Karl Marx

Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte


6.

La coalizione con la Montagna e coi repubblicani puri, a cui il partito dell'ordine si era visto condannato nei suoi vani tentativi per restare in possesso del potere militare e per riconquistare la direzione suprema del potere esecutivo, provava in modo inconfutabile che esso aveva perduto la propria maggioranza parlamentare. La forza pura e semplice del calendario, la lancetta dell'orologio, dette, il 29 maggio, il segnale della sua completa decomposizione. Il 29 maggio cominciava l'ultimo anno di vita dell'Assemblea nazionale. Essa doveva ormai decidersi, o per la proroga senza modificazioni, o per la revisione della Costituzione. Ma revisione della Costituzione non significava soltanto l'alternativa: dominio della borghesia o della democrazia piccolo-borghese, democrazia o anarchia proletaria, repubblica parlamentare o Bonaparte; significava altresì l'alternativa: Orléans o Borbone. Così cadde in mezzo al Parlamento il pomo della discordia attorno al quale doveva scoppiare apertamente il conflitto di interessi che divideva il partito dell'ordine in frazioni ostili. Il partito dell'ordine era una combinazione di sostanze sociali eterogenee. La questione della revisione creò una temperatura politica con la quale il prodotto si scompose di nuovo nel suoi elementi costitutivi.

L'interesse dei bonapartisti alla revisione era semplice. Per essi si trattava innanzi tutto della soppressione dell'articolo 45, che vietava la rielezione di Bonaparte e la proroga dei suoi poteri. Non meno semplice sembrava la posizione dei repubblicani. Essi respingevano in modo assoluto ogni revisione; vedevano nella revisione una congiura generale contro la repubblica. Poiché disponevano di più di un quarto dei voti dell'Assemblea nazionale, e poiché secondo la Costituzione si richiedevano i tre quarti dei voti affinché si potesse legalmente decidere la revisione e convocare un'Assemblea chiamata a realizzarla, non avevano che da contare i loro voti per esser sicuri della vittoria. E della vittoria erano sicuri.

Di fronte a queste posizioni chiare, il partito dell'ordine era in preda a contraddizioni inesplicabili. Se respingeva la revisione metteva in pericolo lo status quo perché lasciava a Bonaparte una sola via d'uscita, il ricorso alla forza; perché abbandonava la Francia, nel momento della decisione, la seconda [domenica] di maggio del 1852, all'anarchia rivoluzionaria, con un presidente che aveva perduto la sua autorità, con un Parlamento che da tempo non l'aveva più e con un popolo che pensava di riconquistarla. Se votava per la revisione secondo la Costituzione, sapeva che votava invano e che, secondo la Costituzione sarebbe naufragato per il veto dei repubblicani. Se, violando la Costituzione, dichiarava sufficiente la maggioranza dei voti, poteva sperare di dominare la rivoluzione soltanto sottomettendosi senza riserve alla discrezione del potere esecutivo e facendo così di Banaparte il padrone della Costituzione, della revisione e dello stesso partito dell'ordine. Una revisione solamente parziale, che prolungasse i poteri del presidente, spianava il cammino all'usurpazione imperiale. Una revisione generale, che abbreviasse l'esistenza della repubblica, portava inevitabilmente a un conflitto delle aspirazioni dinastiche, perché le condizioni per una restaurazione borbonica e le condizioni per una restaurazione orleanista non soltanto erano diverse, ma si escludevano a vicenda.


La repubblica parlamentare era più che il terreno neutrale su cui le due frazioni della borghesia francese, i legittimisti e gli orleanisti, la grande proprietà fondiaria e l'industria, potevano vivere l'una accanto all'altra a parità di diritti. Era la condizione indispensabile del loro dominio comune, l'unica forma di Stato in cui il loro interesse generale di classe potesse subordinare a sé tanto le pretese delle sue frazioni singole, quanto tutte le altre classi della società. Come monarchici essi ricadevano nel loro vecchio antagonismo, nella lotta per la supremazia della grande proprietà fondiaria o del danaro, e l'espressione più alta di questo antagonismo, la sua personificazione, erano i loro stessi re, le loro dinastie. Di qui la resistenza del partito dell'ordine al richiamo dei Borboni.

L'orleanista e rappresentante del popolo Créton aveva presentato periodicamente, nel 1849, nel 1850 e nel 1851, la proposta che venisse revocato il decreto che bandiva le famiglie reali. Il Parlamento aveva quindi offerto, altrettanto periodicamente, lo spettacolo di un'assemblea di monarchici, che ostinatamente sbarrava ai re banditi la porta attraverso la quale essi avrebbero potuto ritornare. Riccardo III aveva assassinato Enrico VI dichiarando che egli era troppo buono per questo mondo, e che il suo posto era nel cielo. Essi dichiaravano che la Francia era troppo cattiva per possedere di nuovo i suoi re. Costretti dalla forza delle circostanze, erano diventati repubblicani e sanzionavano di bel nuovo la decisione del popolo che aveva cacciato dalla Francia i loro re.

