TERZO PERIODO 1860


CAMPAGNA


Sicilia! Terra di prodigi e di uomini prodigiosi, un affetto filiale mi spinge a consacrarti queste prime parole di un periodo glorioso!
Tu, madre degli Archimedi, porti nella tua storia luminosa due impronte che si cercano invano nella storia dei più grandi popoli, due impronte del coraggio e dell’intelligenza; la prima è che non vi è tirannide, per quanto robusta possa essere, che non possa essere rovesciata nella polvere dall’eroismo di un popolo: i tuoi immortali Vespri!
La seconda appartiene al genio di due ragazzi che dimostrano quanto siano potenti le scoperte della mente umana nelle sterminate regioni dell’Infinito.
Ancora una volta, Sicilia, hai dovuto risvegliare chi dormiva, strappare dal letargo gli addormentati dalla diplomazia e dalla religione, coloro che affidano ad altri la salvezza della patria. [...]
Com’erano belli i tuoi Mille, Italia! Combattendo contro gli sgherri adorni di piume e di galloni dorati, cacciandoli via come pecore. Belli nei loro vestiti più diversi, con l’abito e il cappello dello studente, con la veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro.
Ero a Caprera quando mi giunsero le prime notizie di sommovimenti a Palermo: notizie incerte su un’insurrezione che si dava ora in espansione ora stroncata sul nascere, ma le voci insistenti continuavano a parlare di un movimento che, represso o no, c’era stato.
Ne fui informato dagli amici del continente: mi si chiedevano le armi ed i mezzi del Milione di fucili, il nome che avevamo dato ad una sottoscrizione per l’acquisto di armi. Rosolino Pilo e Corrao si stavano preparando a partire per la Sicilia, ma in mancanza di notizie più precise li sconsigliavo, consapevole delle intenzioni di chi reggeva le sorti dell’Italia settentrionale e ancora pieno di scetticismo per i recenti avvenimenti degli ultimi mesi del ‘59. Gettavo il mio ghiaccio di cinquantenne sul potente entusiasmo dei venticinque anni, ma era scritto sul libro del destino: il ghiaccio, la dottrina, la pedanteria seminavano inutilmente di ostacoli la strada su cui marciava il futuro italiano!
Io consigliavo di non fare, ma, per Dio!, si agiva, e qualche vaga notizia riferiva che l’insurrezione della Sicilia non si era spenta. Io consigliavo di non fare? Ma l’italiano non dev’essere dove un altro italiano combatte per la causa nazionale contro la tirannide?
Lasciai Caprera per Genova, e nelle case dei miei amici Augier e Coltelletti si discuteva della Sicilia e dei nostri programmi: a Villa Spinola, in casa dell’amico Augusto Vecchi, si cominciò a fare i preparativi per una spedizione, e Bixio ne fu certamente il principale artefice, perché il suo coraggio, il suo impegno, la sua pratica delle cose di mare e di Genova, sua città natia, servirono ad agevolare immensamente ogni cosa.
Crispi, La Masa, Orsini, Calvino, Castiglia, gli Orlandi, Carini, ecc., tra i siciliani, erano entusiasti dell’impresa, e così Stocco, Plutino, ecc., calabresi: fra tutti avevamo deciso che, comunque sia, se i siciliani si stavano battendo bisognava partire, indipendentemente dalle probabilità di successo. Alcune informazioni negative per poco non riuscirono a farci desistere: un telegramma inviato da Malta da un amico degno di fede annunciava che tutto era perduto e che i reduci della rivoluzione siciliana si erano rifugiati su quell’isola, così rinunciammo quasi del tutto. Bisogna dire, tuttavia, che i siciliani che ho appena menzionato non persero mai fiducia e che, guidati dal bravo Bixio, erano ancora decisi a tentare la sorte, almeno per verificare direttamente in Sicilia come stavano le cose.
Intanto il governo di Cavour cominciava a tessere quella rete di intralci e di obiezioni che ostacolarono fino all’ultimo la nostra impresa. Gli uomini di Cavour non potevano dire "Non vogliamo una spedizione in Sicilia": l’opinione pubblica li avrebbe giudicati malissimo e la loro fragile popolarità, conquistata col denaro della nazione e comprando uomini e giornali, probabilmente ne sarebbe uscita distrutta. Io, dunque, potevo fare qualcosa per i fratelli della Sicilia che combattevano, senza molti rischi di essere arrestato da quei signori e confortato dalla generosa solidarietà della gente, assai commossa dal coraggio degli isolani. La disperazione e la ferrea decisione degli uomini del Vespro potevano da soli far procedere l’insurrezione; Farina, che aveva avuto da Cavour il mandato di sorvegliarci, non aveva alcuna fiducia in quell’impresa e per dissuadermi si valeva della sua conoscenza del popolo siciliano, essendo lui stesso nativo dell’isola, ed aggiungeva che gli insorti, avendo perso Palermo, erano perduti in ogni caso. Ma una notizia di fonte governativa, da lui stesso comunicataci, contribuì a rafforzare il nostro proposito di agire.
