Mario Tronti

Marx non è stato inferiore alla grandezza del Novecento


Un secolo grande e terribile, il Novecento, ci ha lasciato una piccola storia, quella del riformismo. Socialista, democratico, senza alcuna prospettiva che non sia quella di giungere ad una regolazione del presente senza un pensiero critico. Ma ha lasciato anche un autore, Karl Marx, che per Mario Tronti è l’unico pensiero che ci permette di rimanere dritti nella corrente di un’epoca che si preannuncia tragica. Sospesa tra la necessità di tornare a pensare la rivoluzione e l’impossibilità di vederne una all’orizzonte.

Hai scritto che l’orizzonte dell’opera di Marx, rivisto nella politica del Novecento, ha subito una catastrofe apocalittica. In cosa consiste questa catastrofe e perché è avvenuta?

Beh, iniziare così non è beneagurante, ma bisogna sempre scendere al fondo oscuro della storia per risalire alla luce (ride). Il Novecento è stata la grande prova di Marx. Non il suo Ottocento dove era nato e si era collocato quasi naturalmente. Era il prodotto naturale della società borghese, capitalistica in una fase ancora classica in cui vigeva un capitalismo libero concorrenziale. Soltanto in seguito Marx inizia a intravedere il destino del capitalismo: le grandi concentrazioni, sia a livello capitalistico che a livello operaio, il passaggio dalla libera concorrenza al monopolio e che di lì provocherà la stagione del colonialismo. Sebbene Marx sia un prodotto genuino del suo secolo, credo che la grande prova della sua opera sia stato il Novecento. Non tanto delle sue previsioni, quanto della sua stazza di pensatore moderno. È stata una grande sfida. Marx non si è dimostrato inferiore alla grandezza del secolo.

A Marx attribuisci attribuisci l’identità di una forza che conduce una “disperata lotta antideterministica” contro la corrente del secolo. Che cosa intendi?

Marx è una grande forza soggettiva che affronta la forza oggettiva della produzione, della circolazione, dello scambio e del consumo del capitale. Questo ha una sua determinatezza oggettiva anche se mosso da istanze soggettive. Di fronte a questo meccanismo deterministico Marx oppone una soggettività altrettanto forte. O almeno cerca una soggettività, che possa tenere testa a questo meccanismo nel movimento operaio e prima di lui dentro il capitale stesso, quando ha individuato questa parte interna al capitale che è la forza lavoro che diventa lavoro vivo e poi classe operaia. Marx ha intravisto dentro il capitale questa contraddizione muovendo la quale secondo lui si sarebbe messo in crisi il meccanismo oggettivo.

Tu sostieni che questo progetto ha subito uno scacco. Perché?

È questo lo scacco che, secondo me, ha delle conseguenze catastrofiche. La potenza deterministica è stata più forte della potenza soggettiva. E qui si aprono tanti problemi.

Alludi allo scacco del socialismo reale oppure ad una sconfitta molto più vasta che parte dal cuore dei paesi capitalistici?

Il socialismo reale aveva un destino segnato di sconfitta nel momento in cui quell’esperimento non si è ripetuto in Occidente. Adesso possiamo verificare che non era possibile quel socialismo in un paese solo, e soprattutto in quel paese. Prima ancora del crollo del socialismo reale la sconfitta vera è quella della rivoluzione in occidente. È qui che Marx ha subito la vera sconfitta.

Ma quel meccanismo di produzione di soggettività che hai descritto in Operai e Capitale avrebbe portato ad uno sbocco politico a favore del movimento operaio oppure quando parli di scacco alludi anche ad una sconfitta più generale della sfida al capitale?

