Serge Latouche

Laboratori del dopo - sviluppo


Professore emerito di Economia all'Università Parigi Sud

Che cosa accomuna le reti di scambio e mutuo aiuto nelle periferie africane e i Local exchange trade systems di Manchester (quel che in Italia si chiama "Banca del tempo")? Sono laboratori del doposviluppo, la sperimentazione di scambi non dominati dal calcolo economico. In pratica, chi è senza speranza di "progresso", come gli africani di Dakar o gli europei delle grandi città de-industrializzate, reinventa comunità in cui oggetti d'uso e competenze vengono offerti e ricevuti, ma quel che conta è la relazione sociale, non il denaro.

Se si ha una visione centrata sullo sviluppo, una visione economicistica, cioè se si pensa che lo sviluppo sia universalizzabile e che non ci sia salvezza al di fuori di una crescita economica vigorosa, allora si può avere, sull'economia informale africana, solo un punto di vista negativo, nel migliore dei casi condiscendente. Di fronte all'evidenza dei successi di certi "imprenditori dai piedi scalzi", si potrà riconoscere con simpatia il successo del bricolage. Tuttavia, si vedrà sempre nell'informale una economia di espedienti in mancanza di meglio. Valutando l'informale con il metro dell'economia dominante occidentale, e nell'orizzonte dello sviluppo, e riducendo la socialità a un aspetto pittoresco, complementare o ausiliare della sola cosa importante, l'economia, si sarà tentati di vedere questa realtà atipica come una sorta di succedaneo dello sviluppo. Ridicolo o rispettabile, ma sempre in mancanza di meglio, cioè nell'attesa di approdare alla terra promessa della modernità. Insomma, si vedrà nell'informale solo una figura della transizione, non come un laboratorio del doposviluppo.
Vedere l'altra Africa come laboratorio del doposviluppo significa invece vedere l'informale in positivo, vederlo di per se stesso per quanto possibile, cioè in funzione delle sue proprie norme, e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Significa vedere, con occhio diverso, il modo stupefacente grazie al quale sopravvivono gli sclusi dal mondo ufficiale.

È evidente che vi è una diversità dell'informale. L'esistenza di certi aspetti negativi innegabili, dal subappalto più sordido ai traffici mafiosi, l'onnipresenza del denaro, dello scambio e dei mercanteggiamenti sembrerebbero proprio dar ragione alle interpretazioni economicistiche. Ma l'altra Africa non è tutto l'informale. Nell'informale che ci interessa non si è in una economia, sia pure altra, si è in un'altra società. L'economico non vi è autonomizzato in quanto tale; esso è dissolto, incorporato (embedded, secondo la terminologia di Karl Polanyi) nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell'Africa. Per questo la definizione di "società venacolare" è più appropriata, per parlare di questa realtà, che non quello di "economia informale".
La società vernacolare
non è sicuramente il paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere e l'insieme dei "piccoli mestieri", garage all'aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, coxeurs cioè procacciatori di clienti per "pullman rapidi", bana-bana cioè piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o sacchetti di latte in polvere o di Nescafè.
Prima di tutto, si tratta dei modi con cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno si iscrivono in reti. I "collegati" formano dei "grappoli". In fondo, queste strategie fondate su un gioco sottile di "cassetti" sociali ed economici sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma trasposte in una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia. I "collegati" sono spesso molto diversi per religione, etnia, statuto sociale, e molto numerosi. Possono essere più o meno incorporati nella famiglia allargata.
Le reti si strutturano, in effetti, sul modello della famiglia secondo la logica del clan, con madri sociali e fratelli maggiori sociali, senza dimenticare la famosa "parentela per scherzo" degli etnologi. Così, la società vernacolare (o l'oikonomia neo-clanica, come la definisco in un mio libro) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Gli artigiani dell'economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch'essi pluriattivi e nolto dipendenti dalla loro rete sociale. Sono tutti nel doposviluppo.
Perciò, dobbiamo analizzare l'incorporazione di questa economia nel sociale, per vedere come la società del doposviluppo ritrova la logica del dono.

Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravvivenza reinventando il legame sociale e facendolo funzionare. Esclusi dalle forme canoniche della modernità, dalla cittadinanza dello Stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono, in effetti, grazie alle reti di solidarietà neoclaniche. Ma, per spiegare come vivono e sopravvivono le popolazioni dell'altra Africa, bisogna cominciare con il denunciare l'illusione economica e sviluppista, poi analizzare la complessità degli espedienti che assicurano la sopravvivenza dei naufraghi e le logiche che ne permettono la riproduzione.
Lo schema di lettura economica e sviluppista porta a molte distorsioni e a controsensi. Certo, ci sono il denaro, i mercanteggiamenti e il prezzo delle merci. Sembra che esistano la povertà, le attività professionali, come sembra che vi sia il calcolo razionale. Tutto ciò è in gran parte illusorio.

Prendiamo il denaro. Esso è onnipresente di fatto e nell'immaginario, ma non ha lo stesso significato né lo stesso uso, sul pianeta degli economisti e su quello dei naufraghi. Gli stessi interessati parlano di denaro caldo e di denaro freddo. Il denaro che circola nelle reti si oppone alla moneta del bianco, esterna e astratta. Il primo, in generale monetine e biglietti di piccolo taglio unti e bisunti, è annodato nell'angolo di un perizoma e nascosto sotto i vestiti, viene tirato fuori con precauzione e reticenza, contato e ricontato nella speranza di uno sconto. Il secondo è quello delle Ong, dell'assistenza tecnica. Si conta in milioni e si dissipa nell'astrazione. In ogni modo, che venga consumato in modo ostentato o che serva alla sopravvivenza collettiva, il denaro non è un fine in sé.
Per quel che riguarda il prezzo
, questo è piuttosto il risultato di una contrattazione, che non di un mercato. Nonostante la penetrazione dei rapporti mercantili e della monetarizzazione degli scambi, gli attori si sforzano di conservare il primato dei rapporti interpersonali sul gioco anonimo della domanda e dell'offerta. Bisogna rispettare gli statuti, tener conto del contesto nel suo complesso, saper perdere un po' per vincere su altri piani. Così, la moneta e i rapporti mercantili farebbero funzionare una società non mercantile. Chiariamo: si intende con ciò una società che, pur praticando scambi numerosi e conoscendo una circolazione monetaria intensa, non obbedisce massicciamente alla logica mercantile.

Con la povertà si tocca senza dubbio il cuore del problema. Decretando che i paesi non occidentali erano sottosviluppati, gli economisti hanno deciso che erano miserabili. Si sa che nelle principali lingue dell'Africa non c'è una parola che designi il povero nel senso economico del termine. Le parole che si usano per tradurre "povero" significano in realtà "orfano". È degno di nota che, in tutte le circostanze della vita corrente, i riferimenti alla miseria non rinviano immediatamente alla mancanza di denaro, ma all'assenza di sostegno sociale. La povertà è legata a una concezione individualistica della società.
La persistenza di concezioni della ricchezza e della povertà anteriori alla modernità occidentale è un elemento essenziale della ricostruzione di una alternativa societaria alla grande società. Questa resistenza di norme che incorporano la solidarietà in un valore metaeconomico (più sociale che economico, cioè), permette questo capovolgimento del senso e degli statuti, condizioni per l'emergere di una postmodernità autentica. In altri termini, quel che in questo modo si rende possibile è il rifiuto della svalutazione di sé decretata dall'Occidente, e in parte accettata, e la riappropriazione di una identità.
L'illusione economica si prolunga o affonda le sue radici molto al di là o molto al di qua dell'economia. Bisognerebbe senza dubbio esplorare anche le concezioni della società vernacolare nei confronti del tempo, dello spazio, del rapporto con la morte, dell'atteggiamento di fronte alla vita o alla natura. La povertà presuppone sempre il confronto dell'individuo isolato con la sua impotenza. Nella società dove regnano al tempo stesso la solidarietà e la gerarchia, ciò non è pertinente.
Restiamo comunque all'economia all'economia, terminando questo breve esame con la razionalità, che, pur essendo una parola chiave della modernità e dell'Occidente, è nondimeno anche un concetto economico, anzi essenzialmente economico.
La razionalità africana che si crede di scoprire a partire dai successi dell'informale, e dalla quale alcuni pensano di ricavare manuali di gestione specifici a uso dei candidati imprenditori locali o degli investitori stranieri, è anch'essa un'illuzione. In questa volontà di attribuire ogni successo alla razionalità, c'è il segno di una certa arroganza e di una grande inconscienza etnocentrica. Con il pretesto che le imprese informali funzionano, si conclude che essere possono essere solo razionali, dunque obbedire al grande mito occidentale della razionalità. La razionalizzazione delle pratiche, nel senso che le dà Max Weber nella sua analisi magistrale, cioè l'esigenza e la possibilità di calcolare tutto, è sì il tratto centrale della modernità.