A Milano c’erano circa quindicimila buoni fucili e, soprattutto, fondi consistenti; a capo di Milione di fucili c’erano Besana e Finzi, sui quali si poteva contare. Besana, da me chiamato a Genova, portò del denaro e a Milano aveva dato disposizione perché ci fossero inviati i fucili, le munizioni ed il resto dell’equipaggiamento militare; nello stesso tempo Bixio trattava con Fauché, della direzione dei vapori Rubattino, per il viaggio in Sicilia. Le cose non andavano male: grazie al lavoro di Fauché e Bixio, e allo slancio generoso della gioventù italiana, che accorreva da ogni parte, in pochi giorni ci trovammo in condizione di prendere il mare, quando un incidente inatteso non solo ritardò tutto ma rese praticamente impossibile il nostro piano.
Coloro i quali dovevano ritirare i fucili a Milano trovarono sulla porta del deposito i carabinieri reali, che intimarono di non toccare neanche un’arma! Era un ordine di Cavour e ciò non mancò di contrariarci, senza peraltro farci desistere del tutto: allora, non potendo contare sulle nostre armi, cercammo di acquistarne altrove, e La Farina offrì mille fucili a ottomila lire; accettai senza rancore quella generosità pelosa delle vecchie volpi altolocate e così, privi delle nostre ottime armi, restate a Milano, fummo costretti a servirci dei pessimi fucili di La Farina, e i miei compagni di Calatafimi potranno raccontare che con questi si trovarono a fronteggiare le eccellenti carabine borboniche in quell’eroica battaglia.
Tutto questo ritardò la nostra partenza e quindi dovemmo rimandare indietro molti volontari, sia perché il loro numero diventava eccessivo rispetto agli scarsi mezzi di trasporto sia perché volevamo evitare di insospettire troppo le polizie, comprese quella francese e quella sarda. Ma la decisa volontà di agire e di non abbandonare i nostri fratelli siciliani superò ogni ostacolo.
Richiamammo i volontari che erano stati destinati per la spedizione e questi accorsero immediatamente, soprattutto dalla Lombardia, mentre i genovesi erano rimasti pronti; le armi, le munizioni, i viveri, e i pochi bagagli vennero caricati a bordo di piccole barche. Furono fissati due vapori, il Lombardo ed il Piemonte, comandati il primo da Bixio ed il secondo da Castiglia, e nella notte tra il 5 ed il 6 maggio uscirono dal porto di Genova per imbarcare gli uomini in attesa, parte alla Foce e parte a Villa Spinola. Alcune difficoltà, inevitabili in questo genere di azioni, non mancarono: salire a bordo di due vapori ormeggiati sotto la darsena del porto di Genova, prendere sotto controllo gli equipaggi e costringerli a collaborare coi predatori, accendere le caldaie, prendere il Lombardo a rimorchio del Piemonte, con questo che era pronto contrariamente al primo, il tutto sotto uno splendido chiaro di luna, è più facile da descrivere che a fare concretamente, e furono necessari molto sangue freddo, abilità e fortuna.
I due siciliani Orlando e Campo, entrambi macchinisti, furono di enorme aiuto in quella circostanza, e all’alba tutto era a bordo; la tensione per il pericolo corso, per l’avventura che stava iniziando e per la consapevolezza di servire la sacra causa della patria, era impressa sui volti dei Mille: erano mille, quasi tutti Cacciatori delle Alpi, quegli stessi che Cavour alcuni mesi addietro aveva abbandonato in Lombardia alle spalle degli austriaci ed ai quali aveva rifiutato di mandare i rinforzi decisi dal re; quegli stessi Cacciatori delle Alpi che, quando erano necessari, si ricevevano al Ministero della Guerra come fossero appestati, e come tali poi si mandavano via, gli stessi mille che per due volte si presentarono a Genova, per andare incontro ad un sicuro pericolo, e che si presenteranno sempre quando si tratti di unire l’Italia, senz’altra guida che la loro coscienza.
Erano davvero belli quei giovani veterani della libertà italiana, ed io ero talmente orgoglioso della loro fiducia che mi sentivo capace di qualsiasi impresa.

