Louis Althusser


Louis Althusser è nato nel 1918 a Birmandreis, nei pressi di Algeri. Nel 1980 in un attacco di follia uccide la moglie e sarà quindi internato in ospedale psichiatrico. Muore nel 1990 a Parigi.
Egli utilizza il modello epistemologico * di Bachelard per interpretare la filosofia di Marx, e le sue opere principali sono Per Marx (1965) e Leggere il "Capitale" (1965), in collaborazione con altri, sino a Lenin e la filosofia (1969), Elementi di autocritica (1974) e Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati (1974).
Althusser, di formazione cattolica, durante la guerra viene imprigionato in un campo di concentramento in Germania; nel 1948, anno in cui ha aderito al Partito Comunista Francese, sotto la guida di Bachelard consegue il dottorato in filosofia all'Ecole Normale Supérieure di Parigi, dove insegnerà per molti anni.
Althusser ritiene che la storia del movimento operaio in Francia sia caratterizzato da una mancanza di teoria , la quale ha condotto a privilegiare l'azione politica, disancorata dalla teoria, o a riconoscere l'unica forma di conoscenza nel sapere scientifico, sul modello del positivismo, oppure a interpretare il marxismo come una forma di umanismo, ravvisandone il nucleo nella dottrina dell'alienazione, come in vario modo avevano fatto Sartre, Henri Lefébvre e Roger Garaudy.
Althusser ritiene che queste interpretazioni umanistiche del marxismo risentano eccessivamente delle opere giovanili di Marx, ancora legate alla filosofia hegeliana: ma la soria non ha uno sviluppo lineare e continuo verso una meta prestabilita, e la teoria di Marx non è una filosofia dell'uomo come soggetto protagonista della storia, bensì uno strumento di analisi scientifica. E infatti Althusser sostiene invece che il pensiero di Marx ha esperimentato una vera e propria rottura epistemologica, rappresentata dalle Tesi su Feuerbach e dall'Ideologia tedesca: essa ha prodotto la transizione del pensiero di Marx dall'ideologia alla scienza e, analogamente a quanto teorizzato dal filosofo marxista italiano Galvano Della Volpe, per Althusser la maturità del pensiero marxiano ha il suo culmine nel Capitale.
Il "giovane Marx" rappresenta invece un ostacolo epistemologico, in quanto, insistendo unilateralmente sul soggetto, non consente di conoscere la collocazione oggettiva degli uomini nei rapporti di produzione, e quindi la rottura nei confronti di questa posizione umanistica è indispensabile per consolidare un marxismo critico e vitale: per un verso il materialismo storico, ovvero la teoria scientifica della storia, intesa come processo senza soggetto e senza fini predeterminati, ma mossa dalla lotta alle classi; epoi il materialismo dialettico, inteso come epistemologia che riflette sulla storia del sapere e sui meccanismi della sua produzione.
Il marxismo, dunque, si rivela come filosofia o pratica teorica, dotata di una propria specificità e autonomia rispetto alla pratica politica e capace di rendere conto della natura della storia, ma anche delle formazioni teoriche: la filosofia come "teoria della pratica teorica" ha anche il compito di depurare la scienza da ogni intromissione ideologica, e lo storicismo, riducendo le scienze e il marxismo stesso a semplici ideologie e riflessi di rapporti di classe, smarrisce la dimensione scientifica propria del marxismo e finisce col ridurlo alla semplice pratica politica, sganciata dalla teoria.
La rottura epistemologica operata dal marxismo nei confronti di Hegel, consiste non soltanto in un rovesciamento, ma nella "trasformazione radicale della dialettica."
Althusser sostiene che la peculiarità del marxismo scientifico si basa sul riconoscimento che in ogni processo complesso e nella struttura globale della società c'è una "contraddizione principale", la quale domina sul resto. Ciò vuol dire che "la totalità complessa possiede l'unità di una struttura articolata a dominante", ossia non costituita di elementi semplicemente allineati sullo stesso piano, ma neppure equivalente ad una essenza metafisica, com'è la totalità hegeliana.
La contraddizione principale, però, secondo Althusser, pur occupando una posizione dominante, non può sussistere senza contraddizioni secondarie, che sono la sua condizione di esistenza, così come essa lo è di queste ultime. In tal modo, viene superata ogni operazione rigida tra il piano della struttura e quello della sovrastruttura: ogni modo di produzione implica sempre anche la riproduzione delle condizioni politiche e ideologiche che ne assicurano la continuità. La società è una totalità complessa strutturata, nella quale forze produttive, rapporti di produzione e sovrastruttura s'intrecciano secondo una struttura a dominante, definita dalla contraddizione principale, la quale determina l'unità del tutto.
Althusser riprende dalla psicanalisi il concetto di sovradeterminazione già usato da Lacan per indicare il fatto che una formazione dell'inconscio, per esempio il sogno, non può essere spiegata facendo riferimento ad una sola causa, ma occorre ricondurla ad una pluralità di fattori. Anche la contraddizione marxiana è sovradeterminata e non si presenta mai in forma pura: la contraddizione principale tra capitale e lavoro salariato rientra sempre all'interno di una totalità strutturata di rapporti e di contraddizioni, che ne qualificano i modi e le variazioni. Perché la contraddizione principale diventi attiva ed efficace e possa produrre una rivoluzione , dando luogo ad una nuova formazione economico-sociale, non basta la sua semplice esistenza, ma occorre una congiuntura , ovvero l'accumularsi di circostanze concomitanti. Solo l'analisi scientifica delle contraddizioni che permeano la totalità sociale in un periodo dato può dunque determinare il posto e la funzione svolta dalle classi entro tale totalità e la portata oggettiva della loro azione.
Il Partito Comunista Francese, poco disponibile ad un dibattito teorico eccessivamente spregiudicato, criticherà pesanemente questo tipo di posizioni, tanto che Althusser prenderà in qualche modo le distanze dallo strutturalismo ** , che accentua eccessivamente l'autonomia della teoria.
Alla filosofia Althusser tornerà ad attribuire il compito politico di difendere il materialismo e l'oggettività, contro lo spiritualismo e l'idealismo, anche nelle sue varianti strutturalistiche, che rappresentano il pensiero tipico della borghesia.



