, ma assai più in fretta.
 Mi ero immaginato che l’attacco non si sarebbe limitato solo al 
          fronte della nostra ala sinistra, perché, secondo tutte le regole, 
          per dare l’assalto ad una posizione come quella di Varese sarebbe 
          stato necessario fare una diversione sullo stradale e concentrare il grosso 
          delle forze sulla parte opposta, a nord di Bium, dove il terreno offre 
          una posizione dominante. Urban, invece, prese il toro per le corna, e 
          tanto meglio per noi, perché, pochi come eravamo, avevamo bisogno 
          di non essere distratti da attacchi combinati in tanti punti diversi e 
          in più anche dalla parte di Milano dove c’erano considerevoli 
          forze nemiche. Avevo fissato il mio quartier generale sopra Bium, in una 
          posizione dominante, preziosa per tenere sotto controllo tutto il campo 
          di battaglia, e potevo osservare perfettamente ogni movimento, sia nostro 
          che del nemico: verso nord, dove non riuscivo a vedere, inviai in esplorazione 
          il capitano Simonetta con le sue guide, di cui mi fidavo ciecamente.
 Sicuro che l’attacco si svolgesse unicamente sul nostro fronte sinistro, 
          scesi da Bium e feci seguire gli spostamenti del nemico, ordinando che 
          il resto della brigata continuasse a muoversi regolarmente: con i due 
          pezzi di artiglieria che avevano già usato a Varese ed un plotone 
          di cavalleria di scorta, i nemici si fermavano ad ogni buona posizione, 
          ma si ritiravano al primo apparire dei nostri, che pure erano in difficoltà 
          dovendo fronteggiare senza cannoni e cavalleria un avversario dotato di 
          tutte e tre le armi. Solo a S. Salvatore, dopo Malnate, gli austriaci 
          fecero resistenza e si svolse un accanito combattimento a fucilate in 
          cui si distinsero i coraggiosi carabinieri genovesi: i nemici erano da 
          una parte di un burrone perpendicolare alla strada e i nostri dall’altra, 
          ed avemmo più feriti che nel primo scontro, essendo lì gli 
          austriaci in posizione dominante e protetti da un folto bosco. Il nemico, 
          imbaldanzito da quel vantaggio e dal fatto di avere sia cannoni sia fucili 
          migliori dei nostri, fece avanzare sulla nostra sinistra un corpo di fanti 
          che ci caricò energicamente facendoci indietreggiare molto: i nostri 
          però tenevano una cascina che sovrastava tutto il campo di battaglia 
          e quando ricevettero rinforzi caricarono a loro volta con tanto vigore 
          da cacciare il nemico giù nel burrone, da cui non si vide uscire 
          più nessuno.
 La posizione austriaca al di là del burrone restava inattaccabile, 
          quindi pensavo di aggirarla: non era impossibile, dato che tenevamo quella 
          cascina in alto da cui, quasi al coperto, potevamo oltrepassare la parte 
          superiore del dirupo senza che ce lo potessero impedire; stavo per dare 
          l’ordine quando arrivò come un fulmine la notizia che una 
          forte colonna nemica, sulla nostra sinistra, marciava su Varese: rimasi 
          frastornato e mi chiesi se allora la ritirata di Urban non fosse stato 
          altro che uno stratagemma. Ero davvero contrariato e ordinai al colonnello 
          Cosenz, che comandava la riserva, di andare subito a Varese, occuparla 
          militarmente e resistere a oltranza. Feci avanzare la brigata sulle alture 
          di sinistra per ingannare il nemico, che non poteva sapere se puntavamo 
          ad aggirarlo, e quando fummo al riparo della montagna girammo a sinistra 
          per un sentiero e di lì marciammo verso Varese senza perdere tempo. 
          Restava sempre la minaccia della colonna nemica in marcia sulla città, 
          che era stata vista non solo da contadini e soldati ma anche da ufficiali 
          superiori, ma una volta arrivati a Varese la notizia perse consistenza 
          e svanì tra le acclamazioni popolari, come una nuvola nera scacciata 
          dall’entusiasmo cittadino. [...]
 Tutti i feriti, italiani e austriaci, furono raccolti e portati in città: 
          i prigionieri avrebbero potuto meritatamente pagare col sangue quello 
          versato dai nostri che erano stati assassinati, Ugo Bassi, Ciceruacchio 
          e tanti altri, ed invece furono trattati con cura forse maggiore di quella 
          riservata ai nostri stessi soldati. Non importa, l’Italia fa bene 
          ad essere umana coi propri carnefici: il perdono è prerogativa 
          dei grandi e l’Italia sarà grande, quando sarà libera 
          dalla nera e schifosa genia dei gesuiti e dei gesuitanti!
 Con tutta la brigata procedemmo dunque verso Varese, per far riposare 
          la nostra gente, molto stanca. Fu questa la prima battaglia dei Cacciatori 
          delle Alpi, che dimostrarono un coraggio superiore a tutte le aspettative: 
          soldati giovani, che per la maggior parte non avevano mai combattuto, 
          avevano affrontato truppe regolari abituate a disprezzare gli italiani 
          e le avevano sempre messe in fuga: questa prima vittoria mi sembrò 
          di buon auspicio.