La revisione della Costituzione - e le circostanze costringevano a prenderla in considerazione - poneva in discussione, insieme alla repubblica, anche il dominio comune delle due frazioni della borghesia, e rendendo possibile la monarchia, riattizzava la rivalità degli interessi che la monarchia aveva rappresentato di volta in volta in modo preminente; riaccendeva la lotta per la supremazia di una frazione sull'altra. I diplomatici del partito dell'ordine credevano di poter trovare un compromesso con una unione delle due dinastie, con quella che essi chiamavano una fusione dei partiti monarchici e delle loro case reali. Ma la vera fusione della Restaurazione e della Monarchia di luglio era la repubblica parlamentare, in cui i colori orleanisti e legittimisti erano svaniti e le differenti specie di borghesi erano scomparse nel borghese senza aggettivi, nel genere borghese. L'orleanista sarebbe ora dovuto diventare legittimista, il legittimista orleanista. La monarchia, in cui si incarnava il loro dissidio, sarebbe dovuta diventare la incarnazione della loro unità; l'espressione dei loro interessi esclusivi di frazione sarebbe dovuta diventare l'espressione dei loro interessi comuni di classe; la monarchia avrebbe dovuto fare ciò che soltanto la negazione di due monarchie, cioè la repubblica, aveva potuto fare e aveva fatto.
Era questa la pietra filosofale, per fabbricar la quale si rompevano la testa i dottori del partito dell'ordine. Come se la monarchia legittima potesse mai diventare la monarchia della borghesia industriale o il regno della borghesia diventare il regno dell'aristocrazia fondiaria ereditaria. Come se la grande proprietà fondiaria e l'industria potessero fraternizzare sotto una sola corona, mentre la corona poteva cadere sopra una testa sola, o su quella del primogenito o su quella del cadetto. Come se l'industria potesse, in generale, conciliarsi con la proprietà fondiaria, sino a che la proprietà fondiaria non si decide a diventare anch'essa industriale. Se Enrico V morisse domani, il conte di Parigi non diventerebbe perciò il re dei legittimisti, a meno che non finisse di essere il re degli orleanisti. Ma i filosofi della fusione, che tanto più si facevano avanti quanto più diventava attuale la questione della revisione, che si erano creati nell'Assemblée nationale un organo quotidiano ufficiale che persino oggi (febbraio 1852) sono nuovamente all'opera, attribuivano tutte le difficoltà alla resistenza e alla rivalità delle due dinastie. I tentativi di riconciliare la famiglia di Orléans con Enrico V, incominciati sin dalla morte di Luigi Filippo, ma condotti, come tutti gli intrighi dinastici, soltanto durante le ferie dell'Assemblea nazionale, negli intermezzi, dietro le quinte, più come una civetteria sentimentale con la vecchia superstizione che come un affare presa sul serio, divennero ora azioni capitali e di Stato, vennero portati dal partito dell'ordine sulla scena pubblica e non più soltanto sulla scena dei teatrini dei dilettanti. I corrieri volavano da Parigi a Venezia, da Venezia a Claremont, da Claremont a Parigi. Il conte di Chambord lancia un manifesto in cui annuncia, "con l'aiuto di tutti i membri della sua famiglia", non la propria restaurazione, ma la restaurazione "nazionale". L'orleanista Salvandy si getta ai piedi di Enrico V. I capi legittimisti Berryer, Benôit d'Azy, Saint-Priest, si recano a Claremont per convincere gli Orléans, ma invano. I fusionisti si accorgono troppo tardi che gli interessi delle due frazioni della borghesia non perdono il loro carattere esclusivo e non diventano più facilmente conciliabili per il fatto che si acuiscono nella forma di interessi di famiglia, di interessi di due case reali. Anche se Enrico V avesse riconosciuto come suo successore il conte di Parigi - e questo era l'unico successo che nel migliore dei casi, la fusione potesse avere -, la casa di Orléans non avrebbe guadagnato nessun diritto che già non fosse assicurato dalla mancanza di figli di Enrico V, e avrebbe perduto tutti i diritti che aveva conquistato con la rivoluzione di luglio. Essa avrebbe rinunciato alle sue pretese originarie, a tutti i titoli che aveva strappato alla branca primogenita dei Borboni in una lotta quasi secolare, avrebbe barattato le sue prerogative storiche, le prerogative della monarchia moderna, con la prerogativa del suo albero genealogico. La fusione non era dunque altro che un'abdicazione volontaria della casa di Orléans, la sua rinuncia legittimista, il suo ritorno contrito dalla Chiesa di Stato protestante alla Chiesa cattolica. E questo ritorno non la rimetteva nemmeno sul trono che essa aveva perduto, ma soltanto sui gradini del trono su cui era nata. I vecchi ministri orleanisti, Guizot, Duchâtel, ecc., che si precipitarono egualmente a Claremont per sollecitare la fusione, esprimevano in sostanza soltanto il disgusto per la rivoluzione di luglio, la mancanza di fiducia nella monarchia borghese e nella monarchia dei borghesi, la fede superstiziosa nella legittimità come ultimo amuleto contro l'anarchia. Mentre immaginavano di essere mediatori tra gli Orléans e i Borboni, erano effettivamente soltanto orleanisti rinnegati, e come tali li ricevette il principe di Joinville. La parte vitale, combattiva, degli orleanisti, invece, Thiers, Baze, ecc., ebbero tanto miglior giuoco nel convincere la famiglia di Luigi Filippo che se ogni restaurazione monarchica immediata presupponeva la fusione delle due dinastie, ogni fusione delle due dinastie presupponeva però l'abdicazione della casa di Orléans, mentre era pienamente conforme alla tradizione dei loro predecessori riconoscere temporaneamente la repubblica ed aspettare sino a che gli avvenimenti permettessero di cambiare il seggio presidenziale in un trono. Si diffuse la voce della candidatura presidenziale del principe di Joinville; si mantenne desta la curiosità pubblica; e alcuni mesi dopo, respinta la revisione, questa candidatura venne proclamata pubblicamente.

Il tentativo di una fusione monarchica tra orleanisti e legittimisti non era dunque soltanto fallito, ma aveva anche spezzato la loro fusione parlamentare, la loro forma comune repubblicana, e aveva nuovamente decomposto il partito dell'ordine nei suoi elementi originari. Ma quanto più diventavano tese le relazioni tra Claremont e Venezia, quanto più si rompeva il loro accordo e l'agitazione per Joinville guadagnava terreno, tanto più attive, tanto più serie si facevano le trattative tra Faucher, il ministro di Bonaparte, e i legittimisti.

La dissoluzione del partito dell'ordine non si arrestò ai suoi elementi primitivi. Ognuna delle sue grandi frazioni si suddivise ancora, a sua volta. Sembrava che tutte le vecchie sfumature che si erano urtate e combattute nell'interno di ognuno dei due gruppi, tanto dei legittimisti quanto degli orleanisti, fossero tornate a galla al pari di infusori disseccati messi a contatto con l'acqua, come se avessero nuovamente acquistato tanta forza da poter costituire gruppi propri e alimentare per proprio conto degli antagonismi. I legittimisti sognavno di essere tornati ai conflitti tra le Tuileries e il Pavillon Marsan, tra Villlèle e Polignac. Gli orleanisti rivivevano l'età dell'oro dei tornei tra Guizot, Molè, Broglie, Thiers e Odilon Barrot.