* Epistemologia (dalle parole greche episteme = scienza, conoscenza e logos = parola, discorso) è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni nell'ambito delle quali si può avere conoscenza scientifica e dei metodi per raggiungere tale conoscenza.
* Strutturalismo: in linguistica è la teoria elaborata dal linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857 - 1913) nel suo Cours de linguistique générale (1916) che si propone lo studio della lingua intesa come sistema autonomo e unitario di segni, dando rilievo primario all'asse della sincronia rispetto a quello della diacronia. Si rifà allo strutturalismo anche quel movimento filosofico, scientifico e critico letterario che, sviluppatosi soprattutto in Francia durante gli anni Sessanta, estese le teorie e il metodo dello strutturalismo linguistico all'antropologia, alla critica letteraria, alla psicoanalisi, al marxismo e all'epistemologia.

Louis Althusser

Il mio percorso intellettuale


Tratto dall'intervista RAI "La crisi del marxismo" - Roma, esterno giorno, giovedì 3 aprile 1980

Sono nato in Algeria. Mia madre era figlia di un piccolo contadino povero del Morvan, nel centro della Francia, che aveva scelto di andare in Algeria come garde forestier, "guardia forestale". Mio padre era figlio di un alsaziano, che aveva scelto la Francia nel '71. Il governo francese li ha deportati tutti in Algeria, così mio padre e mia madre si sono conosciuti lì.

Qual è stato il tuo percorso intellettuale e culturale?

Il mio percorso intellettuale? È passato fra due uomini, uno dei quali si chiama Jean Guitton, un uomo molto colto, che è stato amico di Papa Giovanni XXIII.