 Le nostre perdite, rispetto a quelle nemiche, erano state numericamente 
          insignificanti, ma importanti considerando il tipo di uomini che perdevamo, 
          perché la maggior parte dei soldati ai miei ordini erano giovani 
          di famiglie illustri: questo era il meno, dato che il tributo alla patria 
          lo devono pagare sia gli altolocati che i proletari, il fatto è 
          che tra loro, come semplici soldati, c’erano delle vere celebrità 
          artistiche. Bella e cara gioventù, speranza dell’Italia, 
          che nell’avventurosa leggenda del suo risorgimento doveva dare gli 
          uomini che fecero Calatafimi, Monterotondo e Digione. Tra i feriti non 
          si udiva un lamento e se si udiva qualche grido fra chi veniva operato 
          dal chirurgo quello era "Viva l’Italia!": e quando un 
          popolo arriva a questo punto, le tiare papali, le prepotenze dello straniero 
          e la tirannide interna possono far fagotto. Tra i morti c’era pure 
          un figlio, il primo che perse, della donna per la quale i posteri confonderanno 
          questa epoca con quella di Sparta e di Roma, un figlio dell’incomparabile 
          madre dei Cairoli, l’illustre signora pavese; il più giovane 
          dei tre che si erano arruolati, Ernesto, combattendo era caduto, col petto 
          straziato dal piombo austriaco, sul cadavere di un tamburino nemico che 
          aveva ucciso con la baionetta. Pensai al dolore di quella madre, così 
          affettuosa coi figli e con chiunque avesse la fortuna d’incontrarla: 
          quello stesso giorno incontrai il fratello maggiore, Benedetto, valoroso 
          e modesto ufficiale, che mi era caro come tutta la sua famiglia: i suoi 
          occhi incontrarono i miei, ma nessuno dei due pronunciò parola; 
          lessi soltanto nel suo sguardo malinconico "Mia madre…" 
          e anch’io pensai all’infinità di dolori che aspettavano 
          quella donna generosa!
 E quanti altri, dei quali non conoscevo le madri, giacevano morti su quel 
          campo insanguinato, o mutilati e morenti, col desiderio di vedere ancora 
          una volta la povera madre! Poveri giovani! O, piuttosto, felici giovani, 
          il cui sangue riscattava una volta per tutte l’Italia dalla schiavitù! 
          Le generose donne di Varese rimediavano all’assenza dei genitori. 
          Donne italiane, vedete, io scrivo commosso: non lo credereste, ma ho pianto 
          nel raccontare dei Cairoli; sarà debolezza, prendetela come volete, 
          eppure con tutti i cadaveri ed i feriti che ho visto sui campi di battaglia 
          mi sento ancora, permettetemi la presunzione, non più forte di 
          quando avevo vent’anni ma appassionato come allora se si tratta 
          di lottare per la nostra terra! Dio mi conceda di chiudere gli occhi pronunciando 
          queste ultime parole: "Essa è completamente libera!" 
          Sì, le donne di Varese sostituivano le madri dei nostri feriti 
          e, bisogna ammetterlo, anche i feriti austriaci dividevano le cure di 
          quelle sante donne. [...]
 Sono nel dubbio se il giorno della battaglia di Varese sia stato il 25 
          o il 26 maggio, ma è certo però che il 27 si marciò 
          su Como. Sapevo bene quanto era importante attaccare un nemico sbandato 
          da una prima sconfitta, per quanto fosse forte, e non volevo perdere questa 
          occasione.
 La mattina del 27 lasciammo Varese dirigendoci verso Como lungo la strada 
          di Cavallasca, dove giungemmo verso mezzogiorno; i soldati avevano marciato 
          molto ed erano stanchi, ma l’orario era quello adatto: poco prima 
          di notte si può attaccare con meno pericolo anche una forza superiore, 
          soprattutto in zone montuose come quelle in cui dovevamo combattere e 
          nelle quali la cavalleria e l’artiglieria possedute dal nemico avevano 
          poca efficacia. Lasciai quindi riposare la gente e cominciai a prendere 
          tutte le informazioni possibili sulle posizioni occupate dal nemico, sulla 
          sua forza, ecc.; informato che teneva la forte posizione di S. Fermo, 
          che ritenni essere quella chiave, inviai due compagnie, agli ordini del 
          bravo capitano Cenni, per aggirarla sulla destra, mentre il secondo reggimento 
          avrebbe attaccato di fronte non appena le compagnie fiancheggiatrici avessero 
          avuto il tempo di portarsi sul fianco nemico. E al momento stabilito attaccarono: 
          il colonnello Medici di fronte e le compagnie di Cenni sul fianco; il 
          nemico resse coraggiosamente, battendosi con tenacia e valore, da un’ottima 
          posizione difesa da un robusto recinto, e il combattimento durò 
          accanitamente per un’ora, finché, accerchiati da tutte le 
          parti, gli austriaci cominciarono a cedere, alcuni fuggendo altri arrendendosi.
 Questo primo rapido successo ci rese padroni di tutti i punti strategici, 
          e ciò fu di grande importanza perché consistenti rinforzi 
          austriaci avanzavano dalla Camerlata e da Como; Medici sulla destra e 
          Cosenz sulla sinistra, appoggiati da alcune compagnie del terzo reggimento 
          guidate dai prodi maggiori Bixio e Quintini, respinsero ovunque il nemico, 
          ed il fuoco dei bravi carabinieri genovesi, con le loro armi di precisione, 
          contribuì molto al buon risultato della giornata. I nemici erano 
          molti ed i nostri Cacciatori delle Alpi non avevano che la superiorità 
          del terreno conquistata di slancio: gli austriaci erano respinti, però 
          in quella zona montuosa essi riuscivano sempre a trovare posti sicuri 
          in cui fermarsi e da cui talvolta respingevano i nostri che li incalzavano. 
          Quella configurazione del terreno impediva di avere una visione generale 
          e spesso si aveva notizia di uno scontro dalle fucilate che si udivano: 
          dall’alto si scorgevano le robuste riserve nemiche, ben schierate 
          nei pendii sottostanti, e i dodici pezzi di artiglieria che però 
          non vennero utilizzati.
 Al calar della notte procurai di raggruppare le nostre forze, sparpagliate 
          a causa del luogo accidentato e della molteplicità degli scontri: 
          riunita la brigata, procedemmo subito lungo lo stradale che scende a Como 
          a zig zag, e mentre noi avanzavamo loro retrocedevano; nel borgo S. Vito 
          ci fermammo per raccogliere informazioni, ma era difficile trovare gli 
          abitanti del posto, scomparsi per paura di venir maltrattati. Finalmente 
          decidemmo di entrare in città.