La frazione del partito dell'ordine che era favorevole alla revisione, ma era divisa a proposito dei limiti della revisione stessa, composta di legittimisti, diretti da Berryer e Falloux, da una parte, da La Rochejacquelein dall'altra, e dagli orleanisti stanchi di combattere, diretti da Molé, Montalembert e Odilon Barrot, si unì coi rappresentanti bonapartisti per presentare la seguente proposta indeterminata e generica: "I sottoscritti rappresentanti, allo scopo di restituire alla nazione il pieno esercizio della sua sovranità, propongono che la Costituzione venga riveduta". In pari tempo però essi dichiararono unanimemente, per bocca del loro relatore Tocqueville, che l'Assemblea nazionale non aveva diritto di proporre l'abolizione della repubblica e che questo diritto spettava soltanto alla camera di revisione. Inoltre aggiunsero che la Costituzione poteva essere riveduta soltanto in modo "legale", cioè soltanto se lo decideva la maggioranza di tre quarti dei voti prescritta dalla Costituzione. Dopo sei giorni di dibattiti tumultuosi il 19 luglio, come era da prevedere, la revisione venne respinta. Vi furono 446 voti a favore, ma 278 contro. Gli orleanisti decisi, come Thiers, Changarnier, ecc., votarono coi repubblicani e con la Montagna.

La maggioranza si dichiarava dunque contro la Costituzione; ma la Costituzione stessa si dichiarava per la minoranza e dava alla sua decisione carattere obbligatorio. Ma forse che il partito dell'ordine non aveva subordinato la Costituzione alla maggioranza parlamentare, il 31 maggio 1850 e il 13 giugno 1849? Forse che tutta la sua politica non si era fondata, sino a quel giorno, sulla subordinazione degli articoli della Costituzione alle decisioni della maggioranza parlamentare? Non aveva esso lasciato ai democratici e punito nei democratici la credenza biblica alla lettera della legge? Ma in questo momento revisione della Costituzione non significava altro che proroga dei poteri presidenziali, e proroga della Costituzione non significava altro che destituzione di Bonaparte. Il Parlamento si era pronunciato per lui; ma la Costituzione si pronunciava contro il Parlamento. Egli agiva dunque secondo il pensiero del Parlamento se lacerava la Costituzione, e agiva secondo lo spirito della Costituzione se dava lo sfratto al Parlamento.

Il Parlamento aveva dichiarato "fuori della maggioranza" la Costituzione e, con essa, il proprio dominio; con la sua decisione aveva soppresso la Costituzione e prorogato i poteri presidenziali, pur dichiarando in pari tempo che né l'una poteva morire né gli altri potevano vivere sino a che il Parlamento continuasse ad esistere. Ma già erano alle porte coloro che dovevano sotterrarlo. Mentre esso discuteva della revisione, Bonaparte allontanava il generale Baraguay d'Hilliers, che si mostrava indeciso, dal comando della prima divisione militare, e nominava al suo posto il generale Magnan, il vincitore di Lione, l'eroe delle giornate di dicembre, una delle sue creature, che già sotto Luigi Filippo si era più o meno compromesso con lui in occasione della spedizione di Boulogne.

Con la sua decisione circa la revisione, il partito dell'ordine provava che non sapeva né dominare né servire, né vivere né morire, né tollerare la repubblica né rovesciarla, né mantenere la Costituzione né sbarazzarsene, né collaborare col presidente né romperla con lui. Da chi attendeva dunque la soluzione di tutte queste contraddizioni? Dal calendario, dal corso degli avvenimenti. Cessava di attribuirsi un potere sugli avvenimenti. Provocava in questo modo gli avvenimenti a fargli violenza; provocava il potere a cui nella lotta contro il popolo aveva ceduto l'uno dopo l'altro i suoi attributi, sino a trovarsi di fronte ad esso privo di forza. Affinché il capo del potere esecutivo potesse elaborare con maggior tranquillità il piano di lotta contro di esso, rafforzare i suoi mezzi di attacco, scegliere le sue armi, consolidare le sue posizioni, il partito dell'ordine decise, in un momento così critico, di abbandonare la scena e di aggiornarsi per tre mesi, dal 10 agosto al 4 novembre.

Non soltanto il partito parlamentare si era diviso nelle sue due grandi frazioni, non soltanto ognuna di queste frazioni a sua volta si disgregava, ma il partito dell'ordine nel Parlamento era in contrasto col partito dell'ordine fuori del Parlamento. Gli oratori della borghesia e i suoi esegeti, la sua tribuna e la sua stampa, in una parola, gli ideologi della borghesia e la borghesia stessa, i rappresentanti e i rappresentati erano diventati estranei gli uni agli altri e non si comprendevano più.

I legittimisti delle provincie, col loro orizzonte ristretto e il loro entusiasmo illimitato, accusavano i loro capi parlamentari, Berryer e Falloux, di aver disertato nel campo bonapartista e abbandonato Enrico V. La loro intelligenza credeva al peccato originale ma non credeva alla diplomazia.

Incomparabilmente più fatale e decisiva era la rottura tra la borghesia commerciale e i suoi uomini politici. Essa non rimproverava loro, come i legittimisti ai loro rappresentanti, di aver abbandonato i principi, ma al contrario, di rimaner attaccati a princìpi divenuti inutili.