Razionalizzare l'informale africano significa negarlo in quanto africano, significa occidentalizzarlo e, in definitiva, aprire la strada al suo recupero e alla sua distruzione. In tutte le esperienza umanamente riuscite dell'inofrmale, non si tratta di un calcolo maximum-minimum su una grandezza quantificabile omogenea, tipo costi-benefici monetari, ma di una speculazione sintetica sulle molteplici "ragioni" che entrano nel trattamento di un problema.
L'uso della ragione può così assumere due forme molto diverse, o addirittura antagonistiche. La prima via consiste nel calcolare a partire da una valutazione quantitativa, è la nostra razionalità economica. La seconda è la via tradizionale del politico e del giuridico: consiste nel deliberare a partire dagli argomenti pro e contro. Tutte le società hanno utilizzato la seconda via per risolvere i loro problemi sociali. Solo l'Occidente ha trasportato nella sfera dei rapporti umani la seconda via. Ne èp seguita una svalutazione del ragionevole, che si è visto assegnare un posto ingiustamente subalterno e spesso è stato addirittura espulso.
È inequivocabile che questa operazione ha avuto per l'Occidente risultati spettacolari. Ne è seguito un effetto di potenza inaudito. Tuttavia, questa efficienza prodigiosa si scontra con dei limiti. Il fallimento dell'economia ufficiale nel terzo modo è uno di questi. Nella società vernacolare, si è ragionevoli e non razionali, ed è proprio perché si è ragionevoli, e nella misura in cui lo si è, che la cosa funziona.