IL CINQUE MAGGIO

O notte del 5 maggio, bella, tranquilla, solenne, che fa palpitare le anime generose di chi si lancia verso la lotta di liberazione degli schiavi!
Tali erano i Mille, raccolti silenziosamente sulle spiagge orientali della Liguria, consapevoli della grande impresa, fieri di essere stati scelti dal destino, malgrado i pericoli e il rischio di morire. [...]
Hanno forse ricevuto l’ordine da un re per liberare un popolo affamato? No, essi accorrono in Trinacria perché i Picciotti, discendenti del fierissimo popolo dei Vespri, hanno giurato di morire piuttosto che restare schiavi. [...]
I due piroscafi arrivarono nella rada di Quarto e l’imbarco fu eseguito rapidamente, dato che gli appositi gozzi erano già stati predisposti.

[...]


CALATAFIMI

L’alba del 15 maggio ci trovò in buon ordine sulle alture di Vita e poco dopo il nemico usciva in colonna da Calatafimi diretto verso di noi. I colli di Vita sono appunto fronteggiati dalle alture del "pianto dei Romani", e queste dalla città salgono in dolce declivio, così che il nemico le poté risalire facilmente occupandole tutte, mentre le stesse alture dalla parte di Vita sono assai scoscese.
Dalle colline opposte, a sud, dove eravamo, avevo potuto individuare esattamente tutte le posizioni dei borbonici, mentre questi potevano appena vedere la linea di tiratori, formata da carabinieri genovesi agli ordini di Mosto, che coprivano il nostro fronte dato che tutte le nostre altre compagnie erano più indietro; la nostra scarsa artiglieria era sulla sinistra, sullo stradale, agli ordini di Orsini, che comunque fece dei buoni tiri. Insomma, sia noi che il nemico tenevamo delle ottime posizioni, le une di fronte alle altre, e separate da un terreno spazioso con pianure ondulate e poche cascine, e quindi la cosa più vantaggiosa era attendere l’assalto degli altri sulle proprie posizioni.
I borbonici, circa duemila uomini con alcuni cannoni, vedendo pochi dei nostri, privi di uniformi e mescolati a gente del posto, avanzarono baldanzosi con alcuni reparti di bersaglieri sostenuti da due pezzi di artiglieria: giunti a tiro cominciarono a far fuoco con le carabine e i cannoni, continuando ad avanzare. L’ordine tra i Mille era di non sparare e di aspettare che il nemico si avvicinasse: comunque, da un reparto di coraggiosi liguri, che avevano già un morto e vari feriti, si levò uno squillo di tromba, una sveglia americana, che come per incanto bloccò il nemico; questi capì che non aveva a che fare con le sole squadre di picciotti ed accennò un movimento all’indietro: fu la prima paura che sentirono i soldati del dispotismo al cospetto dei filibustieri.
I Mille suonarono la carica, e partirono con alla testa i carabinieri genovesi ed un reparto scelto di giovani impazienti di combattere: l’intenzione era quella di mettere in fuga l’avanguardia nemica e di catturare i due cannoni, cosa che fu fatta con uno slancio degno dei campioni della libertà italiana, e non di attaccare frontalmente le formidabili posizioni nemiche, ma chi poteva più fermare quei focosi ed eroici volontari una volta lanciati contro il nemico? Le trombe suonarono invano l’alt, i nostri non le udirono o fecero come Nelson nella battaglia di Copenhaguen, ed incalzarono a baionetta l’avanguardia nemica sino a spingerla in mezzo al grosso delle truppe; non c’era tempo da perdere, altrimenti quel pugno di prodi sarebbe stato annientato: suonò la carica generale e l’intero corpo dei Mille, accompagnato da alcuni coraggiosi siciliani e calabresi, avanzò rapidamente. Il nemico aveva abbandonato il piano, ma, ritiratosi sulle alture, dove aveva anche le riserve, mantenne le posizioni con una tenacia ed un valore degni di miglior causa.
La parte più pericolosa dello spazio che dovevamo percorrere era la vallata pianeggiante che ci separava dal nemico, dove piovevano fucilate e proiettili di artiglieria che ferirono un bel po’ di gente: arrivati ai piedi del monte Romano eravamo quasi al coperto ed i Mille, alquanto diminuiti di numero, si unirono alla loro avanguardia. Il momento era assolutamente decisivo: bisognava vincere, e con tale determinazione cominciammo a salire su per la prima banchina, sotto una grandine di fucilate; non ricordo il numero, ma certo erano diverse le banchine da superare prima di arrivare in cima ed ogni volta che si saliva dall’una all’altra lo si doveva fare allo scoperto, sempre sotto un fuoco tremendo. L’ordine di sparare poco era conseguente al tipo di catenacci che ci aveva regalato il governo sardo, e infatti quasi tutti facevano cilecca: qui fu prezioso il ruolo svolto dai valorosi figli di Genova, che con le loro buone carabine ed esercitati al tiro sostenevano l’onore delle armi; e ciò serva di incoraggiamento alla gioventù italiana affinché si eserciti e si persuada che sui campi di battaglia oggi non basta il coraggio, bisogna anche essere esperti, e molto, nel maneggiare le armi.