Ho già accennato prima che, dal momento dell'ingresso di Fould nel ministero, quella parte della borghesia commerciale che si era attribuita la parte del leone del potere sotto Luigi Filippo, l'aristocrazia finanziaria, era diventata bonapartista. Fould non rappresentava soltanto gli interessi di Bonaparte in Borsa; egli rappresentava anche gli interessi di Borsa presso Bonaparte. La posizione del l'aristocrazia finanziaria è descritta nel modo più evidente dal suo organo europeo, l'Economist di Londra. Nel suo numero del I° febbraio 1851 questo giornale pubblica la seguente corrispondenza da Parigi: "Abbiamo ora potuto rilevare da tutte le parti che la Francia aspira soprattutto alla tranquillità. La cosa è stata dichiarata dal presidente nel suo messaggio all'Assemblea legislativa; la tribuna dell'Assemblea gli ha fatto eco; i giornali lo confermano; i preti lo proclamano dal pulpito; la cosa è provata dalla sensibilità dei titoli di Stato alla minima prospettiva di disordini, dalla loro fermezza ogni volta che il potere esecutivo ha il sopravvento"

Nel suo numero del 29 novembre 1851 l'Economist dichiara, in nome proprio: "In tutte le Borse d'Europa il presidente è riconosciuto come sentinella dell'ordìne". L'aristocrazia finanziaria condannava dunque la lotta parlamentare del partito dell'ordine contro il potere esecutivo come cosa che turbava l'ordine, e celebrava ogni vittoria del presidente sui rappresentanti del sedicente partito dell'ordine come vittoria dell'ordine. Si deve intendere qui per aristocrazia finanziaria non soltanto i grandi appaltatori di prestiti statali e gli speculatori sui valori dello Stato, il cui interesse si comprende agevolmente che coincida con gli interessi del potere dello Stato. Tutti gli affari finanziari moderni, tutta l'economia bancaria è connessa nel modo più intimo col credito pubblico. Una parte del loro capitale commerciale viene necessariamente investito in valori di Stato rapidamente convertibili. I loro depositi, il capitale posto a loro disposizione e da loro ripartito tra commercianti e industriali, proviene in parte dai dividendi dei possessori di rendita dello Stato. Se per il mercato monetario nel suo complesso e per i sacerdoti di questo mercato la stabilità del potere dello Stato in ogni epoca ha fatto le veci di Mosè e dei profeti, come potrebbe essere diversamente oggi in cui ogni diluvio minaccia di travolgere, insieme ai vecchi Stati, anche i vecchi debiti di Stato?

Anche la borghesia industriale, nel suo fanatismo dell'ordine, era irritata dalle risse del partito parlamentare dell'ordine col potere esecutivo. Thiers, Anglès, Sainte-Beuve, ecc., dopo il loro voto del 18 gennaio in occasione della destituzione di Changarnier, ricevettero rimostranze pubbliche proprio dai loro elettori dei distretti industriali nelle quali specialmente la loro coalizione con la Montagna veniva bollata come alto tradimento della causa dell'ordine. Se è vero, come ,abbiamo visto, che le canzonature spavalde e gli intrighi meschini in cui si era manifestata la lotta del partito dell'ordine contro il presidente non meritavano accoglienza migliore, è vero d'altra parte che questo partito borghese, il quale esigeva che i suoi rappresentanti lasciassero passare senza resistenza il potere militare dalle mani del loro proprio Parlamento in quelle di un pretendente d'avventura, non era nemmeno degno degli intrighi che si ordivano nel suo interesse. Esso faceva capire che la lotta per la difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi di classe, del suo potere politico, in quanto disturbava i suoi affari privati lo molestava e gli dava fastidio.

I notabili borghesi delle città di provincia, i magistrati, i giudici di commercio ecc. ricevevano Bonaparte dappertutto, quasi senza eccezione, nei suoi viaggi circolari, nel modo più servile, anche se, come a Digione, egli attaccava senza alcun riguardo l'Assemblea nazionale e in special modo il partito dell'ordine.

Quando gli affari andavano bene, come al principio del 1851, la borghesia commerciale si scagliava contro ogni lotta parlamentare che potesse nuocere al commercio. Quando il commercio andò male, come avvenne continuamente a partire dalla fine del febbraio 1851, essa accusò le lotte parlamentari di essere la causa del ristagno, e reclamò ad alta voce che si facessero tacere, affinché il commercio potesse riprendere voce. I dibattiti sulla revisione caddero appunto in questo momento sfavorevole, e poiché si trattava della vita o della morte della forma statale esistente, tanto più la borghesia si sentì in diritto di esigere dai suoi rappresentanti che mettessero fine a quella tormentosa provvisorietà; in diritto di reclamare in pari tempo il mantenimento dello status quo. Né c'era in ciò contraddizione alcuna. Metter fine allo stato di cose provvisorio significava per essa precisamente prolungarne l'esistenza, rinviare a un futuro lontano il momento in cui sarebbe stato necessario prendere una decisione. Lo status quo poteva essere mantenuto soltanto in due modi: o con la proroga dei poteri di Bonaparte, o col suo ritiro, conforme alla Costituzione, e con la elezione di Cavaignac. Una parte della borghesia desiderava quest'ultima soluzione, ma non sapeva dare ai suoi rappresentanti nessun miglior consiglio che di tacere e di lasciare impregiudicata questa ardente questione. Se i suoi rappresentanti non avessero parlato, pensava, Bonaparte non avrebbe agito. E desiderava un Parlamento struzzo, che nascondesse la testa per non farsi vedere. Un'altra parte della borghesia, poiché Bonaparte già occupava il seggio presidenziale, desiderava che continuasse ad occuparlo, affinché ogni cosa rimanesse immutata. Essa s'irritava perché il suo Parlamento non violava apertamente la Costituzione e non abdicava puramente e semplicemente.

I Consigli generali dei dipartimenti, rappresentanze provinciali della grande borghesia, riunitisi a partire dal 25 agosto durante le ferie dell'Assemblea nazionale, si dichiararono quasi all'unanimità favorevoli alla revisione, cioè contro il Parlamento e per Bonaparte.

Ancora più esplicita della rottura coi suoi rappresentanti parlamentari fu la manifestazione della collera della borghesia contro i suoi rappresentanti letterari, contro la propria stampa. Le condanne a multe esorbitanti e a spudorate pene detentive pronunciate dalle giurie borghesi per ogni attacco dei giornalisti borghesi alle velleità di usurpazione di Bonaparte, per ogni tentativo della stampa di difendere contro il potere esecutivo i diritti politici della borghesia, riempirono di stupore non solo la Francia, ma tutta l'Europa.