L'economia moderna e occidentale è caratterizzata dalla razionalità. In teoria c'è un solo modo di essere razionali, mentre ce ne sono molti di essere ragionevoli, ragion per cui la società vernacolare è il luogo della pluriattività. Nella letteratura sull'informale, il termine "pluriattività" designa il più delle volte il fenomeno abbastanza diffuso della doppia attività. Questa doppia attività si riferisce alla situazione del salariato del settore ufficiale (funzionario o impiegato) che esercito al di fuori della sua professione una seconda attività. Nelle reti neoclaniche, dove le attività ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsela. Si ha a che fare con un'assenza di professionalizzazione, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste per via dell'appartenenza a una casta o dell'acquisizione di un apprendistato specializzato, la professione è più esibita come un alibi e una facciata, che come rivelatrice dell'esercizio vero e proprio di un mestiere.
A Grand Yoff, periferia di Dakar, Senagal, i falegnami sono molto poco falegnami o almeno altrettanto avicoltori o mercanti di pomodori che falegnami. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto o a migliori locali, ecc., come ha fatto l'Ong Enda-Tiers Monde, era secondo il responsabile un errore. Un simile procedimento presuppone che esista veramente un "gruppo professionale falegnami" saldato da interessi comuni. Ora, questo gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa, che profittava di ordinazioni sottobanco per i programmi di costruzione di alloggi, c'è una folla di piccoli falegnami di facciata, che effettuano prestazioni occazionali ma passano la maggior parte del loro tempo a fare tutt'altro che lavori di falegnameria. Per ironia della storia, la cooperativa suddetta ha trovato un impiego inatteso (non previsto dalla Ong): si dedica ad attività immobiliari e bancarie, affittando i propri locali inutilizzati, lanciandosi nella costruzione di nuovi laboratori, facendo lavorare il suo denaro e quello dei suoi membri. Ed è lo stesso per la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grande precarietà di reddito e insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram… All'altro estremo, i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, nelle inchieste sull'occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: débrouillard (scaltro, che sa come cavarsela…).
N'Daye Sokhna, madre di famiglia di Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nelle periferie di Dakar, e probabilmente quasi tutte vivono in modo simile. N'daye ha un marito ferraiolo (cemento armato) che non lavora da vari anni; sette figli, la maggior parte dei quali vanno a scuola. Lei ha un chiosco, sorta di garitta in metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende tra mattina e sera da 25 a 35 chilogrammi di pane, occasionalmente vende roba usata, o incenso che confeziona lei stessa. Prepara la zuppa, acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, vende mandarini che le spedisce il marito della sorella o anche l'altra moglie del marito, rimasta al villaggio e della quale dice: "Lei è come me, anche lei se demerde, s'arrangia…". Fa merletti che piazza presso le sue "collegate" della rete. Alleva pulcini e pensa di chiedere un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza. Progetta di avere un centinaio di galline. Di tanto in tanto, sostituisce un'amica, per un mese o due, come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari e i socatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari, perché mangiano in famiglia. Il denaro guadagnato è immediatamente investito. N'daye partecipa a varie tontine, una a 10 franchi al giorno, per acquistare giubbotti ai bambini, una a 100 franchi per acquistare tessuti e gioielli. Quella dei tessuti è organizzata da un'amica, e lei è responsabile di quella per i gioielli. E' responsabile inoltre di un'altra tontina di venti persone a 1000 franchi al mese. Dà inoltre 100 franchi al giorno a un venditore ambulante toucouleur per un pezzo di tessuto. Se un giorno non ha denaro, non dà niente. Un perizoma da 2000 franchi può, perciò, finire col costare 5000 franchi (è razionale?). Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti.

La mia inchiesta era stata fatta nel '93. Ritrovata nel '95, poi nel '96, N'daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. È diventata una donna d'affari. Grazie al credito della cooperativa delle donne e ai consigli della Ong Enda-Graf, ha messo su con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap (hibiscus o acetosella di Giunea o ancora carcadè), succo di tamarindo e di zenzero. Il marchio è depositato, la confezione e l'etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico. E funziona. Quanto al vecchio marito, è felice di questa relativa prosperità familiare, e cura la vendita in presenza della padrona.
In queste condizioni, i programmi di appoggio al "settore informale", basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni hanno effetti piuttosto negativi. L'essenziale della società vernacolare non entra nel quadro dell'intervento. Questo non tocca evidentemente i più bisognosi e favorirà coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini dell'informale.

Al di là della pluriattività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l'osservatore attento ai "grappoli" di "collegati" della società vernacolare è l'importanza dek tempo, dell'energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Anche se vi si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo, nella maggior parte dei casi, parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno e al gioco… "La festa - osserva Eric de Rosny - occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione, tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi". I compiti esecutivi sono effettuati alla lettera nei momenti perduti. Se c'è l'urgenza di finire un'ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente nella rete, si tratti di derrate o di denaro, sia perché è dovuto, sia perché si anticipa la necessità di prendere in prestito, sia anche, e in ogni caso, perché si vuole far profittare i parenti di quel che si è appena avuto e perché si cerca di far loro piacere.
Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio che si offre non è mai perduto. L'atteggiamento generale è il senso di dover molto ai "collegati", piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di vaer ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno. Le persone di Grand Yoff o delle periferie di Dakar parlano esse stesse di "cassetti", per designare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dal "collegati" sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno, e il bisogno è qui quasi endemico, si mobiliterà il "grappolo", si attingerà a diversi cassetti. Spesso si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di debitore-creditore è comune a tutti. A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: "Noi seppelliamo una iena per disseppellire un'altra iena".