 La popolazione all’inizio era impaurita, perché era buio 
          e non riusciva a individuare chi fossero gli attaccanti, porte e finestre 
          erano tutte chiuse e non si vedeva nessuno: ma quando ci sentirono parlare 
          e capirono che eravamo noi, gli italiani!, accade uno spettacolo indescrivibile 
          e che avrebbe meritato di essere illuminato dal sole. Fu come scoppio 
          di una mina: in un lampo la città fu illuminata, le finestre piene 
          di gente, le strade gremite, tutte le campane suonarono a distesa e questo 
          contribuì non poco a spaventare i nemici in fuga. Chi può 
          descrivere la scena commovente di Como in quella notte e chi può 
          ricordarla senza emozione? La popolazione era frenetica: uomini, donne 
          e bambini si erano come impadroniti dei miei soldati, abbracci, pianti, 
          grida, pazzie, erano all’ordine della notte! I pochi a cavallo che 
          come me marciavano alla testa della colonna facevano fatica a non essere 
          rovesciati, o tirati giù per le gambe, soprattutto dalle ragazze 
          la cui bellezza sembrava autorizzarle a spadroneggiare sui compatrioti 
          liberatori!
 Dei nemici non si avevano notizie certe: chi diceva che erano in questo 
          o in quel luogo, chi diceva che fossero in marcia verso la Camerlata: 
          in realtà mentre noi entravamo da una parte loro uscivano dall’altra, 
          e, non sentendosi al sicuro alla Camerlata, proseguirono in gran fretta 
          verso Milano, lasciando nei depositi molte armi e vettovaglie. I poveri, 
          coraggiosi Cacciatori delle Alpi bivaccarono per le vie e le piazze di 
          Como, ed avevano tutte le ragioni per essere stanchi: partiti la mattina 
          da Varese, avevano marciato tutto il giorno, combattuto, e ancora marciato 
          per metà della notte, ed era un miracolo per dei giovani non abituati 
          alla fatica delle marce. Solo l’amor di patria riusciva a tenere 
          in piedi quella magnifica gioventù italiana.
 Io mi comportai da veterano: dopo aver organizzato la costruzione di alcune 
          barricate all’imbocco della strada per la Camerlata e aver contemplato 
          pieno di affetto i miei stanchi compagni, sdraiati per le strade e le 
          piazze, accettai l’ospitalità offertami, credo, in casa Rovelli.
 Il nemico aveva ricevuto un duro colpo: c’era da supporre che avesse 
          avuto molti dispersi a causa della natura del terreno, dei combattimenti 
          e della notte avanzata, e infatti fu così. Però, tenendo 
          conto che gli austriaci avevano circa 9.000 uomini, dodici cannoni, un 
          bel po’ di cavalleria, e noi meno di 3.000 soldati, con poche guide 
          a cavallo e senza un solo cannone, e considerando che Como era in un avvallamento 
          ovunque sovrastato da notevoli alture, ero in ansia per quanto sarebbe 
          potuto accadere il giorno seguente se avessimo avuto a che fare con un 
          avversario intraprendente. Tutti questi pensieri turbarono il mio brevissimo 
          riposo e l’alba mi trovò a cavallo diretto alla Camerlata 
          per raccogliere informazioni sul nemico: la sostanza fu che aveva evacuato 
          quel punto importante, e ne fui lieto, perché i miei soldati erano 
          così provati da non augurare loro un combattimento per quella giornata. 
          Si occupò militarmente la Camerlata e i Cacciatori poterono riposare 
          tutto il giorno, con enorme soddisfazione.
 Avevamo pagato la vittoria con perdite importanti: i morti e i feriti 
          non erano molti, ma di grande valore. [...] Giovani coraggiosi, le vostra 
          ossa serviranno da fondamenta all’edificio di quella patria che 
          avete amato così tanto, e le donne delle future generazioni italiane 
          insegneranno ai bambini a benedire i vostri nomi e gli racconteranno le 
          vostre gesta gloriose! Non ricordo i nomi dei tanti fratelli caduti in 
          quella gloriosa battaglia in cui pochi ed inesperti giovani, col loro 
          slancio patriottico, sbaragliarono le truppe assai più numerose 
          del generale Urban, che fuggì sino a Monza senza voltarsi per vedere 
          chi l’aveva sconfitto.
 La presa di Como rafforzava la nostra situazione in termini di equipaggiamento, 
          di armi, di rinforzi e di prestigio; le imbarcazioni, grazie alla disponibilità 
          dell’amministrazione comunale e dei comandanti, erano nostre e quindi 
          eravamo padroni del Verbano: tutti i paesi del lago, la Valtellina, Lecco, 
          ecc., si erano pronunciati a nostro favore e dovunque si chiedevano armi 
          per combattere in difesa della patria. Però ci mancavano armamenti 
          e soprattutto munizioni, consumate nei precedenti scontri e non solo eravamo 
          lontani dalla nostra base, il Piemonte, ma le comunicazioni erano quasi 
          completamente interrotte: sotto quest’ultimo aspetto il patriottismo 
          di alcune persone era di aiuto, però armi e munizioni era impossibile 
          averne. Ciò mi diede l’idea di riavvicinarmi al Lago Maggiore 
          e allo stesso tempo tentare un colpo di mano a Laveno, ed ecco, dunque, 
          i Cacciatori delle Alpi di nuovo sulla strada da Como a Varese.
 Al maggiore Bixio, distinto ed energico ufficiale, uno di quelli, come 
          Cosenz e Medici, a cui si può tranquillamente affidare il comando 
          di qualsiasi azione, diedi l’incarico di andare in avanscoperta 
          su Laveno, ma non toccò a lui attaccare: nell’avvicinarmi 
          mi fu suggerito di allargare la manovra anche al lago e Bixio era il più 
          adatto per questa mossa, perché alle capacità di un bravo 
          soldato univa quelle di un esperto marinaio. A Gavirate suddividemmo i 
          reparti nella zona, e anche se avrei potuto tentare un deciso attacco 
          notturno su Laveno con tutta la brigata, ebbi notizia che Urban era sulle 
          nostre tracce ed aveva ricevuto rinforzi: quindi risolsi di non impegnare 
          assolutamente tutte le forze avendo non lontano un formidabile nemico 
          alle spalle.