Calatafimi! Se io, soldato di cento battaglie, in punto di morte sorriderò per l’ultima volta, sarà per orgoglio, perché ti ricorderò. Non rammento, infatti, battaglia più gloriosa! Come potrò dimenticare quel gruppo di giovani che, per paura che venissi ferito, mi circondavano facendo scudo col proprio corpo? Se scrivendo mi commuovo ne ho ben donde! Non è forse mio dovere ricordare all’Italia i nomi di quei valorosi caduti? Montanari, Schiaffino, Sartorio, Nullo, Vigo, Tuckery, Tadei, e i tanti che purtroppo non ricordo.
Come ho già detto, il pendio meridionale del monte Romano che dovevamo risalire era formato da quelle banchine usate dagli agricoltori nei paesi montani: si arrivava rapidamente sotto l’argine di una di esse ricacciando indietro il nemico e ci si riposava per riprendere fiato e prepararsi al nuovo assalto, coperti dall’argine stesso; procedendo così guadagnavamo una banchina dopo l’altra, fino alla cima, dove i borbonici fecero un ultimo sforzo e la difesero coraggiosamente, al punto che molti soldati nemici, una volta finite le munizioni, ci scaraventarono delle pietre. Finalmente partimmo con la carica finale: i più coraggiosi dei Mille, serrati in massa sotto l’ultimo riparo, dopo aver ripreso fiato, misurando ad occhio lo spazio da percorrere ancora per incrociare le baionette col nemico, si avventarono come leoni, con la sicurezza della vittoria e la consapevolezza della grande causa per cui combattevano. I borbonici non riuscirono a sostenere la terribile pressione dei forti campioni della libertà, fuggirono e non si fermarono che a Calatafimi, distante alcune miglia dal campo di battaglia.
Interrompemmo l’inseguimento a poca distanza dalla città, situata in posizione fortissima. Combattendo, bisogna vincere: è un assioma vero in tutte le circostanze, ma soprattutto all’inizio di una campagna; quella vittoria, benché di poco valore per quanto riguarda il bottino, dato che avevamo preso un cannone, pochi fucili e alcuni prigionieri, fu di enorme importanza per il morale, incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico: pochi filibustieri, senza galloni o spalline, e di cui si parlava con solenne disprezzo, avevano sbaragliato qualche migliaio dei migliori soldati del Borbone, con artiglieria, ecc., e comandati da un generale di quelli che, come Lucullo, mangiano a cena il prodotto di una provincia. Un corpo di borghesi, ancorché filibustieri, animati dall’amor di patria, possono dunque vincere anche loro, senza bisogno di tante divise dorate.
Il primo risultato importante fu la ritirata del nemico da Calatafimi, che occupammo la mattina seguente, il 16 maggio 1860; il secondo, molto importante, fu che le popolazioni di Partinico, Borgetto, Montelepre ed altri paesi, attaccarono il nemico in ritirata: dovunque, poi, si formarono squadre che si unirono a noi, e l’entusiasmo di tutti i paesi vicini arrivò davvero all’apice. Il nemico, sbandato, non si fermò che a Palermo, dove portò lo sgomento fra i borbonici e la fiducia nei patrioti.
I feriti, nostri e nemici, furono trasportati a Vita e a Calatafimi. Noi contammo delle perdite pesanti: [...] non pochi della valorosa schiera dei Mille caddero a Calatafimi, com’erano caduti i nostri padri di Roma, incalzando i nemici all’arma bianca e colpiti di fronte, senza un lamento, senza un grido che non fosse "Viva l’Italia!". Ho visto alcune battaglie anche più violente, ma in nessuna ho visto soldati migliori dei miei borghesi filibustieri di Calatafimi.
Quella vittoria fu sicuramente decisiva per la brillante campagna del ‘60. Era davvero necessario iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi, che demoralizzò i nemici a tal punto che essi stessi, con fervida immaginazione meridionale, raccontavano meraviglie sul valore dei Mille: c’era chi aveva visto le pallottole delle proprie carabine respinte dal petto dei soldati della libertà, come se avessero colpito una lastra di bronzo; e la vittoria incoraggiò i bravi siciliani, prima sgomenti per l’imponenza degli armamenti borbonici ed il gran numero di soldati. Palermo, Milazzo, il Volturno, videro molti più morti e feriti, ma secondo me la battaglia decisiva fu Calatafimi: dopo uno scontro come quello i nostri sapevano di dover vincere, e quando si inizia una guerra con quella suggestione, con quell’augurio, si vince! [...]