Se, come ho mostrato sopra, il partito parlamentare dell'ordine, a forza di gridare che occorreva la tranquillità, si era condannato da sé all'inazione; se esso aveva dichiarato il dominio politico della borghesia incompatibile con la sicurezza e con l'esistenza della borghesia stessa, distruggendo con le sue proprie mani, nella lotta contro le altre classi della società, tutte le condizioni del proprio regime, del regime parlamentare, la massa extraparlamentare della borghesia, invece, con le sue servilità verso il presidente, coi suoi oltraggi al Parlamento, col modo brutale nel quale trattava la sua stessa stampa, provocava Bonaparte a reprimere e a sterminare i suoi oratori e i suoi scrittori, i suoi uomini politici e i suoi letterati, la sua tribuna parlamentare e la sua stampa, al fine di poter attendere ai propri affari privati sotto la protezione di un governo forte e dotato di poteri illimitati. Essa dichiarava nettamente che non vedeva l'ora di sbarazzarsi del proprio dominio politico per sbarazzarsi delle fatiche e dei pericoli del potere.

E questa borghesia che si indigna persino della lotta puramente parlamentare e letteraria in difesa del potere della propria classe e ha tradito i capi di questa lotta, ora, quando, tutto è terminato, osa accusare il proletariato di non essersi gettato per essa in una lotta sanguinosa, in una lotta a morte. Questa borghesia che in ogni momento ha sacrificato il suo interesse generale di classe, cioè il suo interesse politico, al più gretto e sordido interesse privato, e ha preteso dai suoi rappresentanti lo stesso sacrificio, ora si lamenta, dicendo che il proletariato ha sacrificato ai propri interessi materiali i suoi ideali politici. Essa si comporta come un'anima generosa che il proletariato, traviato dai socialisti, avrebbe misconosciuto e abbandonato nel momento decisivo. Ed essa trova un'eco generale nel mondo borghese. Non parlo qui naturalmente dei politicanti tedeschi da caffè e dei poveri di spirito. Mi riferisco, per esempio, allo stesso Economist, che ancora il 29 novembre 1851, cioè 4 giorni prima del colpo di stato, aveva dichiarato Bonaparte "sentinella dell'ordine" e Thiers e Berryer "anarchici", e già il 27 dicembre 1851, dopo che Bonaparte ha messo a posto quegli anarchici, denuncia il tradimento che sarebbe stato compiuto da "masse proletarie ignoranti, incolte, stupide, ai danni del talento, del sapere, della disciplina, dell'influenza, dell'ingegno, delle risorse intellettuali e delle qualità morali degli strati medi ed elevati della società". La massa stupida, ignorante e volgare non era altro che la massa stessa della borghesia.

È vero che la Francia ha attraversato nel 1851 una specie di piccola crisi commerciale. Alla fine di febbraio si manifestò una diminuzione delle esportazioni rispetto al 1850; in marzo il commercio diminuì e le fabbriche si chiusero; in aprile la situazione dei dipartimenti industriali sembrava essere disperata quanto dopo le giornate di febbraio; in maggio gli affari non avevano ancora ripreso; ancora il 28 giugno il portafoglio della Banca di Francia indicava, con un enorme aumento dei depositi e con una diminuzione altrettanto grande degli anticipi su cambiali, la stasi della produzione; e solo alla metà di ottobre vi era stata una nuova ripresa progressiva degli affari. La borghesia francese si spiegò questo ristagno degli affari con motivi d'ordine puramente politico, con la lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, con l'incertezza di una forma di Stato puramente provvisoria, con la prospettiva paurosa della seconda [domenica] di maggio del 1852. Non voglio negare che tutte queste circostanze esercitassero una influenza deprimente su alcune branche dell'industria a Parigi e nei dipartimenti. Ad ogni modo, però, questa influenza delle circostanze politiche era soltanto locale e insignificante. Si può darne prova migliore del fatto che il miglioramento del commercio si produsse proprio nel momento in cui la situazione politica peggiorava, l'orizzonte politico si oscurava e si attendeva ad ogni istante un colpo di folgore dell'Eliseo, cioè verso la metà di Ottobre.
Il borghese francese, il cui "talento, il cui sapere, la cui chiaroveggenza e le cui risorse intellettuali" non vanno più in là del suo naso, poteva d'altra parte, per tutta la durata dell'Esposizione industriale di Londra, sbattere il naso nella causa della sua miseria commerciale. Mentre in Francia si chiudevano le fabbriche, in Inghilterra scoppiavano bancarotte commerciali. Mentre in aprile e maggio in Francia toccava il colmo il panico industriale, in aprile e maggio, in Inghilterra, toccava il colmo il panico commerciale. L'industria inglese della lana soffriva come quella francese; come quella francese soffriva la manifattura inglese della seta. Le fabbriche inglesi di cotone continuavano a lavorare, ma non facevano più gli stessi profitti che nel 1849 e nel 1850. La differenza stava soltanto nel fatto che la crisi era industriale in Francia, commerciale in Inghilterra; che mentre in Francia le fabbriche si fermavano, in Inghilterra si sviluppavano, ma in condizioni più sfavorevoli che negli anni precedenti; che in Francia i colpi principali erano subìti dall'esportazione, in Inghilterra dall'importazione. La causa comune, che naturalmente non deve essere ricercata entro i limiti dell'orizzonte politico francese, era evidente.
Il 1849 e il 1850 erano stati gli anni di grandissima prosperità materiale e di una sovrapproduzione che si manifestò come tale soltanto nel 1851. Questa venne ancora aggravata, in particolar modo all'inizio di quest'anno, dalla prospettiva dell'Esposizione industriale. A ciò si aggiunsero inoltre circostanze speciali: prima il cattivo raccolto di cotone nel 1850 e nel 1851, poi la sicurezza di un raccolto di cotone più abbondante di quello che ci si aspettava; prima il rialzo, poi il ribasso brusco, in una parola, le oscillazioni dei prezzi del cotone. Il raccolto della seta greggia era caduto, almeno in Francia, al di sotto della media. Le manifatture di lana, infine, si erano talmente estese a partire dal 1848 che la produzione della lana non poteva tener loro dietro e il prezzo della lana greggia aumentava in modo sproporzionato all'aumento del prezzo dei manufatti di lana. Abbiamo quindi già qui, nelle materie prime di tre industrie interessanti il mercato mondiale, tre serie di cause di un ristagno del commercio. Astrazion fatta da queste circostanze speciali, la crisi apparente del 1851 non fu altro che il momento di arresto che la sovrapproduzione e la sovraspeculazione subiscono sempre nel corso del ciclo industriale, prima di raccogliere tutte le forze per attraversare febbrilmente l'ultima parte della curva e giungere ancora una volta al suo punto di approdo, alla crisi commerciale generale. Durante simili intervalli della storia del commercio, in Inghilterra scoppiano bancarotte commerciali, mentre in Francia è l'industria stessa che si ferma, in parte perché costretta a ritirarsi da tutti i mercati dalla concorrenza degli inglesi che proprio allora diventa insopportabile, in parte perché colpita in particolar modo dal ristagno del commercio in quanto industria di lusso.
In questo modo la Francia, oltre alle crisi generali, attraversa le proprie crisi commerciali nazionali, le quali però sono determinate e condizionate più dallo stato generale del mercato mondiale che da influenze locali francesi. Non sarà senza interesse contrapporre al pregiudizio del borghese francese il giudizio del borghese inglese. Una delle più grandi case di Liverpool scrive nel suo bilancio annuale del 1851: "Pochi anni hanno ingannato nelle previsioni fatte al loro inizio più dell'anno testé trascorso. Invece della più grande prosperità che unanimemente ci si attendeva, esso è stato uno degli anni più scoraggianti dell'ultimo quarto di secolo. Naturalmente questo vale per le classi commerciali, non per le classi industriali. Eppure al principio dell'anno vi erano senza dubbio dei motivi per attendersi il contrario. Le riserve di prodotti erano scarse, il capitale era sovrabbondante, i viveri a buon mercato; si era sicuri di un raccolto ricco. Pace ininterrotta sul continente e nessun disturbo politico o finanziario all'interno del paese. In realtà, mai le ali del commercio erano state più libere... A che cosa si deve attribuire questo risultato sfavorevole? Crediamo che lo si debba attribuire all'eccesso del commercio, sia d'importazione che d'esportazione. Se i nostri negozianti non pongono essi stessi limiti più ristretti alla loro attività, nulla potrà mantenerci nella via normale, se non un panico ogni tre anni".