 Mi limitai a un colpo di mano parziale condotto da due compagnie del primo 
          reggimento alla guida dei capitani Bronzetti e Landi e appoggiate dal 
          maggiore Marrocchetti col resto del battaglione e dal colonnello Cosenz 
          con resto del reggimento; frattanto il bravo capitano Griziotti mi aveva 
          portato due piccoli obici di montagna e due cannoncini con alcuni proiettili. 
          L’operazione non riuscì: il capitano Landi, che la iniziò, 
          entrò nel forte verso l’una di mattina con una ventina di 
          uomini ma, non essendo stato seguito dal resto della compagnia, dovette 
          evacuare, essendo anche rimasto gravemente ferito, mentre il capitano 
          Bronzetti, condotto fuori strada dalle guide, non arrivò in tempo 
          per partecipare all’assalto: respinti, i nostri rimasero allo scoperto 
          e da dietro i ripari il nemico riuscì facilmente a ferirne alcuni. 
          Se Landi fosse entrato con tutti gli uomini e fosse stato seguito dalla 
          compagnia di Bronzetti, il forte, difeso da un’ottantina di austriaci, 
          sarebbe certamente caduto in mano nostra, e, presa quella posizione dominante, 
          avrei potuto agevolmente occupare Laveno e tenere così aperte le 
          comunicazioni col Piemonte. Niente assalto al forte e niente operazione 
          sul lago, non essendo Bixio riuscito a convincere le barche della finanza 
          sulla riva piemontese ad accompagnarlo; fu quindi necessario prepararsi 
          alla ritirata, e quando all’alba il nemico capì che il nostro 
          attacco era fallito iniziò un fuoco tremendo contro le compagnie 
          in ritirata e le riserve: dai forti e dai vapori cannoneggiavano disperatamente, 
          come se avessero voluto vendicarsi della paura avuta quella notte, e tiravano 
          anche dei razzi, che erano il loro divertimento preferito; un vero trastullo, 
          dato che non ho mai visto un uomo od un animale feriti da quegli spauracchi. 
          [...]
 A sud di Laveno c’è un’altura boscosa dalla quale si 
          domina perfettamente tutta la zona e avevo fatto sistemare lì la 
          nostra modesta artiglieria, che servì ad allontanare le navi nemiche 
          consentendo così una ritirata ordinata. [...]
 La sera dello stesso giorno fui avvisato che Urban era entrato a Varese 
          e ne fui molto contrariato: eravamo tagliati fuori da Como e non c’era 
          tempo da perdere: con tutta la brigata ci avviammo in fretta in Valcuvia, 
          attraversammo Vaganna e arrivammo in vista di Varese, con l’avanguardia 
          sotto Bium superiore; calava la notte e potevamo attaccare con rischio 
          ridotto e comunque con la ritirata sicura verso le buone posizioni di 
          Valganna. Dalle alture che a nord sovrastano Varese avevo osservato con 
          cura tutte le posizioni degli austriaci e mi parve che fossero davvero 
          molti, da dodici a quindicimila, anche se non così tanti come dicevano 
          gli abitanti della zona: vidi anche artiglieria, naturalmente ben posizionata. 
          Volevo davvero attaccare e liberare Varese, ma sapevo anche che Urban 
          era capace di far pagare le proprie sconfitte agli abitanti della città, 
          quindi non attaccai e tornai a Como.
 A Malnate c’era un distaccamento austriaco e quindi non potevamo 
          seguire lo stradale, così dovemmo seguire i percorsi di campagna, 
          grazie alle guide fornite dal podestà di Arcisate, sotto un diluvio 
          che per tutto il tragitto non s’interruppe un minuto: fu un’altra 
          prova di tenacia e di coraggio per i miei giovani compagni. Passammo a 
          poca distanza da Malnate, ma il temporale era così forte che non 
          c’era pericolo d’incontrare esploratori austriaci: la colonna 
          si era fatta lunghissima e quando cercai di fermarne la testa non fu possibile, 
          solo marciando era possibile resistere alla bufera e al freddo che affliggevano 
          i soldati; fu una marcia lunga e faticosa: la traversata di alcuni fiumicelli 
          e torrenti ingrossati fu molto difficoltosa, soprattutto per la coda e 
          per i cavalli.
 Giunti a Como i Cacciatori furono accolti dalla gente con l’abituale 
          sollecitudine e presto pericoli e fatiche furono dimenticati: finalmente 
          eravamo arrivati, perché in città si era diffusa grande 
          preoccupazione per la nostra lontananza, dato che gli austriaci ed i loro 
          amici preti, maestri di menzogne, le avevano inventate tutte, con un talento 
          speciale nel far apparire ovunque masse di nemici. Le autorità 
          si erano ritirate sul lago, e così pure alcune compagnie che avevo 
          lasciato lì, e i feriti erano stati malauguratamente trasportati 
          a Menaggio: tutto questo aveva creato sgomento fra la popolazione e se 
          una qualsiasi forza nemica fosse capitata a Como avrebbe preso il controllo 
          di tutta la zona. Chi mi aveva informato di tutto fu una coraggiosa ed 
          avvenente fanciulla che apparve come una visione, su una vettura, lungo 
          la strada da Rubarolo a Varese, mentre marciavo in quella direzione per 
          attaccare Urban: questa bella ragazza era partita da Como per annunciarmi 
          lo stato deplorevole in cui versava la città e per sollecitare 
          il mio ritorno.
 A Como pensammo ad organizzare qualche difesa nei punti più importanti 
          della zona e la popolazione collaborò attivamente; però 
          la battaglia di Magenta svoltasi in quei giorni cambiò ogni cosa: 
          quella vittoria elettrizzò tutti e migliorò molto la nostra 
          situazione, mentre quella di Urban a Varese diventava critica, tanto che 
          non sarebbe stato difficile costringerlo ad arrendersi se solo avessimo 
          avuto poche migliaia di uomini in più. Ma considerato che in quei 
          giorni la mia brigata contava circa duemila soldati validi, non potevo 
          certo rischiare di essere spazzato via cercando di sbarrare il passo ad 
          un nemico tanto più forte. Avevo già deciso di spingermi 
          sulla strada per Monza, che Urban doveva percorrere, ma cambiai idea per 
          varie ragioni, soprattutto perché Urban, sapendoci lì, avrebbe 
          preso la strada per Como, per noi più importante e sicura sotto 
          tutti gli aspetti.
