Stefano Gulmanelli

I nuovi businessmen della guerra

Non sono più rozzi soldati di ventura. Gestiscono network di società di investimento, diamantifere o di trasporti. Firmano regolari contratti. Sono le nuove società di "consulenza militare", truppe efficientissime in ogni tipo di guerra. E oggi c'è anche chi li propone per le missioni di peacekeeping dell'Onu.
Ci sono oggi almeno cinquanta conflitti "attivi" nel mondo. In molti di questi, soprattutto in quelli "intra-Stati", cioè combattuti da fazioni interne ad uno stesso Stato - quelle che una volta si sarebbero chiamate guerre civili - è facile trovare a fianco di uno o di entrambi i contendenti quelli che a seconda delle preferenze di volta in volta sono chiamati "soldati di ventura", "mercenari" o "mastini da guerra". La maggior parte delle volte si tratta di ex-appartenenti ad eserciti in sostanziale smantellamento. Sono soprattutto i paesi del dissolto impero sovietico, Ucraina in testa, a fungere da serbatoio di soldati che mettono l'addestramento ricevuto e le capacità maturate nelle loro Forze Armate a disposizione delle guerre nel Terzo Mondo. Non per simpatia della causa o per vicinanza ideologica, semplicemente per soldi.

Distinti professionisti

Il fenomeno è vecchio come la guerra - la stessa etimologia della parola "soldato" lo lascia intuire - e nel recente passato, soprattutto negli anni '60 e '70 ha avuto anche qualche esponente di punta avvolto da un certo alone di leggenda. Come il francese Bob Denard, afficionado dei colpi di Stato nelle isole tropicali dell'Oceano Indiano - con una particolare predilezione per le Comore - e come "Mad Max" Hoare, celebre per aver soffocato la rivolta dei Simba nell'ex-Congo belga negli anni Sessanta. Ma accanto a quelli che comunque sono pur sempre poco più che gruppi di sbandati pronti a tutto, sta emergendo un'altra figura di combattente a pagamento: il professionista della guerra, messo sotto contratto o alle dipendenze di "private security companies" che, alla stregua di qualsiasi multinazionale, hanno proprie strategie di mercato, pubblicizzano il loro prodotto con "show reel" televisivi e stipulano regolari contratti secondo la legislazione internazionale.

L'Executive Outcomer

Ce ne sono di tutte le nazionalità: dalla francese Cofras all'inglese Gurkha Support Group all'israeliana Levdan. Ma nessuna di queste ha ancora raggiunto la notorietà di quella che è, a detta di tutti gli esperti, la fuoriclasse del genere, la sudafricana Executive Outcomes (EO). Il segreto del successo della società di Pretoria? Poggia fondamentalmente su due pilastri. Il primo è la straordinaria capacità operativa dimostrata nel portare a compimento i contratti acquisiti, soprattutto in Africa (e vedremo perché). Una capacità che è frutto dell'esperienza di guerra nel "bush" (la savana africana) maturata dai duemila uomini inseriti nel data-base della EO, in gran parte ex appartenenti alle Forze Speciali dell'esercito del "vecchio" Sudafrica, tra cui il nefasto Battaglione 32, probabilmente l'unità più efferatamente efficace che abbia mai combattuto in Africa.