Ci si immagini ora come il borghese francese, in mezzo a questo panico commerciale, doveva avere il cervello, malato come il suo commercio, torturato, confuso, stordito dalle voci di colpi di stato e di restaurazione del suffragio universale, dalla lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, dalla guerra di fronda tra i legittimisti e gli orleanisti, dalle cospirazioni comuniste nel sud della Francia, dalle pretese jacqueries nei dipartimenti della Nièvre e dello Cher, dalla pubblicità dei diversi candidati alla presidenza, dalle parole d'ordine ciarlatanesche dei giornali, dalle minacce dei repubblicani di voler difendere la Costituzione e il suffragio universale con le armi alla mano, dal vangelo degli eroi emigrati in partibus che annunciavano la fine del mondo per la seconda [domenica] di maggio del 1852, e si comprenderà come, in mezzo a questa indicibile e assordante confusione di fusione, revisione, proroga, costituzione, cospirazione, coalizione, emigrazione, usurpazione e rivoluzione, il borghese furibondo gridasse in faccia alla repubblica parlamentare: "Meglio una fine con spavento, che uno spavento senza fine!".

Bonaparte comprese questo grido. Il suo comprendonio era reso più acuto dalla crescente petulanza dei creditori, i quali in ogni tramonto di sole che avvicinava il 2 maggio 1852, giorno della scadenza dei suoi poteri, vedevano una protesta del movimento degli astri contro le loro cambiali terrestri. Essi erano diventati dei veri astrologhi. L'Assemblea nazionale aveva tolto a Bonaparte ogni speranza di proroga costituzionale del suo potere; la candidatura del principe di Joinville non gli permetteva di esitare più a lungo.

Se mai avvenimento ha proiettato davanti a sé la sua ombra molto tempo prima di prodursi, esso è stato certamente il colpo di stato di Bonaparte. Già il 29 gennaio 1849, un mese appena dopo la sua elezione, egli lo aveva proposto a Changarnier. Il suo proprio primo ministro, Odilon Barrot, aveva denunciato in forma privata, nell'estate del 1849, la politica dei colpi di stato; Thiers l'aveva denunciato in modo aperto nell'inverno del 1850. Nel maggio 1851 Persigny aveva cercato ancora una volta di guadagnare all'impresa Changarnier, e il Messager de l'Assemblée aveva fatto conoscere questa conversazione. I giornali bonapartisti minacciavano un colpo di stato ad ogni tempesta parlamentare, e quanto più la crisi si avvicinava, tanto più il loro tono si faceva forte. Nelle orge che Bonaparte celebrava ogni notte con lo swell mob di sesso maschile e femminile, quando si avvicinava la mezzanotte e le abbondanti libazioni snodavano le lingue ed eccitavano la fantasia, il colpo di stato veniva deciso per il giorno seguente. Si snudavano le spade; si toccavano i bicchieri; i rappresentanti venivano gettati dalla finestra e il mantello imperiale cadeva sulle spalle di Bonaparte, fino a che le ore del mattino disperdevano ancora una volta le larve e Parigi, stupefatta, apprendeva da alcune vestali poco riservate e da paladini indiscreti il pericolo al quale era sfuggita ancora una volta. Nei mesi di settembre e di ottobre le voci di un colpo di stato si fecero sempre più frequenti. In pari tempo l'ombra si arricchiva di sfumature, come un dagherrotipo a colori. Si sfoglino i giornali quotidiani europei dei mesi di settembre e di ottobre e vi si troveranno informazioni, del tipo delle seguenti, testuali: "Parigi è piena di voci di colpi di stato. Si dice che la città verrà occupata militarmente durante la notte e che il mattino dopo verranno pubblicati dei decreti che scioglieranno l'Assemblea nazionale, dichiareranno lo stato d'assedio nel dipartimento della Senna, ristabiliranno il suffragio universale, e faranno appello al popolo. Si dice che Bonaparte cerchi ministri pronti a eseguire questi decreti illegali".
Le corrispondenze che danno queste notizie terminano sempre con un fatale "rinviato". Il colpo di stato era sempre stato l'idea fissa di Bonaparte. Con questa idea aveva rimesso piede sul territorio francese. Questa idea lo possedeva a tal punto che egli la tradiva e la divulgava continuamente. Ma era così debole che in pari tempo continuamente vi rinunciava. L'ombra del colpo di stato era diventata così familiare ai parigini come fantasma, che quando finalmente si presentò loro in carne ed ossa non vollero credervi.
Ciò che assicurò il successo del colpo di stato non fu dunque né un atteggiamento riservato del capo della Società del 10 dicembre, né una sorpresa che prendesse l'Assemblea nazionale alla sprovvista. Se il colpo di stato riuscì, riuscì malgrado la mancanza di discrezione del primo, e con la conoscenza preventiva della seconda, come risultato necessario inevitabile di tutta la evoluzione precedente.