 Padroni del lago di Como e dei vapori, non c’era più un solo 
          punto del lago che non avesse abbassato le odiate insegne dell’Austria 
          ed innalzato il tricolore: l’importante città di Lecco ci 
          apriva pure la grande strada della Valtellina e quella ad est che va a 
          Bergamo e Brescia, con cui era già in stretti contatti il nostro 
          prode Gabriele Camozzi. [...] Ho già accennato ai motivi che m’impedivano 
          di collocarmi sulla linea di ritirata di Urban, e quindi, non intendendo 
          prendere quella decisione e non volendo nemmeno restare inattivo, decisi 
          di operare sulla linea di Lecco, Bergamo e Brescia, zona più adatta 
          alle esigue forze a cui era ridotta la brigata e quindi al tipo di operazioni 
          che poteva condurre. Continuavamo a incoraggiare l’insurrezione 
          di queste città e paesi, mantenendo sempre la nostra libertà 
          d’azione, e si cominciò ad imbarcare sui vapori per Lecco 
          parte della brigata; frattanto ricevetti un dispaccio dal generale Fanti 
          in cui mi chiedeva se ritenevo possibile operare di concerto con le sue 
          forze contro Urban: ma siccome non vidi il messaggero, né mi veniva 
          richiesta risposta, continuai la mia manovra verso Bergamo, lasciando 
          agli alleati il compito di inseguire Urban in quel momento in ritirata 
          verso Monza e l’Adda.
 Da Lecco proseguimmo verso Bergamo, dove si trovavano gli austriaci: venne 
          fatto prigioniero un ufficiale nemico che girava nei dintorni per imporre 
          agli abitanti una tassa di dodicimila svanziche, sotto la minaccia, in 
          caso di rifiuto, di distruggere i paesi: le solite cortesie di quei gentili 
          padroni, abituati a mettere in pratica subito i loro avvertimenti, ma 
          stavolta furono pagati con una moneta analoga a quella con cui Camillo 
          pagò i Galli a Roma, cioè col ferro. Avvicinandoci a Bergamo 
          al mattino presto, venimmo a sapere che gli austriaci stavano evacuando 
          la città e per quanto fossimo veloci non riuscimmo a raggiungerli; 
          occupammo la città, dove trovammo cannoni e molte munizioni che 
          il nemico non era riuscito a distruggere.
 Qui accadde un fatto curioso: dalla stazione ci arrivò la notizia 
          che un corpo di mille uomini era partito da Milano in aiuto al presidio 
          austriaco di Bergamo, e quindi radunai la brigata proprio in quella stazione, 
          facendo nascondere gli uomini nei fossi e nei caseggiati circostanti; 
          stava effettivamente avvicinandosi un treno con le truppe, ma un cantoniere 
          austriaco che si trovava a Seriate, a circa due miglia di distanza, avvisò 
          della nostra presenza e quindi il nemico non proseguì, fermandosi 
          a Seriate, probabilmente indeciso sul da farsi. Il capitano Bronzetti, 
          inviato in quella direzione con la sua compagnia, in segno di riconoscenza 
          caricò energicamente il nemico, dieci volte più numeroso, 
          e lo mise in fuga.
 Ci fermammo poco a Bergamo: sapendo che gli austriaci stavano raccogliendo 
          tributi tra i paesi della bassa, con la brigata ci muovemmo in quella 
          direzione, risparmiando un sacco di ruberie ai poveri abitanti delle campagne; 
          ci avviammo poi verso Palazzolo, dove già avevo fatto arrivare 
          Cosenz col suo reggimento; giunti lì, e sapendo che il nemico stava 
          dirigendosi su Brescia, ordinai di accelerare la marcia verso quell’illustre 
          città, che temeva un ritorno degli austriaci: alcuni inviati della 
          città erano appunto venuti a ragguagliarmi e a sollecitarmi a nome 
          della popolazione.
 I miei poveri Cacciatori erano arrivati a Palazzolo estenuati dalle marce 
          forzate, ma contavo sull’entusiasmo dei coraggiosi giovani che mi 
          seguivano, e non mi sbagliai: feci fare ai comandanti una rapida indagine 
          per verificare se gli uomini erano disposti a proseguire quella notte 
          stessa fino a Brescia ed una sola voce si levò tra quei valorosi 
          difensori dell’Italia: a Brescia, a Brescia! E verso le undici di 
          sera eccoli ancora in cammino, con la stessa allegria e disinvoltura, 
          indifferenti come al solito ai disagi ed alla stanchezza.
 Cacciatori delle Alpi, miei giovani e coraggiosi compagni! Mentre scrivo 
          di voi, ed è l’unico segno del mio affetto che io possa darvi, 
          siete perseguitati dalla pignoleria e dall’invidia di chi non fece 
          nulla, mentre voi agiste da veri patrioti: oggi i vostri prodi ufficiali 
          sono soppiantati dai Tersiti dell’Iliade italiana, che gozzovigliano 
          riccamente mentre i nostri migliori, respinti come fossero avversari, 
          vagano elemosinando per le stesse contrade dove insieme a voi sconfissero 
          i saccheggiatori delle nostra terre. Ebbene, Cacciatori delle Alpi, miei 
          poveri e generosi fratelli d’armi, il nostro paese non potrà 
          rifiutarvi una lode per la tante fatiche sopportate e spera che, benché 
          rifiutati e bistrattati dai malvagi, tornerete ancora a combatte i suoi 
          nemici con lo stesso slancio e con lo stesso entusiasmo. [...]