Un cattolico?

Sì, un cattolico, un filosofo cattolico, amico di Paolo VI, amico intimo di Paolo VI, che mi ha insegnato a fare una dissertation, a scrivere, come si dice: fare una dissertation. Un tema di scuola. Sono stato formato così.

E come sei diventato comunista?

Sono diventato comunista perché sono stato cattolico. Non ho cambiato fede, ma ho trovato che,  se ciò si può dire,  sono rimasto un cristiano nel fondo delle mie convinzioni. Non vado in chiesa, ma cosa c'entra! Adesso la Chiesa non chiede più alla gente di andare in  chiesa! Sono rimasto cattolico, cioè universalista e internazionalista: ho pensato che nel partito comunista c'erano i mezzi più adeguati per la realizzazione della fraternità universale. E poi c'è stata l'influenza di mia moglie, che aveva fatto una resistenza terribile e che mi aveva insegnato molte, molte cose. Le donne non si rendono conto di quali capacità dispongono? E che possibilità hanno di fare politica!

Che differenza c'è tra il rispetto e l'amore?

Una grande differenza, perché la Chiesa, Gesù Cristo ha ordinato: tu devi amare il tuo prossimo. Gesù dà un ordine: l'amore diventa un ordine, l'ordine che coinvolge l'altro. Tu devi amare il tuo prossimo.

...il prossimo tuo come te stesso.

Sì, come te stesso, ed è un ordine. E io non voglio nessun ordine. Salvo l'unico ordine, che non è un ordine, che è quello di rispettare l'altro; quest'ultima cosa, il rispetto, tanto per fare un esempio,  tra me e te, è una cosa che può essere anche tua. Se tu dici: io devo amare l'altro, l'altro resta coinvolto nel tuo amore, non ne può scappare, capisci, perché forse se ne frega del tuo amore, e cosa può farci? E tu insisti: io ti devo amare! Io ti devo amare, perché Cristo e la Chiesa me lo chiedono! Allora cosa fai? Te ne vai via, alla fine. E invece, se hai rispetto dell'altro, allora veramente lo lasci fare ciò che vuole. Se lui ti vuole amare, va bene, se lui non ti vuole amare, va bene; se tu l'ami ti senti di spiegare a quell'altro che l'ami, se non l'ami, ebbene, fai ciò che vuoi!

Qual è il tuo metodo di lavoro e di studio?

Tento di fare ciò che mi sembra la cosa più importante di tutte le cose, direi la parola d'ordine numero uno: cambiare di pensiero. Cambiare il modo di pensare e poi, in seguito, cambiare il modo di agire, vuol dire cambiare il modo di organizzare, di mobilitare, di far capire le cose, di far agire la gente, di organizzare l'azione, sindacale, politica, ecc. ecc.

Questo vuol dire anche cambiare il modo di fare politica. Che cos'è la politica?

La politica? Che cos'è la politica? È agire per la libertà e l'uguaglianza.

Che vuol dire saper fare politica, per esempio?

Vuol dire essere coscienti del rapporto reale che esiste fra gli uomini che hanno delle idee sulla politica e gli altri.

Lenin diceva che tra gli anarchici e i marxisti vi erano nove decimi di identità e un solo decimo di differenza. Il fatto è che i comunisti volevano l'estinzione dello Stato e gli anarchici il suo abbattimento immediato, sei d'accordo?

Althusser: Sì, su tutto. Cioè io sono anarchista, sociale, mentre non sono comunista, perché l'anarchismo sociale è al di là del comunismo.

Perché si è spezzata questa unione culturale, fra l'anarchismo e il comunismo che pure esisteva alla fine del XIX secolo?

Althusser: Oh, sì, è una storia molto drammatica, sono i rapporti tra Marx e Bakunin, è la storia in cui la personalità di Marx, la personalità negativa di Marx ha giocato un ruolo prepotente: è una storia terribile.