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SUL CONTINENTE NAPOLETANO

Alla fine di agosto, verso le tre di mattina di una bella giornata approdammo sulla spiaggia di Melito: all’alba tutti gli uomini erano a terra con armi e bagagli e se il Torino non si fosse arenato, tanto che malgrado ogni sforzo il Franklin non riuscì a disincagliarlo, si sarebbe potuto proseguire quel giorno stesso per Reggio. Alle tre del pomeriggio comparvero tre vapori borbonici capitanati dal Fulminante e cominciarono a cannoneggiare: cercarono di mettere fuori combattimento il Torino e non essendoci riusciti lo incendiarono, mentre il Franklin era già partito e fu salvo.
Alle tre di mattina del giorno seguente iniziammo la marcia verso Reggio, passammo il capo dell’Armi, lungo lo stradale e durante le ore più calde ci fermammo a riposare in un villaggio che si trovava tra quel capo e la bella sorella di Messina, mentre la squadra nemica osservava i nostri movimenti. Verso sera, ripresa la marcia e giunti a una certa distanza dalla città, girammo a destra per sentieri nascosti, evitando così gli avamposti nemici che ci attendevano lungo lo stradale. Insieme a noi c’erano il colonnello Antonino Plutino e vari patrioti reggini, così che avevamo delle buone guide: durante la notte facemmo varie fermate per far riposare gli uomini e riunirli, e alle due di mattina demmo inizio all’attacco di Reggio.