 A metà strada fra Palazzolo e Brescia, in un punto che non ricordo, 
          c’era il nemico: non dovevamo attaccarlo, ma evitarlo, altrimenti 
          la nostra azione avrebbe subito un ritardo e in ogni caso c’erano 
          poche probabilità di successo contro un avversario più forte; 
          prendemmo quindi una strada a sinistra, buona e non molto più lunga. 
          Avvisati, i bresciani ci mandarono incontro molti carri su cui caricare 
          gli uomini più stanchi, e la mattina seguente arrivammo a Brescia: 
          tutta popolazione si era riunita per accoglierci, come avevano fatto a 
          Bergamo, ma con un entusiasmo ancora maggiore, che si potrebbe definire 
          bresciano, cioè unico! Palermo, Genova, Milano, Brescia, Messina, 
          Bologna, Casale! Quando tutte le città italiane si decideranno 
          a trattare il nemico come avete fatto voi, questa nostra terra non sarà 
          più terra di padroni e servi, ma di gente libera e rispettata da 
          tutti.
 Nella rocca di Brescia, come in quella di Bergamo, trovammo molti cannoni 
          e munizioni; ci fermammo alcuni giorni per lasciar riposare i soldati, 
          poi proseguimmo verso Rezzato ed il fiume Chiese, dove pensavamo che il 
          nemico transitasse in ritirata: in realtà si trovava ancora a Castenedolo, 
          lo si capiva dalle loro molte pattuglie che si avvicinavano alla strada 
          provinciale che da Brescia va a ponte S. Marco; a Rezzato ricevetti ordine 
          dal quartier generale del re di occupare Lonato: per questa operazione 
          mi avrebbero mandato due reggimenti di cavalleria ed una batteria di artiglieria, 
          agli ordini del generale Sambuy. Coi nemici presenti in forze a Castenedolo 
          non potevo certo passare il Chiese a ponte S. Marco e cercai informazioni 
          su dove poter passare più in alto, decidendo quindi di ricostruire 
          il ponte del Bettoletto, distrutto dagli austriaci alcuni giorni prima.
 L’ordine del re, quantunque all’inizio accolto con gioia, 
          mi metteva in difficoltà a causa dei reggimenti di cavalleria e 
          di artiglieria che dovevano raggiungerci: marciando con tutta la brigata 
          sul Chiese, avrei lasciato lo stradale scoperto, dove cioè cavalleria 
          ed artiglieria avrebbero sicuramente corso dei rischi, e dunque decisi 
          di lasciare il primo ed il secondo reggimento scaglionati sullo stradale, 
          facendo fronte agli austriaci di Castenedolo ed osservandoli; con una 
          parte del terzo, la compagnia dei bersaglieri genovesi, i quattro pezzi 
          e le guide, andai sul Chiese per avviare la costruzione del ponte: era 
          quasi ultimato quando mi comunicarono che il nemico aveva attaccato i 
          due nostri reggimenti lasciati sullo stradale, e quindi abbandonai il 
          luogo dei lavori e al galoppo mi diressi verso il punto dello scontro. 
          Il primo reggimento che era stato attaccato, agli ordini dei valorosi 
          colonnelli Cosenz e Tòrr con gran bravura aveva respinto il nemico 
          fino al grosso di Castenedolo, ma sopraffatto dal numero fu poi obbligato 
          a battere in ritirata, e fu così che lo trovai, un po’ disordinato, 
          quando giunsi sul campo di battaglia, col colonnello Tòrr, ferito, 
          che era stato portato via; io ed i miei bravi aiutanti, Cenni, Trecchi 
          e Meryweather, riordinammo a dovere i prodi Cacciatori, che fronteggiarono 
          nuovamente il nemico e che tuttavia dovettero cedere ancora al numero 
          assai superiore degli austriaci, i quali non solo incalzavano anteriormente 
          ma cercavano di aggirarli per circondarli: la ritirata, comunque, avvenne 
          ordinatamente e protetta dal secondo reggimento che era stato avvisato 
          dal mio Capo di Stato Maggiore, il maggiore Carrano.
 Tra i bravi ufficiali caduti vi fu il maggiore Bronzetti, che si era meritato 
          il titolo di prode dei prodi. [...] Non so se riuscirò mai a rendere 
          noti i nomi, che ora non ricordo, dei miei tanti fratelli d’armi, 
          martiri dell’Italia, che così valorosamente combatterono 
          e caddero sul campo, in quel giorno memorabile per i Cacciatori delle 
          Alpi: un giorno che fu detto dei tre ponti e che fu il più combattuto 
          e micidiale per il primo reggimento; il secondo fu all’altezza della 
          gloria conquistata negli scontri precedenti e le compagnie del terzo, 
          comandate dal bravo maggiore Croce, dimostrarono di essere degne di combattere 
          accanto ai loro eroici compagni. [...]
 La battaglia si svolse in condizioni per noi sfavorevoli, dato che avevamo 
          avuto l’onore di essere agli ordini diretti del quartier generale 
          del re e quindi avevamo dovuto dividere la brigata, lasciandone due terzi 
          a difesa di quella cavalleria ed artiglieria che dovevano arrivare e che 
          invece non si videro mai: era la prima volta, durante tutta la campagna, 
          che mi trovavo a contatto col quartier generale del re e non avevo certo 
          motivo di esserne lieto! Sapevano, oppure no, che il quartier generale 
          dell’imperatore d’Austria era a Lonato, centro di un esercito 
          di duecentomila uomini? E se lo sapevano, perché inviarmi lì 
          con milleottocento uomini? Ma che non lo sapessero sarebbe un sospetto 
          ingiusto nei confronti dello Stato Maggiore del re di Sardegna, che poteva 
          avere molte colpe ma non quella di essere privo di spie; e allora perché 
          promettermi due reggimenti di cavalleria ed uno di artiglieria, per la 
          cui difesa la mia brigata fu sul punto di venir quasi completamente distrutta, 
          mentre non solo non si inviavano rinforzi ma di queste forze non si seppe 
          mai più nulla? Fu dunque un tranello in cui si voleva eliminare 
          un pugno di valorosi che davano fastidio ad un certo numero di grandi 
          maestri della guerra!