Il 10 ottobre Bonaparte annunciò ai suoi ministri la decisione di voler ristabilire il suffragio universale; il 16 essi dettero le loro dimissioni; il 26 Parigi apprese la costituzione del ministero Thorigny. In pari tempo il prefetto di polizia Carlier veniva sostituito da Maupas e il capo della prima divisione militare, Magnan, concentrava nella capitale i reggimenti più sicuri. Il 4 novembre l'Assemblea nazionale riprese le sue sedute. Non le restava altro da fare che ripetere, in una breve e concentrata prova generale, il corso che già essa aveva seguito; e dare la prova che quando la sotterrarono era già morta.

La prima posizione che essa aveva perduto nella lotta contro il potere esecutivo era stato il ministero. Essa dovette riconoscere solennemente questa perdita, accettando pienamente il ministero Thorigny, che era un semplice ministero di comparse. La Commissione permanente aveva accolto a risate il signor Giraud, quando egli si era presentato in nome del nuovo ministero. Un ministero così debole per delle misure così forti, come il ristabilimento del suffragio universale! Ma si trattava precisamente di non far nulla nel Parlamento, di far tutto contro il Parlamento.

Il giorno stesso della sua riapertura l'Assemblea nazionale ricevette un messaggio di Bonaparte, in cui questi chiedeva il ristabilimento del suffragio universale e l'abrogazione della legge dei 31 maggio 1850; lo stesso giorno i ministri del Bonaparte presentarono un decreto in questo senso. L'Assemblea respinse immediatamente la mozione d'urgenza presentata dal ministero e il 13 novembre respinse la legge stessa, con 355 voti contro 348. Essa lacerava così ancora una volta il suo mandato; confermava ancora una volta di essersi trasformata, da rappresentanza liberamente eletta di un popolo, in Parlamento usurpatore di una classe; riconosceva ancora una volta di avere essa stessa reciso i muscoli che univano la testa parlamentare al corpo della nazione.

Se il potere esecutivo, con la sua proposta di ristabilire il suffragio universale, faceva appello dall'Assemblea nazionale al popolo, il potere legislativo, con la sua legge dei questori fece appello dal popolo all'esercito. Questa legge dei questori tendeva a stabilire il diritto dell'Assemblea di requisire direttamente la truppa, di formare un esercito parlamentare. Se in questo modo il potere legislativo faceva dell'esercito l'arbitro tra se stesso e il popolo, tra se stesso e Bonaparte, se riconosceva l'esercito quale potere decisivo dello Stato, era costretto d'altra parte a confermare che da un pezzo aveva rinunciato alla pretesa di comandare l'esercito stesso. Nel momento in cui, invece di requisire senz'altro le truppe, esso discuteva il diritto di requisirle, tradiva i dubbi sulla propria forza. Respingendo la legge dei questori l'Assemblea confessò apertamente la propria impotenza. La legge venne respinta con una minoranza di 108 voti: la Montagna aveva dunque deciso dell'esito della votazione. Essa si trovava nella situazione dell'asino di Buridano, ma non tra due mucchi di fieno e dovendo decidere quale fosse il più appetitoso, bensì tra due sacchi di legnate e dovendo decidere quale fosse il più duro. Da un lato la paura di Changarnier, dall'altro la paura di Bonaparte. Si deve riconoscere che la situazione non aveva niente di eroico. Il 18 novembre venne proposto un emendamento alla legge sulle elezioni comunali presentata dal partito dell'ordine, emendamento in base al quale, invece di tre anni di domicilio, un anno solo doveva bastare per gli elettori municipali. L'emendamento fu respinto per un solo voto; però questo solo voto risultò immediatamente conseguenza di un errore. Scindendosi nelle sue frazioni ostili, il partito dell'ordine aveva perduto da tempo la propria maggioranza parlamentare indipendente.
Ora mostrava che nel Parlamento non esisteva più maggioranza di sorta. L'Assemblea nazionale era diventata incapace di prendere una decisione. Le sue parti costitutive elementari non erano più tenute assieme da nessuna forza di coesione; essa aveva reso l'ultimo respiro, era morta.

La massa extraparlamentare della borghesia, infine, doveva confermare solennemente ancora una volta, alcuni giorni prima della catastrofe, la sua rottura coi rappresentanti della borghesia nel Parlamento. Thiers, in qualità di eroe parlamentare, affetto in maniera speciale dalla malattia inguaribile del cretinismo parlamentare, dopo la morte del Parlamento aveva ordito un nuovo intrigo parlamentare col consiglio di Stato, una legge sulla responsabilità che avrebbe dovuto stringere il presidente nei ceppi della costituzione. Bonaparte, che il 15 settembre, in occasione dell'inaugurazione dei nuovi mercati di Parigi, aveva, nuovo Masaniello, ammaliato le dames des halles, le pescivendole - e del resto una pescivendola valeva di più, come potere reale, di 17 burgravi -, che dopo la presentazione della legge dei questori aveva riempito di entusiasmo i tenenti da lui ospitati nell'Eliseo, il 25 novembre strappò l'adesione della borghesia industriale, riunita nel Circo per ricevere di mano sua le medaglie dei premi dell'Esposizione industriale di Londra.
Riproduco qui dal Journal des débats il passo più caratteristico del suo discorso: "In presenza di successi così insperati, io sono in diritto di dichiarare ancora una volta quanto la repubblica francese sarebbe grande se le fosse permesso di occuparsi dei suoi interessi reali e di riformare le sue istituzioni, invece di essere continuamente turbata, da un lato dai demagoghi, dall'altro lato da allucinazioni monarchiche (applausi rumorosi, entusiastici e prolungati in tutte le parti dell'anfiteatro). Le allucinazioni monarchiche impediscono ogni progresso e ogni sviluppo industriale serio. Invece del progresso non si ha che la lotta. Si vedono degli uomini, che un tempo erano i sostenitori più zelanti dell'autorità e delle prerogative monarchiche, diventare partigiani di una Convenzione unicamente allo scopo di indebolire l'autorità uscita dal suffragio universale (applausi entusiastici e prolungati). Vediamo alcuni uomini che più hanno sofferto della rivoluzione e più se ne sono lamentati, provocarne una nuova unicamente per incatenare la volontà della nazione... Io vi prometto la tranquillità per l'avvenire, ecc. (Bravo! Bravo! Applausi fragorosi)". In questo modo la borghesia industriale applaude servilmente al colpo di stato del 2 dicembre, alla soppressione del Parlamento, alla fine del suo proprio dominio, alla dittatura di Bonaparte. Al suono degli applausi del 25 novembre rispose il tuono dei cannoni del 4 dicembre, e la casa del signor Sallandrouze, il quale aveva applaudito con maggiore entusiasmo, venne distrutta dal maggior numero di bombe.