Una conseguenza supplementare di questo tipo di relazioni è che le operazioni di investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo, rifiuterà di restituirlo se l'affare è rischioso… "Se si investe il proprio denaro presso una persona - spiega un falegname - un giorno glielo si può richiedere. Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch'egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, deve disporre di più cassetti, per poterne utilizzare un secondo, nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire in tempo i collegati e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando mettete il denaro in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo non ve lo si rifiuta. Quando fate investimenti presso dei parenti o dei partners, essi sono più o meno implicati nella gestione di questo denaro, Possono dire di no, se giudicano che quel che ne farete non sarà un bene per voi. Sono dei parenti, mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spenderete il vostro denaro. Non c'è ostacolo all'uso del denaro della banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro, in banca".
Questo "filtro" sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.
"Questi franchi che abbiamo raccolto - dichiara solennemente un tontinier bamileke nel consegnare la somma al fortunato destinatario - cioè questa miseria, ma che rappresenta tutto il nostro tesoro, noi te la diamo oggi non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché auspichiamo che questo franco diventi dieci franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel progetto".
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa dalla logica mercantile: quella del dono e dei rituali oblativi. Qui, come dovunaue, il legame sociale funziona sulla base dello scambio: ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire, così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale in questa logica del dono è il fatto che il legame sostituisce il bene.
Risulta chiaro, a questo punto, che dire che, nella società vernacolare, l'economia è reincorporata nel sociale, o dire che essa funziona secondo le logiche del dono significa dire esattamente la stessa cosa: le due formulazioni sono del detto equivalenti. La società vernacolare, ma anche, in Europa, le "banche del tempo", i lets (local exchange trade system) in Gran Bretagna, i sel (systèmes d'éxchange locaux) in Francia, sono forme di dissenso dalla norma, questi ultimi più coscienti ma anche più fragili delle società vernacolare. Sono anche forme di resistenza alla mondializzazione dell'economia e all'economicizzazione del mondo.

Sono laboratori del futuro, laboratori del doposviluppo. Gli economisti che giudicano questa forma di scambio volontario, senza ufficialità e ai margini della legge, più liberista del mercato ufficiale, da noi si impantanano come gli economisti alla Hernando de Soto o Guy Sorman, che vedono nell'informale del terzo mondo un capitalismo popolare e un terreno di coltura di imprenditori straccioni. Nel caso dei sel, si tratta piuttosto di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del sel dell'Ariege, "in qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale". Un sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali esterni. Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l'inquinamento conseguente ai trasporti. Senza chiasso e senza dichiarazioni, gli "informali" dell'altra Africa non fanno nulla di diverso.
C'è una lezione dell'esperienza africana della società vernacolare che può servire anche a tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative. La gestione alternativa ha bisogno di appoggiarsi alla "nicchia", piuttosto che di giocare di mercato, che è un concetto della strategia militare, un concetto di conquista e di aggressione. È legato al razionale e non al ragionevole. Non è il settore di mercato che può far vivere l'impresa alternativa, ma la "nicchia". La "nicchia" è un concetto ecologico, molto più vicino all'antica prudenza (la phronèsis di Aristotele). L'impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è, o deve essere, differente dall''mbiente del mercato. È quest'ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare il proprio settore di mercato, bisogna militare per allargare e approfondire la "nicchia".
"In sintesi - scrive Tonino Perna nel suo Fair Trade. La sfida etica al mercato mondiale (Bollati Boringhieri) - si può dire che la sfida per il fair trade consiste nel non far entrare nel circuito della moda i prodotti del Sud del mondo, stravolgendone il patrimonio culturale, ma nel far diventare un 'bisogno' la scelta etica del consumatore. (…) Ciò significa che è necassario pensare più in termini di innovazione sociale che di innovazione di prodotto. (…) Il cercare di adeguarsi alle cosiddette leggi del mercato capitalistico, di inseguirne i capricci, di usarne acriticamente gli strumenti - come la pubblicità e il marketing - può dare qualche risultato in termini quantitativi nel breve periodo, ma alla fine risulta perdente".