Penso a due cose. Da una parte c’è stato uno scarto tra quella che io chiamo classe operaia e il movimento operaio, e qui penso ad una classe operaia organizzata in vari modi, dalle forme ottocentesche che oggi vedo rivalutate, quelle della solidarietà di base, delle società di mutuo soccorso, le prime Camere del lavoro, l’organizzazione sindacale e poi l’organizzazione politica, i partiti. Le forme dell’organizzazione della classe operaia hanno subito una divaricazione tra la socialdemocrazia e il comunismo. Mi chiedo se ci sia stato un limite del movimento operaio ad assumere in proprio la spinta della classe operaia e delle sue lotte - e questo sicuramente c’è stato. Credo che la conoscenza scientifica della classe operaia è stata inferiore alla conoscenza scientifica del capitale. E questo già nell’opera di Marx. Marx ha conosciuto di più e meglio la struttura del capitale, la sua opera fondamentale è su questo argomento, mentre non ha approfondito la conoscenza della forza lavoro. L’ha approfondita in quanto parte del capitale, come capitale variabile, lavoro vivo e così via. Ma non l’ha approfondita nel senso della sua possibile autonomia. Un’autonomia da intendere in senso forte: prima ancora che sindacale e politica, è antropologica. Marx non ha dato una antropologia operaia come invece hanno fatto le grandi dottrine borghesi che contavano su un’antropologia borghese formulata dagli economisti classici a partire da Adam Smith. Nel Novecento non c’è stato alcun approfondimento su questo problema. L’“uomo nuovo” che si voleva costruire nel socialismo non era credibile perché non veniva da una precedente analisi scientifica della figura operaia. Tanto è vero che il lavoro è stato equivocato all’interno di una mitologia positiva. Purtroppo non è stata elaborata una mitologia negativa del lavoro. Quando nella stagione operaista abbiamo iniziato a parlare del rifiuto del lavoro, della lotta dell’operaio contro il lavoro, oltre che contro il capitale, era un atto di coraggio. Oggi la teoria del rifiuto del lavoro viene ridicolizzata, ma al tempo era una cosa serissima. La figura operaia non assumeva in proprio il lavoro, in quanto questo lavoro stava dentro il capitale, ma se lo trovava davanti come nemico. Questa figura non è stata analizzata da Marx né dal marxismo. Tanto è vero che abbiamo subito non solo la retorica sul lavoro del socialismo sovietico, ma anche quella del movimento comunista in occidente che attribuiva al lavoro la funzione di riscatto sociale. Noi invece pensavamo alla liberazione dal lavoro salariato che secondo me era organica all’antropologia operaia. Quando siamo andati a vedere l’operaio in carne ed ossa nelle grandi concentrazioni operaie questo era evidentissimo. L’operaio non amava il suo lavoro, semmai lo odiava. Quest’odio poteva essere la carta vincente della forma organizzata della classe. Il movimento operaio non ha capito bene il suo punto di riferimento: l’operaio delle industrie. Man mano che si passava dall’operaio professionale all’operaio massa, aumentava l’alienazione del lavoro e il suo carattere automatico, il carattere di appendice dell’operaio rispetto alla macchina, ma aumentava anche la sua lotta contro il capitale e nello stesso tempo la lotta contro il proprio lavoro dentro il capitale. Questa incomprensione prosegue anche oggi in cui la figura operaia sparisce di fronte al processo automatizzato della produzione capitalistica.

Qual è invece il secondo aspetto dello scacco?

È quello più drammatico. Mi domando se non ci sia stato un limite della figura operaia che non ha permesso al movimento operaio di emergere come soggetto alternativo, antagonista, capace di sostituire il capitale nella gestione della società. Un limite che può derivare da tante cose. Mentre la figura del capitalista si è fondata e radicata su una tradizione lunga di borghesia storica che veniva da lontano, non era solo moderna ma stava già dentro alcune strutture precapitalistiche, penso alla borghesia delle città rispetto al mondo rurale delle campagne. Insomma c’è stata una lunga evoluzione della classe borghese come classe egemone dotata degli strumenti culturali per capire il mondo e capace di avere le tecniche per gestire la società, armata di cultura, che nasce dal XVI secolo in poi e produce scienza, arte, tecnica. Quando la borghesia fa la sua rivoluzione aveva dietro questa grande civilizzazione. La figura operaia non ha avuto dietro di sé questa genesi, è un prodotto che nasce nella rivoluzione industriale. Nasce alla fine del Settecento. A un certo punto si è trovata a gestire una forma sociale come il socialismo reale che tutto sommato, tra tanti limiti e difetti e crimini, dava la possibilità ad un lavoratore o a un contadino di arrivare a dirigere un complesso industriale, una struttura di partito o anche lo Stato. Se si va vedere le biografie dei dirigenti bolscevichi che guidano la fase della costruzione del socialismo, in grandissima parte hanno un’origine proletaria. Però non era sufficiente, perché queste figure non portavano dietro di sé l’accumulo di sapere, scienza, tecnica, cultura e arte. Non a caso si è dovuto fare ricorso, nei casi migliori, al sapere delle altre classi sociali che venivano incluse nei livelli di gestione della società e del potere con tutte le contraddizioni che questo comportava, al punto da risultare impropria alla costruzione e alla gestione del socialismo. La rottura che c’è stata nella gestione del socialismo tra il potere e il sapere è stata drammatica. È stata una lotta di classe che ha distrutto quelle sacche di sapere che esistevano e ha sguarnito il potere nella sua capacità di gestione. La borghesia ha avuto una lunga storia di classe egemone. La classe operaia veniva invece da una lunga storia di classe subalterna. Avrebbe avuto bisogno di ancora un paio di secoli.