Secondo te è rimasto qualcosa di questo spirito anarchico nei movimenti comunisti?

Althusser: Ah, sì meno male, meno male che siamo, non tutti, ma che siamo anarchisti, meno male, perché l'anarchismo è la verità, dico l'anarchismo sociale, non l'egoismo.

Ma non pensi che ci sia stata una diminuizione di interessi verso queste forme di libertà all'interno del movimento comunista? Cioè in qualche modo c'è stata una diminuizione di interesse proprio verso questi valori?

Althusser: Sì, naturalmente, a partire, partendo dal fatto che nell'Internazionale '64, no, dopo 1964 c'è stata una grande battaglia contro gli anarchisti, guadagnata da Marx e dai suoi amici in condizioni veramente terribili, terribili; voglio dire che Marx ha trattato gli anarchisti in un modo impossibile, ingiusto. Allora, questo ti dà un risentimento di massa che tu non puoi riassorbire, così da un giorno all'altro. Ci sono delle cose che durano nella testa. Quando tu sei stato trattato male da un altro, devi essere il Cristo per perdonare, tu puoi perdonare per te stesso, non puoi perdonare per gli altri, capisci. Quando tu fai violenza alla gente così, quando non hai il rispetto della gente così come ha fatto Marx con Bakunin, Bakunin era un po' pazzo, ma cosa c'entra? Dei pazzi ne abbiamo un sacco, anch'io sono pazzo!
Tu devi dare un'altra definizione dello Stato, non tenerti alla definizione classica che Marx ha dato, perché Marx dello Stato non capiva niente, dello Stato, Marx, non ha capito niente. Sì, ha capito che era uno strumento a disposizione della classe dominante, questo è giusto, ma sul funzionamento dello Stato, diciamo sullo spazio dello Stato non ha capito niente.

A proposito di questa analisi della realtà, che valore attribuisci a certi sintomi, come la rinascita del liberismo oppure la sfiducia dei partiti all'interno della democrazia rappresentativa così come c'è in Italia o in Francia?

Althusser: Gli attribuisco un ruolo piuttosto positivo, però molto pericoloso, perché può finire nel qualunquismo. Ma questa resistenza ai partiti, alla politica fatta dai partiti può essere concepita e anche pensata come modo di resistenza a una pratica politica che è nella merda, che è merda, capisci. E in questo senso, questo movimento di cui tu parli ha un senso positivo, molto positivo.

Tu dici che può spingere anche verso forme di democrazia più sostanziale?

Althusser: Naturalmente, naturalmente, quando ti parlo, quando ti ho detto che ero anarchista, sociale, anarchico sociale, questo movimento va in questo senso; tutto ciò che sviluppa l'anarchismo sociale è buono.

E quindi, a questo proposito, qual è il tuo metodo di lavoro e di studio?

Althusser: Tento di fare ciò che mi sembra la cosa più importante di tutte le cose, direi la parola d'ordine numero uno: cambiare di pensiero. Cambiare il modo di pensare e poi, in seguito, cambiare il modo di agire, vuol dire cambiare il modo di organizzare, di mobilitare, di far capire le cose, di far agire la gente, di organizzare l'azione, sindacale, politica, ecc. ecc.

Senti, questo vuol dire anche cambiare il modo di fare politica, che cos'è la politica?

Althusser: La politica, che cos'è la politica? È agire per la libertà e l'uguaglianza.

Che vuol dire saper fare politica, per esempio?

Vuol dire essere cosciente del rapporto reale che esiste fra gli uomini che hanno delle idee sulla politica e gli altri.