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INGRESSO A NAPOLI

L’ingresso nella grande capitale ha più del portentoso che del reale: accompagnato da pochi aiutanti passai, già vincitore, in mezzo alle truppe borboniche che mi presentavano le armi, con un rispetto certamente maggiore di quello che in quei tempi riservavano ai loro generali.
7 settembre 1860! E chi dei figli di Napoli non ricorderà quel giorno pieno di gloria? Il 7 settembre cadeva l’aborrita dinastia che un grande statista inglese aveva definito "Maledizione di Dio", e dalle sue rovine sorgeva la sovranità del popolo, che un infelice destino rende sempre poco duratura.
Il 7 settembre un figlio del popolo, accompagnato da pochi amici che chiamava aiutanti, entrava nella superba capitale dal focoso destriero acclamato dai cinquecentomila abitanti, che spinti da una fervida ed irresistibile volontà paralizzavano un esercito intero, demolivano una tirannide, esercitavano i propri sacri diritti: il loro sussulto avrebbe potuto smuovere l’intera Italia e portarla sulla via del dovere, il loro ruggito basterebbe a rendere mansueti i governanti arroganti e insaziabili e a trascinarli nella polvere!
Lo spirito ed il contegno eccezionale di quel grande popolo, il 7 settembre valsero a rendere innocuo l’esercito borbonico, ancora padrone dei forti e dei punti nevralgici della città, da cui avrebbero potuto distruggerla. Entravo a Napoli mentre ancora tutto l’esercito meridionale era ben distante, verso lo stretto di Messina, ed il re di Napoli il giorno prima aveva abbandonato il suo trono per ritirarsi a Capua: il nido monarchico, ancora caldo, venne occupato dai liberatori del popolo ed i ricchi tappeti della reggia furono calpestati dalla rozza calzatura del proletario.
Sono esempi, questi, che dovrebbero servire a qualcosa, anche per i governi che falsamente si definiscono riformatori, almeno rispetto al miglioramento della condizione umana, ma che non fanno il proprio dovere a causa dell’egoismo, della boria e della irremovibilità delle classi privilegiate, che non si emendano nemmeno quando il leone popolare, spinto dalla disperazione, ruggisce alle loro porte per sbranarli con ira selvaggia ma giusta perché figlia dell’odio seminato dalla tirannia.
A Napoli, come in tutti i paesi che si affacciano sullo stretto di Messina, la gente fu piena di entusiasmo e di amor patrio, ed il suo fiero contegno certo contribuì moltissimo a questi incredibili risultati. Un’altra circostanza assai favorevole per la causa nazionale fu il tacito consenso della marina militare borbonica, la quale, se fosse stata risolutamente ostile, avrebbe potuto ritardare molto la nostra avanzata verso la capitale: invece i nostri piroscafi trasportavano senza fastidi lungo tutto il litorale napoletano l’esercito meridionale, cosa che appunto non avrebbero potuto fare con una marina avversaria maldisposta.
A Napoli il cavourismo era più potente che a Palermo, e vi aveva lavorato indefessamente, così incontrai non pochi ostacoli; confortato dalla notizia che l’esercito sardo stava entrando nello Stato pontificio, esso divenne insolente; quel partito, basato sulla corruzione, non aveva lasciato nulla d’intentato: prima si era adoperato per fermarci al di là dello stretto e circoscrivere la nostra azione alla sola Sicilia, chiamando in aiuto a tal scopo il generoso padrone francese; così comparve nello stretto un vascello della marina militare francese e in questa occasione ci fu di immenso aiuto l’intervento di Lord John Russel, che in nome di Albione impose al re di Francia di non interferire nelle nostre azioni.
Quello che mi urtava maggiormente nelle manovre di questo partito era trovarne traccia in persone che mi erano care e delle quali non avrei mai dubitato: gli uomini incorruttibili venivano piegati con il pretesto, ipocrita ma terribile, dello stato di necessità! La necessità di essere codardi! La necessità di trascinarsi nel fango davanti a un simulacro di effimera potenza, e di non sentire, di non capire la robusta, imponente, virile volontà di un popolo che volendo essere ad ogni costo, vuole distruggere questi simulacri insettivori e disperderli nel letame da cui scaturirono.
Questo partito, composto da giornali prezzolati, grassi proconsoli e parassiti d’ogni genere, sempre pronti a servire chi li paga, con ogni forma di sottomissione e di prostituzione, e sempre pronti a tradire il padrone se questi rischia di crollare, questo partito mi fa l’effetto dei vermi sul cadavere: il loro numero ne segna il grado di putrefazione! In ragione di questi vermi si può misurare direttamente la corruzione di un popolo!
Ebbi a patire varie mortificazioni da parte di questi signori che si comportavano da protettori, dopo le nostre vittorie, ma che ci avrebbero dato il calcio dell’asino, così come lo diedero a Francesco II, se fossimo stati sconfitti: mortificazioni che senza dubbio non avrei tollerato se non si fosse trattato della santa causa dell’Italia. Ad esempio, un giorno arrivano due battaglioni dell’esercito sardo, non richiesti, il cui scopo effettivo era di non lasciarsi sfuggire il bottino della ricca Napoli ma che si presentarono col pretesto di mettersi ai miei ordini se l’avessi chiesto: io lo chiedo e mi si risponde che occorreva il beneplacito dell’ambasciatore, e questi, consultato, risponde che deve chiedere l’autorizzazione a Torino!… E intanto i miei prodi compagni si battevano e vincevano sul Volturno, non solo senza l’aiuto di un solo soldato dell’esercito regolare, ma privi dei contingenti che la generosa gioventù di tutta Italia voleva inviarci e che Cavour o Farini trattenevano o imprigionavano.
I pochi giorni trascorsi a Napoli, dopo la cordiale accoglienza da parte di quel popolo generoso, furono piuttosto nauseanti, in particolare per le manovre e le beghe dei lacchè delle monarchie, che in sostanza non sono altro che sacerdoti del ventre: individui immorali e ridicoli che usarono i più ignobili espedienti per rovesciare quel povero diavolo di Franceschiello, colpevole solo di essere nato sui marciapiedi di un trono, sostituendolo nel modo che tutti sanno.
Tutti conoscono le trame di un tentativo d’insurrezione che doveva attuarsi prima dell’arrivo dei Mille per togliere loro il merito di aver cacciato i Borbone e poi vantarsene di fronte all’Italia, con poca fatica e poco merito: ciò avrebbe potuto succedere benissimo se coi suoi grassi stipendi la monarchia sapesse infondere ai suoi agenti un po’ più di coraggio e meno amore per la propria pelle. I sostenitori dei Savoia non ebbero il coraggio di fare una rivoluzione, e poi era tanto facile costruire sulle fondamenta altrui, sono proprio maestri in questo tipo di appropriazioni; ma di coraggio ne ebbero, e molto, per ordire intrighi, tramare, sovvertire l’ordine pubblico, e mentre non avevano contribuito per nulla alla gloriosa spedizione, ora che restava poco da fare ed il compito era diventato facile si vantavano di essere nostri protettori ed alleati: facevano sbarcare truppe dell’esercito sardo a Napoli (per assicurarsi il bottino, s’intende) e arrivarono al punto da inviarci due compagnie il giorno dopo la battaglia del Volturno, il 20 ottobre. Sempre il calcio dell’asino!
Si trattava di rovesciare una monarchia per sostituirla senza la volontà o la capacità di far meglio per quella povera gente ed era proprio bello vedere quei profittatori di tutti i dispotismi usare ogni specie di influenza malefica, corrompendo l’esercito, la marina, la corte, i ministeri, servendosi di ogni più subdolo mezzo per ottenere quello scopo indecente. Sì, era bello il barcamenarsi di tutti questi individui che trattavano amichevolmente il re di Napoli consigliandolo, cercando di convincerlo ad avviare trattative fraterne e circondandolo di insidie e di tradimenti. E se non avessero temuto per la loro brutta pelle costoro avrebbero potuto presentarsi all’Italia come liberatori. Che bello se potevano far restare con un palmo di naso i Mille e tutta la democrazia italiana! Ma sì, sono i bocconi già pronti che piacciono a questi liberatori dall’aspetto di cortigiani.
Anche a Palermo, com’era naturale, i cavouriani tramavano e insinuavano la diffidenza nei confronti dei Mille spingendo verso un’annessione intempestiva: mi costrinsero a lasciare l’esercito sul Volturno alla vigilia di una battaglia per recarmi a Palermo a placare quella brava gente sobillata da loro: assenza che costò all’esercito meridionale la sconfitta di Caiazzo, l’unica di tutta quella gloriosa campagna.