Hai sostenuto recentemente che la classe operaia non è stata solo sconfitta, ma oggi è in via di esaurimento. Puoi spiegarlo meglio?

Siamo davanti, come sempre, all’ambiguità di un processo. Dal punto di vista quantitativo si potrebbe sostenere che non è così, perché i processi di modernizzazione di questi grandi paesi che fino a qualche tempo fa si chiamavano “paesi arretrati”, soprattutto quelli asiatici, con i processi di industrializzazione che si sono messi in moto e le grandi quantità di popolazione, hanno creato un gigantesco accumulo di lavoro operaio. In Cina, in India o in Corea, dal punto di vista quantitativo non si può dire che esista un declino operaio, ma secondo me questo non basta. Nel senso che la crescita della classe operaia non si può misurare quantitativamente. Non basta la concentrazione operaia in alcuni luoghi per farne un elemento soggettivo di antagonismo. Ci vuole qualcos’altro. Per me la nozione di classe è una nozione che diventa un fatto politico quando si passa ad un livello di coscienza di classe e poi quando questa coscienza si esprime in forma organizzata. Se non esistono questi passaggi la quantità delle figure operaie non fa il salto verso la qualità. La mia impressione è che anche in queste condizioni manca questo passaggio. In Occidente il passaggio dalla centralità alla marginalità operaia è evidente anche dal punto di vista empirico. In Oriente questo elemento quantitativo, almeno ad oggi, non mostra di passare alla qualità. Ma queste più che certezze, sono dubbi.

Sei d’accordo con chi distingue nel Novecento una grande storia da una piccola storia? La grande storia che coincide con il tentativo di dare alla classe operaia una sua qualità soggettiva e la piccola storia in cui si verifica il passaggio dalla centralità alla marginalità operaia?

Il Novecento è sempre declinato tra grande e piccola storia. Io l’ho fatto anche cronologicamente perché mi sembra che esista un grande Novecento e un piccolo Novecento. Ma non si insisterei molto su queste argomentazioni. Secondo me la piccola storia del movimento operaio è il riformismo. Nel senso che il riformismo è già implicitamente il riconoscimento di una sconfitta. È proprio l’anticipazione di questa sconfitta. Già quando nasce, con Bernstein, c’è già l’idea che la classe operaia non ce l’avrebbe fatta e forse la sua era anche una considerazione realistica.

Di quale Marx parliamo oggi?

Da un lato Marx è l’idea di una rottura nella storia del pensiero. Il Marx che rimane per me è quello dell’undicesima tesi su Feuerbach, il punto di rottura nella storia della filosofia, è la fuoriuscita dalla storia della filosofia: i filosofi si sono limitati a conoscere il mondo, con Marx giunge il momento di cambiarlo. Il suo è un pensiero per la prassi. Marx vuole dire mettersi davanti al mondo non per capirlo ma per cambiarlo. O comunque capire il mondo per cambiarlo. L’altro Marx è il punto di vista, è l’esistenza del proletariato prima e della classe operaia dopo. Gli altri filosofi potevano esistere di per sé. Marx non poteva esistere senza il proletariato, non ci sarebbe stato il suo pensiero senza questo punto di vista, questo per dire che Marx, ad esempio, è il portatore di un grande progetto. Ecco perché non può essere un pensatore riformista. Si può non essere marxisti ed essere riformisti. Nel novecento abbiamo avuto degli esempi straordinari di riformismo: Keynes, chi più di lui, e non era certo marxista. Poi c’è Roosevelt. Hanno riformato il capitalismo nella teoria e nella pratica. Ma riformisti sono stati anche quelli che hanno rovesciato la prospettiva keynesiano: i neoliberisti hanno rifondato il capitalismo in maniera altrettanto forte nell’era thatcheriana. Mentre essere marxisti, significa essere rivoluzionari. L’istanza di Marx, per quanto se ne voglia dire, non è un miglioramento delle attuali condizioni, ma un loro rovesciamento. E quindi se il riformismo è la piccola storia, la rivoluzione è la grande storia del Novecento. Penso ad ogni modo che i grandi processi storici non possano essere giudicati dagli esiti. Gli esiti sono determinati da tante altre condizioni.

Perché parlare di attualità di Marx?