Cromwell, quando sciolse il Lungo parlamento, si recò da solo in mezzo ad esso; cavò di tasca l'orologio, affinché il Parlamento non vivesse un minuto di più di quanto egli aveva fissato; e scacciò ogni singolo membro con oltraggi serenamente umoristici. Napoleone, inferiore al suo modello, per lo meno, il 18 brumaio si recò nell'Assemblea legislativa e le lesse, sia pure con voce turbata, la sua sentenza di morte. Il secondo Bonaparte, che del resto era in possesso di un potere esecutivo ben diverso da quello di Cromwell o di Napoleone, non cercò il suo modello negli annali della storia, ma negli annali della Società del 10 dicembre, negli annali della giustizia criminale. Rubò alla banca di Francia 25 milioni di franchi; comprò il generale Magnan con un milione, i soldati con 15 franchi a testa e con acquavite; si riunì la notte, di nascosto, come un ladro, con i suoi complici; fece invadere le case dei capi parlamentari più pericolosi e strappare dai loro letti Cavaignac, Lamoricière, Leflô, Changarnier, Charras, Thiers, Baze, ecc, fece occupare militarmente le piazze principali di Parigi e l'edificio del Parlamento, e affiggere al mattino su tutti i muri manifesti ciarlataneschi, in cui si annunciava lo scioglimento dell'Assemblea nazionale e del Consiglio di Stato, il ristabilimento del suffragio universale e la messa in stato d'assedio del dipartimento della Senna. Poco dopo fece inserire nel Moniteur un documento falso, secondo il quale un certo numero di parlamentari influenti si erano riuniti attorno a lui in una Consulta di stato.

I resti del Parlamento, composti soprattutto di legittimisti e di orleanisti, si riunirono nella sede della municipalità del decimo mandamento, e al grido ripetuto di "Viva la repubblica", decisero la destituzione di Bonaparte; arringarono invano la folla che stazionava davanti all'edificio e, infine, vennero trascinati, sotto la scorta dei cacciatori d'Africa, nella caserma d'Orsay, e poi stivati nelle vetture cellulari e trasportati nelle prigioni di Mazas, Ham e Vincennes. Così finivano il partito dell'ordine, l'Assemblea legislativa e la Rivoluzione di febbraio. Prima di passare alla conclusione, diamo uno schema riassuntivo della loro storia:

I - Primo periodo. Dal 24 febbraio al 4 maggio 1848. Periodo di febbraio. Prologo. Frenesia di fratellanza universale.

II - Secondo periodo. Periodo della Costituzione della repubblica e dell'Assemblea nazionale costituente.

1. dal 4 maggio al 25 giugno 1848. Lotta di tutte le classi contro il proletariato. Disfatta del proletariato nelle giornate di giugno.

2. dal 25 giugno al 10 dicembre 1848. Dittatura dei repubblicani borghesi puri. Elaborazione della Costituzione. Stato d'assedio a Parigi. La dittatura della borghesia viene liquidata dall'elezione di Bonaparte a presidente.

3. dal 20 dicembre 1848 al 29 maggio 1849. Lotta della Costituente contro Bonaparte e contro il partito dell'ordine alleato con Bonaparte. Fine della Costituente. Caduta della borghesia repubblicana.

III - Terzo periodo. Periodo della repubblica costituzionale e dell'Assemblea nazionale legislativa.

1. dal 29 maggio 1849 al 13 giugno 1849. Lotta dei piccoli borghesi contro la borghesia e contro Bonaparte. Disfatta della democrazia piccolo-borghese.

2. dal 13 giugno 1849 al 31 maggio 1850. Dittatura parlamentare del partito dell'ordine. Questo partito corona il proprio dominio con la soppressione del suffragio universale, ma perde il ministero parlamentare.

3. dal 31 maggio 1850 al 2 dicembre 1851. Lotta tra borghesia parlamentare e Bonaparte.

a. dal 31 maggio 1850 al 12 gennaio 1851. Il Parlamento perde il comando supremo dell'esercito.

b.  dal 12 gennaio all'11 aprile 1851. Il Parlamento è sconfitto nei suoi tentativi di impadronirsi nuovamente del potere amministrativo. Il partito dell'ordine perde la sua maggioranza parlamentare indipendente. Sua coalizione coi repubblicani e con la Montagna.

c.  dall'11 aprile al 9 ottobre 1851. Tentativi di revisione, di fusione e di proroga. Il partito dell'ordine si decompone nel suoi singoli elementi costitutivi. La rottura del Parlamento borghese e della stampa borghese con la massa della borghesia diventa definitiva.

d.  dal 9 ottobre al 2 dicembre 1851. Rottura aperta tra il Parlamento e il potere esecutivo. Il Parlamento formula il proprio atto di decesso e soccombe, abbandonato dalla sua propria classe, dall'esercito e dalle altre classi. Fine del regime parlamentare e del dominio della borghesia. Vittoria di Bonaparte. Parodia di restaurazione imperiale.