[...]


BATTAGLIA DEL VOLTURNO

L’alba del primo ottobre illuminava nelle pianure della vecchia capitale della Campania una mischia atroce, una battaglia fratricida!
Dalla parte dei borbonici, è vero, vi erano numerosi mercenari: bavaresi, svizzeri ed altri, che da vari secoli sono abituati a considerare questa nostra Italia come un luogo di villeggiatura o un bordello; e questa gentaglia, sotto la guida e la benedizione del prete, di preferenza ha sempre sgozzato gli italiani, educati dal clero a piegare le ginocchia. Ma purtroppo la maggior parte dei combattenti alle falde del Tifate erano figli di questa terra infelice, spinti a macellarsi reciprocamente, gli uni guidati da un giovane re, figlio del delitto, gli altri difendendo la sacra causa del proprio paese: da Annibale, vincitore delle superbe legioni, ai giorni nostri, le terre campane certamente non avevano visto un conflitto più aspro, ed il contadino, passando l’aratro su quelle fertili zolle, per molto tempo ancora urterà nei teschi seminati dalla rabbia umana.
Visitando ogni giorno la posizione dominante di S. Angelo, da dove si poteva osservare ottimamente il campo nemico, ad est di Capua e sulla riva destra del Volturno, pensai che i borbonici stessero preparandosi alla battaglia: si disponevano a passare all’offensiva, avendo aumentato il più possibile il proprio numero e imbaldanziti per i pochi parziali vantaggi ottenuti su di noi.
Da parte nostra si prepararono alcune opere di difesa che servirono molto a Maddaloni, S. Angelo e soprattutto a S. Maria, che ne aveva particolare bisogno essendo in pianura e quindi la più esposta, priva com’era di ripari naturali. Ma la nostra linea di battaglia era difettosa, era troppo estesa. [...] E tutto questo mi preoccupava in previsione dell’imminente scontro con un esercito più numeroso e meglio equipaggiato.
Circa alle tre del mattino del 1° ottobre, salivo in treno verso Caserta, dove tenevo il mio quartier generale, e arrivai a S. Maria prima dell’alba: salivo in carrozza per recarmi a S. Angelo quando si udì una fucilata alla nostra sinistra. Il generale Milbitz, che comandava le forze locali, mi disse che eravamo attaccati verso Sanammaro e che sarebbe andato a vedere quello che c’era di nuovo, ed io ordinai di far muovere la carrozza a tutta velocità.
Il rumore degli spari aumentava e poco a poco si diffuse su tutto il fronte, fino a S. Angelo: alle prime luci arrivai sulla strada, a sinistra delle nostre forze di S. Angelo che erano già impegnate in combattimento, ed arrivando fui accolto da una grandine di palle nemiche. Il mio cocchiere venne ucciso, la carrozza fu crivellata di proiettili, ed io e i miei aiutanti fummo costretti a scendere e a sguainare le sciabole per aprirci la strada; mi trovai in mezzo ai genovesi di Mosto ed ai lombardi di Simonetta, e quindi non fu necessario difenderci da soli: quei bravi soldati, vedendoci in pericolo, caricarono i borbonici con tanto impeto che li respinsero parecchio lontano, facilitandoci molto la marcia verso S. Angelo. L’infiltrazione del nemico nelle nostre linee, e alle spalle, operazione eseguita bene, con molta sagacia, e naturalmente di notte, dimostrava che era molto pratico dei luoghi.
Tra le strade che dal Tifate e dal monte S. Angelo portano verso Capua, ve ne sono alcune incassate anche per molti metri nel terreno appoggiato al tufo vulcanico: forse un tempo vennero usate come comunicazioni tattiche di un campo di battaglia, e le acque piovane provenienti dalle alture circostanti hanno senza dubbio contribuito a scavarne maggiormente il fondo. Fatto sta che in una di quelle strade potevano passare forze considerevoli, anche di tutte e tre le armi, e assolutamente al coperto: i generali borbonici, nel loro accuratissimo piano di battaglia, avevano accortamente approfittato di quelle strade per far passare alcuni battaglioni dietro le nostre linee e collocarsi nelle notte sui formidabili pendii del Tifate.