 Alla fine mi persuasi che al quartier generale avevano voluto burlarsi 
          di noi, e burlarsi un po’ tragicamente, e che non era serio pensare 
          di occupare Lonato: dovevamo occuparci dei nostri problemi senza aspettare 
          chissà quali ordini superiori; tanto più che quando alla 
          sera informai di quanto era accaduto il generale Cialdini, egli mi disse 
          che stavo fresco se mi fossi fidato di quella gente. Dovevo, insomma, 
          contare su me stesso e sui miei compagni e cercare di non cadere nelle 
          grinfie dell’esercito nemico, ancora intero e poco distante, e la 
          conferma venne dai fatti che seguirono.
 Durante la battaglia già descritta, avendo osservato che il nemico 
          guadagnava terreno sulla destra pensai, non senza fondamento, che tentasse 
          di tagliar fuori i nostri che erano sul Chiese, e quindi ordinai al colonnello 
          Arduino che abbandonasse il ponte ormai costruito e che si ritirasse sui 
          monti poco distanti di Nuvolento; quell’ufficiale, interpretando 
          l’ordine in modo esagerato, non solo si ritirò a Nuvolento 
          ma, avendo mandato l’artiglieria verso Gavardo, si ritirò 
          anche lui con la fanteria sui sentieri di montagna. Date a Cosenz e a 
          Medici precise disposizioni sui punti d’incontro, galoppai verso 
          Arduino per metterlo in contatto con gli altri corpi alle falde della 
          montagna, cioè in una posizione adatta a sostenere l’impatto 
          di forze superiori; privo di aiutanti, perché il cavallo di Cecchi 
          era morto e gli altri erano stanchi o in missione, avanzavo da solo chiedendo 
          notizie a chi incontravo: ma erano pochissimi gli abitanti di quei luoghi 
          che non erano scappati o non si erano nascosti per salvarsi dalle angherie 
          e dalle ruberie dei soldati, amici o nemici, e poi le gloriose battaglie 
          hanno ovviamente poco interesse per gli insensibili indifferenti, e la 
          gente di campagna, finora almeno, è stata sempre insensibile alle 
          nostre lotte, se non apertamente ostile.
 Ogni notizia che raccoglievo mi dava per lontana la gente che cercavo 
          e la raggiunsi solo grazie alla bravura della mia cavalla, che pure aveva 
          galoppato tutto il giorno: diversamente avrei dovuto continuare a cercarli, 
          con non poca costernazione, l’indomani sulle montagne verso Brescia 
          o addirittura in città. Mentre le truppe del re avanzavano lungo 
          la strada per Brescia, il generale Cialdini, a cui ero legato da amicizia, 
          avendo saputo del nostro impegno ai tre ponti aveva fatto il possibile 
          per spingersi avanti, facendo egli stesso da avanguardia dell’esercito 
          regio e mandando in nostro aiuto alcuni corpi leggeri, che tuttavia non 
          arrivarono, perché spossati dalle lunghe marce, o arrivarono a 
          battaglia finita.
 Restammo alcuni giorni sparsi nelle posizioni accennate: con la nostra 
          presenza e l’avanzare del grosso, potevamo ben controllare la zona 
          e dato che gli abitanti di Gavardo avevano riparato il ponte sul Chiese, 
          buttato giù dagli austriaci, decisi di spingermi fino a Salò 
          passando su questo ponte. Perciò tutta la brigata si riunì 
          a Gavardo e durante la notte attraversammo il Chiese puntando su Salò: 
          il maggiore Bixio ebbe ordine di occupare la città col suo battaglione, 
          mentre per quella notte la brigata sarebbe rimasta sulle alture sopra 
          lo stradale che va a nord, entrando a Salò il mattino dopo. Nel 
          frattempo avevo fatto arrivare da Como e da Iseo alcune barche, che arrivarono 
          con noi a Salò, perché avevo immaginato che il nemico, abbandonando 
          la sponda occidentale del lago di Garda, avrebbe distrutto le imbarcazioni, 
          cosa che però non avvenne.
 Occupammo Salò per alcuni giorni e l’episodio più 
          saliente fu la distruzione di un vapore nemico che ogni giorno veniva 
          a spiarci: entrava sino nel fondo del porto, sciando e dando sempre la 
          prua all’imboccatura del porto, per essere pronto alla ritirata 
          in caso di bisogno; avendo notato tutto questo, chiesi al comandante di 
          un distaccamento che si trovava a Gavardo una mezza batteria da campagna 
          tra cui due obici: li feci collocare all’ingresso del porto, sulla 
          destra entrando, in una collocazione ottimale, e sulla riva i pezzi erano 
          coperti dalle piante, che li nascondevano completamente, ma potevano liberamente 
          far fuoco verso il lago, in qualunque direzione; inoltre avevo ordinato 
          ai bersaglieri genovesi, col capitano Paggi, di imboscarsi fra le piante, 
          sulla sinistra entrando in porto e così il loro fuoco obbligò 
          il vapore ad allontanarsi vero il lato opposto, dove c’era la batteria: 
          dopo pochi tiri di quei bravi artiglieri, a bordo scoppiò un incendio 
          che non riuscirono a spegnere e il vapore cercò di guadagnare la 
          riva opposta, a tutta velocità: non ci riuscì e affondò 
          a poca distanza dalla sponda. Mi dispiace di non ricordare il nome del 
          bravo ufficiale che diresse quei pezzi e qui voglio indirizzare un encomio 
          a tutta l’artiglieria italiana, non seconda a nessuno nel mondo!