Professor Latouche rispetto a “Il pianeta dei naufraghi”, arrivato anni fa nel nostro paese, come si è arricchita la sua ricerca sui processi di emarginazione che affliggono il pianeta? Nei decenni passati, le analisi, le polemiche e le decisioni politiche erano dominate dalla contrapposizione Nord-Sud. Oggi questo binomio è ancora una chiave di lettura efficace?

Basta consultare i rapporti preparati dalle Nazioni Unite per dare alla sua domanda una risposta positiva. Lo scarto dei redditi tra i paesi del Nord e quelli del Sud si è allargato. È vero, assistiamo a una mondializzazione culturale nel senso che tutti dobbiamo parlare inglese, mangiare hamburger, indossare jeans, vedere film e telefilm americani. Lingue e culture locali spariscono e quel che resta diventa merce, oggetto di folclore. Ma sul fronte dell'economia le diseguaglianze tra paesi e poi all'interno dei singoli paesi si sono accresciute. Direi di più: assistiamo a forme di impoverimento relativo e non mi sento di escludere anche forme di impoverimento assoluto. Faccio un esempio: si parla del miracolo cinese e non c'è dubbio che oggi i contadini di quel paese non siano più devastati dalle inondazioni o dalla fame. Ma chi calcola il costo dello sradicamento dalle campagne, della perdita di valori e di culture, del deperimento delle antiche forme di solidarismo? Mi preme però sottolineare questo dato: la mondializzazione crea disoccupati e sradicati, emigrati e rifugiati. Ma dietro la logica della mondializzazione c'è, nello stesso tempo, un accrescimento di quelle che io chiamo le “situazioni diverse”. Penso alla mia esperienza africana dove ho visto popolazioni capaci di organizzarsi in maniera del tutto autonoma, dando prova di una creatività culturale e tecnico-economica veramente ingegnosa.

Lei è uno studioso e anche un ammiratore di quella che definisce la “società del cavarsela”, un fenomeno che appunto sembra essenzialmente africano. Ma è difficile pensare che un modello del genere possa funzionare per fare fronte ai problemi che affliggono l'Occidente.

L'Occidente, l'imperialismo occidentale, porta la responsabilità gravissima delle differenze, degli squilibri. Ha distrutto i modi di vivere tradizionali dei popoli del Sud, ne ha destabilizzato anche i meccanismi di controllo demografico con il risultato che i flussi emigratori non si fermeranno.Ha inventato e imposto gli stati nazionali laddove la vita era organizzata su basi di appartenenza etnica creando così il fenomeno dei rifugiati, anche esso destinato a non fermarsi.

Non sarà solo responsabilità del mondo ricco. Ci saranno pure state delle responsabilità locali...

Sì, quelle delle élites che sono diventate complici dell'imperialismo. Per sopravvivere.

La sua analisi del Nord del mondo è molto severa. Non ci sono speranze di salvezza?

L'Occidente vive una crisi profondissima, è simile a un bolide che corre all'impazzata senza autista e senza freni. Siamo sull'orlo della catastrofe. Evitarla sarà molto difficile. Ma dobbiamo riuscirci. Per noi occidentali e per il resto del mondo.

Ci sono iniziative possibili?

Io vedo tre percorsi possibili. Innanzitutto mi pare che per noi che viviamo in Occidente ci sia una necessità di sopravvivenza, il che significa accettare compromessi, senza per questo venir meno alle nostre più radicate convinzioni. Credo poi profondamente nella efficacia dei movimenti di resistenza come questo Forum di Firenze. Avendone però ben chiari i limiti. La contestazione antimondializzazione è tutta e solamente occidentale. Non vi prende parte la Cina, non vi prendono parte l'India o il mondo islamico. E gli africani che vi vengono coinvolti sono nostri amici occidentalizzati ai quali di solito paghiamo il biglietto. Infine la mia piena fiducia va a tutte le iniziative che chiamo di dissidenza e che spingono a sperimentare modi di vita diversi, alternativi. Penso alla Banca etica, al commercio solidale, alla crescita del Terzo settore, alla protesta ecologica. Credo molto alla possibilità che da queste iniziative diffuse, dal “basso”, possano scaturire un modo di vivere diverso, un'altra civiltà.