Disimpegnatomi dalla mischia in cui mi ero trovato per un momento, coi miei aiutanti m’incamminai verso S. Angelo, credendo che il nemico fosse solo alla nostra sinistra, ma procedendo verso le alture mi accorsi ben presto che il nemico se n’era impadronito, e alle nostre spalle: erano certamente i battaglioni borbonici che durante la notte, per le strade che ho già descritto, avevano tagliato la nostra linea e si erano portati alle nostre spalle; senza perdere tempo raccolsi tutti i soldati che mi capitarono sotto mano e salendo sui sentieri di montagna cercai di aggirare i nemici, più in alto di loro. Contemporaneamente inviai una compagnia milanese ad occupare la cima del Tifate, S. Nicola, che domina tutte le colline di S. Angelo: questo reparto e due compagnie della brigata Sacchi che avevo richiesto fermarono il nemico, che si disperse e ci lasciò molti prigionieri: potei allora salire sul monte S. Angelo, da dove vidi infuriare la battaglia su tutta la linea da S. Maria a S. Angelo, ora a noi favorevole e ora con i nostri che ripiegavano sotto la spinta delle masse nemiche.
Da quella posizione potevo controllare perfettamente il campo nemico e da vari giorni molti indizi facevano pensare ad un attacco imminente: quindi non mi ero fatto ingannare dalle varie manovre effettuate sulla destra e sulla sinistra, che avevano come unico scopo quello di far allontanare reparti dal nostro centro, dove il nemico pensava di concentrare i suoi sforzi maggiori. Meno male, perché quel primo ottobre i borbonici impegnarono contro di noi tutta le forze che avevano ancora disponibili sul campo e nelle fortezze: per fortuna ci attaccarono simultaneamente su tutta l’estensione delle nostre linee, e si combatteva ovunque, da Maddaloni a S. Maria.
A Maddaloni, dopo fasi alterne, il generale Bixio aveva respinto vittoriosamente il nemico, e lo stesso accadde a S. Maria per opera del generale Milbitz , che rimase ferito: in entrambi gli scontri facemmo prigionieri e conquistammo dei cannoni; stessa cosa a S. Angelo, dopo uno scontro di più di sei ore, ma lì le forze nemiche erano così numerose che rimasero con una forte colonna che controllava le comunicazioni fra quel punto e S. Maria, e così, per raggiungere le riserve che avevo chiesto al generale Sirtori, e che per ferrovia dovevano arrivare a S. Maria da Caserta, fui costretto a fare un giro ad est dello stradale ed arrivai a S. Maria solo dopo le due del pomeriggio.
Le riserve arrivavano in quel momento e le feci schierare in colonna d’attacco sullo stradale che porta a S. Angelo: la brigata Milano in testa, sostenuta dalla brigata Eber, con una parte della brigata Assanti come riserva; spinsi all’attacco anche i prodi calabresi di Pace, che trovai in mezzo alle piante, sulla mia destra, e che pure combatterono splendidamente. Verso le tre del pomeriggio, appena uscita dalla macchia la testa della colonna fu scoperta dal nemico, che iniziò a scagliarci delle granate, provocando un po’ di confusione fra i nostri: ma solo per un attimo, perché i giovani bersaglieri milanesi, che avanzavano a passo di carica, si precipitarono sul nemico; queste linee furono subito seguite da un battaglione della stessa brigata che attaccò coraggiosamente senza tirare un colpo, come gli era stato ordinato.
Lo stradale che da S. Maria va a S. Angelo è a destra di quello che va da S. Maria a Capua, e forma con questo un angolo di circa quaranta gradi, così che la nostra colonna doveva avanzare esposta al fuoco del nemico, nascosto in gran numero dietro a dei ripari naturali; mentre i milanesi ed i calabresi erano impegnati in questa operazione, mandai all’attacco la brigata Eber, ed era uno spettacolo straordinario vedere i veterani dell’Ungheria ed i loro compagni dei Mille avanzare sotto il fuoco con la tranquillità, il sangue freddo e l’ordine con cui si passeggia in un campo di manovre; la brigata Assanti proseguì l’avanzata frontale e non passò molto tempo che il nemico cominciò a ritirarsi: a questo attacco quasi simultaneamente si accompagnarono sulla destra quello delle divisioni Medici ed Avezzana e sulla sinistra quello della divisione Tòrr sullo stradale per Capua.
Dopo aver combattuto ostinatamente, il nemico fu sbaragliato su tutta la linea e verso le cinque pomeridiane si ritirò in disordine dentro Capua, protetto dall’artiglieria della piazza; circa alla stessa ora il generale Bixio mi annunciava la sua vittoria sull’ala destra dei borbonici, per cui potei telegrafare a Napoli: "Vittoria su tutta la linea."
Al Volturno il 1° ottobre ci fu una vera battaglia campale.

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