A parte la forma capitalistica dell’attuale civiltà occidentale che nel suo complesso è un’età in piena decadenza, di declino della forma uomo, l’attualità di Marx è nell’attualità della rivoluzione che si declina in un modo molto complesso, perché io credo che oggi ci sia una necessità della rivoluzione e nello stesso tempo c’è un’impossibilità della rivoluzione. La rivoluzione è necessaria e non è possibile: questo è il tragico del nostro tempo che bisogna assumere in proprio e convivere con questa contraddizione tra necessità e possibilità. Non è una condizione disperata perché quando le condizioni sono lucide non sono mai disperate. La disperazione deriva quando c’è confusione, quando c’è chiarezza di pensiero non c’è mai disperazione. C’è un entusiasmo di pensiero di fronte alla contraddizione tra necessità e possibilità, sei costretto ad armarti di pensiero per affondare nella contraddizione e risolverla. E questo è molto bello.

E la politica?

Starei a vedere che cosa succede. La mia non è una posizione attendista, ma credo che debbano maturare delle condizioni. La cosa sicura è che la storia non è finita e non si capisce perché dovrebbe finire proprio adesso. Ne abbiamo tanta dietro le spalle, sarebbe veramente una strana condizione di sfortuna vivere proprio noi la fine. Le magnifiche sorti e progressive che oggi stanno davanti al mondo contemporaneo sono cariche di contraddizioni. Vedo piuttosto il riemergere una vecchia storia che sarà decisiva nei prossimi decenni.

Di quale vecchia storia si tratta?

La storia dello scontro tra potenze politiche, storiche che sta ritornando. Più che nell’aggressione dell’occidente da parte di potenze estranee come quelle che vengono evocate nello scontro di civiltà, che è una cosa da non sottovalutare, nell’occidente, che per me è più grande dei suoi ipotetici confini “culturali, e corrisponde al mondo capitalistico, stanno entrando dimensioni enormi che fino a ieri erano fuori, il mondo cosiddetto sottosviluppato. La pratica futura sarà determinata da questo sviluppo capitalistico mondiale. Non possiamo sapere cosa accadrà quando si muoveranno queste realtà. Oggi ritorna il conflitto tra potenze come accadeva un tempo in Europa: la Francia contro la Spagna, l’Impero tedesco contro l’Inghilterra. Il conflitto tra le potenze ritornerà presto a livello mondo. E anche la pratica della lotta di classe sarà determinata da questi sommovimenti.

Tu dici che il Novecento, questo secolo grande e tragico, non si può capire senza il divergente accordo o il convergente disaccordo tra Marx e Schmitt. In quello che dici si vede che hai in testa il libro di Schmitt Il nomos della terra e dall’altra parte c’è il Capitale di Marx

È proprio così. L’hai già detto tu. Ma su questo incontro Schmitt-Marx non voglio insistere più di tanto, perché so che è un’idea che non va oltre me. Anche se me ne convinco sempre di più: Schmitt ha introdotto nell’orizzonte marxiano quello che a Marx mancava: la politica-mondo. Perché Marx in fondo è l’economia mondo. Sono due dimensioni che si integrano e non si escludono, non si identificano certo, però è straordinaria l’integrazione dei loro punti di vista. È un connubio che non basta, naturalmente. Per arrivare alla prassi, ne sono convinto, abbiamo bisogno di un terzo uomo: Lenin. Gli sono molto legato: è l’unico che ha compreso il meccanismo politico del cambiamento, cioè la capacità di stare nella contingenza storica con una forza soggettiva capace di spazzare l’eredità passiva della continuità.

A tuo parere al movimento operaio, e alla sua rappresentanza politica, è mancata questa forza soggettiva di intervento nella contingenza politica?

È mancata del tutto in Occidente perché non abbiamo avuto Lenin in Inghilterra. Se l’avessimo mandato da quelle parti dopo l’esilio… alcune cose di Gramsci a volte mi fanno pensare che se avesse avuto la libertà mentale e d’azione forse avrebbe adattato all’occidente la prospettiva leninista.

Ma cosa dovrebbe fare un Lenin che oggi si colloca in quello che definisci lo scontro tra potenze e muove la lotta di classe?

Questa è una domanda a cui non sono ancora in grado di rispondere.

E allora ti chiedo cosa dovrebbe scrivere questo Lenin oggi?

Ci sono anche cose che non sapremo mai. Probabilmente rifarebbe un cammino e cercherebbe di risolvere lo scarto tra necessità e possibilità di cui parlavo prima.

Forse troverebbe il modo di abitare per quanto è possibile la contraddizione.

E sarebbe già una grande cosa…

grazie a: Centro per la Riforma dello Stato