 Il generale Cialdini, ai cui ordini ero stato posto dal re, mi disse di 
          marciare con la brigata verso la Valtellina: ordinai al colonnello Medici 
          di andarci per primo ed egli riunì tutti i distaccamenti che si 
          trovavano nella valle, respingendo gli austriaci verso lo Stelvio; mi 
          misi in moto con la brigata attraversando il lago di Como, da Lecco a 
          Colico, coi vapori, e quindi occupammo la valle fino a Bormio: da lì 
          Medici, puntando sullo Stelvio, costrinse i nemici a sgombrare il territorio 
          lombardo. I nostri giovani Cacciatori delle Alpi, guidati da Medici, Bixio, 
          Sacchi, ecc., diedero nuove prove di coraggio e di tenacia in questo nuovo 
          genere di guerra tra le gole e le rocce delle montagne coperte dalla neve 
          eterna, dove i nemici avevano una certa pratica ed erano acclimatati, 
          essendo quasi tutti tirolesi. Eravamo dunque padroni della Valtellina 
          ed il generale Cialdini con la quarta divisione occupava la Val Camonica 
          e la Val Trompia fino al lago di Garda; il colonnello Brignone, della 
          stessa divisione, occupava la Val Camonica.
 Non credo che qui sia fuori luogo dire una parola sul destino di questa 
          quarta divisione, senza dubbio una delle migliori dell’esercito 
          italiano, comandata da bravissimi ufficiali: fu davvero separata dal nostro 
          esercito perché si temeva la comparsa d’un grande corpo austriaco 
          dal Tirolo? O perché si voleva indebolire il nostro esercito e 
          fargli fare una brutta figura nella battaglia decisiva che si sarebbe 
          svolta inevitabilmente sul Mincio? O fu per tenere sotto controllo il 
          corpo dei Cacciatori delle Alpi, che in quei giorni si andava rafforzando 
          enormemente, e togliergli quell’autonomia che sembrava non dispiacere 
          al re ma che non piaceva a certa gente altolocata? Non credo la prima 
          ipotesi fosse estranea a quel volpone di Bonaparte e fu un mero pretesto 
          allontanare la divisione dall’esercito e privarlo d’un capo 
          valoroso e di un contingente ottimo.
 I Cacciatori delle Alpi, poi, che dai milleottocento uomini a cui si erano 
          ridotti dopo lo scontro dei tre ponti in poco più di un mese erano 
          aumentati quasi per miracolo fino a dodicimila, continuando a crescere, 
          non mancavano di fare ombra a coloro i quali avevano la coda di paglia 
          avendo sostenuto che i volontari non servivano a nulla e ora invece dovevano 
          constatare che erano deboli al punto di spaventare sul serio il nemico. 
          Questi individui stracarichi di colpe hanno paura di noi, e ne hanno ben 
          donde: ci chiamano rivoluzionari e ci onorano, perché non rinunceremo 
          a questa qualifica finché ci saranno delle canaglie che per gozzovigliare 
          nel lusso mantengono la parte migliore del paese nella schiavitù 
          e nella miseria. Questo assurdo modo di agire poteva avere origine nel 
          tortuoso carattere di Napoleone III e riflettersi poi nella mente del 
          re e dei suoi volgari cortigiani: fatto sta che la battaglia di S. Martino 
          ebbe luogo e che l’esercito italiano, composto di cinque divisioni, 
          fu del tutto privo della quarta, che avrebbe potuto dare un aiuto decisivo 
          ai nostri nella difficile occasione.
 Il timore, vero o finto, della discesa dal Tirolo di truppe austriache, 
          mi fu chiaro fin dal mio arrivo a Lecco: vi trovai un distaccamento del 
          genio francese, comandato da un ufficiale superiore, impegnato a minare 
          la strada principale che da Lecco conduce in Valtellina; questo ufficiale 
          aveva ordine di mettersi d’accordo con me sul da farsi e dato che 
          non avevo notizia di truppe nemiche in arrivo da quella parte lo pregai 
          di desistere dal suo lavoro; anche il generale Cialdini aveva l’ordine, 
          proveniente senza dubbio dalla stessa fonte, di distruggere strade e ponti 
          nelle valli più alte, e questa disposizione fu trasmessa al colonnello 
          Brignone, che occupava la Val Camonica, e a me: il colonnello obbedì 
          a malincuore ed io ordinai ad alcuni ingegneri di individuare i punti 
          più idonei ad essere distrutti in caso di necessità, ma 
          non feci demolire nulla, valutando che fosse una prudenza intempestiva 
          rovinare ponti e strade indispensabili per i poveri valligiani senza che 
          ci fossero notizie certe di un gran numero di nemici in arrivo.
 Intanto si svolgevano le battaglie di Solferino e di S. Martino, e poco 
          dopo la pace di Villafranca, che alcuni giudicarono una calamità 
          ma io considerai una fortuna. Al momento dell’armistizio, poi divenuto 
          accordo di pace, i Cacciatori delle Alpi contavano oltre dodicimila uomini, 
          suddivisi in cinque reggimenti, ed occupavano quattro vallate: Valtellina, 
          Camonica, Sabbia e Trompia, fino alla frontiera del Tirolo; il generale 
          Cialdini si era ritirato con la sua divisione a Brescia; in aggiunta ai 
          Cacciatori delle Alpi era finalmente arrivato il reggimento dei Cacciatori 
          degli Appennini che Cavour, malgrado gli ordini del re ricevuti fin dall’inizio 
          della campagna, con vari pretesti non volle mai mandarci e ci inviò 
          solo a guerra finita. [...]
 L’armistizio di Villafranca, che tutti capirono essere il preludio 
          della pace, lasciava i Cacciatori delle Alpi in una situazione anomala 
          rispetto alla loro natura: giovani generosi che avevano abbandonato il 
          loro lavoro e le comodità per venire a combattere per l’Italia, 
          non erano certamente adatti alla quieta vita di guarnigione e soprattutto 
          all’esagerata disciplina dell’esercito monarchico in tempo 
          di pace. Si capì subito, insomma, che sarebbero diventati una pianta 
          esotica nel mezzo dell’esercito regolare e sotto la permanente e 
          fastidiosa giurisdizione del ministro La Marmora.
 Le notizie provenienti dall’Italia centrale davano un quadro bellicoso: 
          si diceva che il Duca di Modena era pronto a rientrare nel ducato e che 
          gli svizzeri del papa dopo l’eccidio di Perugia erano ansiosi di 
          gettarsi sulla Romagna.
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