Una holding della guerra

Ma l'altra - e probabilmente più importante - caratteristica vincente della società sudafricana è che essa è al centro di un network di società che al momento giusto diventano opportunamente complementari alla EC stessa. Al 535 di King's Road di Londra, nell'elegante e lussuosa palazzina Plaza 107 sono infatti concentrate una serie di società dagli interessi apparentemente diversificati. Tra cui la Branch Energy, che si occupa di sfruttamenti minerari, la Heritage Oil & Gas ricerca e estrazione di idrocarburi, Ibis Air, trasporti aerei, e la Sandline International, attiva nel ramo servizi di sicurezza. Oltre, ovviamente, alla Executive Outcomes che dopo aver chiuso gli uffici di Pretoria per l'introduzione da parte dello Stato sudafricano di una legge "punitiva" del business della "consulenza militare", ha mantenuto proprio al Plaza 107 la direzione strategica. Formalmente le società - sono diciotto - di King's Road non hanno relazione. "Non c'è collegamento azionario " puntualizza Nic Van der Bergh, ex amministratore delegato dell'EO. Ed è vero, ma tutte le volte che EO prende un contratto - e questo capita solo se il Paese cliente è ricco in materie prime e risorse naturali, da qui la preferenza della società a operare in Africa - poco dopo la "riconquista" del territorio conteso compare un'altra delle società di Plaza 107. Probabilmente Branch Energy se in zona vi sono giacimenti di metalli e pietre preziose o Heritage Oil, se ad essere presenti sono depositi di petrolio. Che la società sudafricana sia particolarmente disposta ad accettare come pagamento per le prestazioni militari i diritti di sfruttamento di risorse naturali per le "consorelle" è ormai dato per scontato, nonostante le ripetute smentite formali di Van der Bergh e di Eeben Barlow fondatore dell'EO. È accaduto così nei due contratti più famosi portati a termine dall'EO in Angola nel 1993, quando i ribelli dell'Unita di Jonas Savimbi furono costretti a sedersi al tavolo delle trattative dopo vent'anni di guerra civile e il deposito petrolifero Block 4 fu affidato a Heritage Oil, e in Sierra Leone, quando nel 1994 i ribelli del RUF vennero ricacciati a ridosso dei confini, liberando le miniere di diamanti nell'est del Paese, alcune delle quali furono date in concessione a Branch Energy.

Al soldo dell'Onu?

Il fenomeno e il modo in cui si sta sviluppando - dando vita in pratica a una "chartered company" della sicurezza - sta preoccupando, e non poco, anche alcuni governi occidentali - fra cui quello inglese, il cui servizio segreto ha sulla EO un file "Uk eyes alpha" (top secret). Quello stesso governo inglese che durante la recente crisi nella Sierra Leone ha utilizzato Sandline International per fare affluire armi alle forze che si opponevano ai massacratori - a suon di machete - del RUF, tornato a minacciare la capitale dopo la scadenza, non rinnovata per volontà della comunità internazionale, del contratto dell'EO.
È stato proprio quest'episodio ad aver riaperto fra gli osservatori il dibattito, volutamente provocatorio, sull'opportunità di affidare a compagnie quali la EO le missioni di peace-keeping e peace-enforcement. "Soprattutto considerando che i Paesi occidentali non vogliono più impegnarsi in missioni rischiose per i propri eserciti, soprattutto in Africa, dopo l'esperienza della Somalia?" fa notare Jakkie Cilliers, direttore dell'Institute of Strategic Studies (ISS) di Pretoria. C'è chi ricorda come l'intervento della EO in Angola, che in un anno forzò Savimbi alla trattativa, costò al governo di Luanda 60 milioni di dollari e come invece dopo quattro anni di Monua (la missione Onu), costata un milione al giorno, il Paese sia oggi di nuovo in guerra totale. E chi evidenzia come una sorta di "privatizzazione" dei servizi militari venga già fatta oggi in Bosnia, dove l'americana Military Professional Resources Inc. (MPRI) - fondata da ufficiali usciti dal Pentagono e dai servizi segreti Usa - sta aiutando la Bosnia a ricostituire e riorganizzare il proprio esercito a fronte di un contratto di 75 milioni di dollari.

Al di là dell'etica

Il sasso è stato quindi lanciato: appaltare a società di mercenari - perché comunque tali sono la EO e simili - le missioni di pace e di interposizione fra contendenti in situazioni post-conflitto. Un'eventualità che, se dal punto di vista strettamente pragmatico ha indiscutibili vantaggi in termini di efficacia operativa, dall'altra ha ovvie e incontrovertibili controindicazioni di ordine morale. Parlarne, senza ipocrisie e falsi pudori, è - a questo punto - opportuno. Evitando magari argomentazioni come quella presente nell'appello che International Alert ha recentemente fatto a sostegno del rinnovo del mandato dello Special Rapporteur ONU sull'attività dei mercenari. "Un'attività da condannare" dice infatti l'appello "perché impedisce l'esercizio dei diritti di autodeterminazione dei popoli". Un diritto che oggi non deve sembrare granché alle popolazioni di Sierra Leone e Angola.