Louis Althusser

La contraddizione


Sottolineai una volta, in un articolo consacrato al giovane Marx, l'equivocità del concetto di «rovesciamento di Hegel». Mi era sembrato che, presa in tutto il suo rigore, questa espressione si adattasse perfettamente a Feuerbach il quale rimette effettivamente «la filosofìa speculativa sui piedi» (per non ricavarne comunque altro, secondo un'implacabile logica, che una antropologia idealista), ma che essa non potesse applicarsi a Marx, almeno al Marx uscito dalla fase «antropologista».
Dirò ora di più, suggerendo che, nella nota espressione: «La dialettica, in Hegel, è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico», la formula del «rovesciamento» non è che indicativa, anzi metaforica e pone più problemi di quanti ne risolva.
Come intenderla infatti in questo esempio preciso? Non si tratta più qui del «rovesciamento» di Hegel in generale, vale a dire del rovesciamento della filosofia speculativa come tale. Dopo L'ideologia tedesca, sappiamo che questo tentativo non ha senso: chi pretende puramente e semplicemente di rovesciare la filosofia speculativa (per ricavarne ad esempio il materialismo) non sarà mai che il Proudhon della filosofia, il suo inconscio prigioniero, come Proudhon lo era dell'economia borghese. Adesso si tratta della dialettica, e soltanto della dialettica. Quando però Marx scrive che bisogna «scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico» si potrebbe credere che il «nocciolo razionale» sia la dialettica e il guscio mistico la filosofia speculativa. È d'altronde quel che dirà Engels, in termini ormai consacrati dalla tradizione, quando distinguerà il metodo dal sistema. Noi dovremmo quindi gettare alle ortiche il guscio, l'involucro mistico (la filosofia speculativa) per conservare il prezioso nocciolo: la dialettica. Tuttavia Marx dice nella stessa frase che estrazione del nocciolo e rovesciamento della dialettica sono tutt'uno. Ma come può questa estrazione essere un rovesciamento? In altre parole che cosa, in questa estrazione, viene «rovesciato»?
Consideriamo attentamente le cose. Una volta estratta dal guscio idealista, la dialettica diventa «direttamente l'opposto della dialettica hegeliana». Ciò vorrebbe forse dire che, lungi dal concernere il mondo sublimato e capovolto di Hegel, verrà ora applicata al mondo reale? Si potrebbe allora dire che Hegel fu davvero «il primo a esporne, ampiamente e consapevolmente, le forme generali di sviluppo». Si tratterebbe perciò di riprendergli la dialettica e di applicarla alla vita invece di applicarla all'Idea. Il «rovesciamento» sarebbe, un rovesciamento di «direzione» della dialettica. Ma. tale rovesciamento di direzione lascerebbe, in realtà, la dialettica intatta.
Ora, nell'articolo citato, suggerivo appunto, facendo l'esempio del giovane Marx, che la ripresa rigorosa della dialettica nella forma hegeliana non poteva che farci cadere in pericolosi equivoci, nella misura in cui è impensabile, proprio in virtù dei principi marxisti d'interpretazione di qualsiasi fenomeno ideologico, che la dialettica possa albergare nel sistema di Hegel come un nocciolo nel suo involucro. Con ciò volevo sottolineare l'assurdità che l'ideologia hegeliana non abbia contaminato in Hegel anche l'essenza della dialettica, o, poiché questa «contaminazione» non può che poggiare sulla finzione di una dialettica pura anteriore alla «contaminazione» stessa, che la dialettica hegeliana possa cessare di essere hegeliana e diventare marxista per il miracolo di una semplice «estrazione».
Nelle rapide righe del Poscritto, Marx ha certo sentito questa difficoltà e non solo suggerisce, nell'accavallarsi delle metafore e in particolare in quel singolare accostamento di estrazione e di rovesciamento, un po' più di quanto non dica, ma anche lo dice apertamente in altri passi, più e meno amputati da Roy.
Basta leggere da vicino il testo tedesco per scoprire che il guscio mistico non è affatto, come si potrebbe credere sulla parola di alcuni successivi commenti di Engels, la filosofia speculativa, o la «concezione del mondo,» o il «sistema», ossia un elemento considerato come esterno al metodo, ma aderisce alla dialettica stessa. Marx arriva a dire che «la dialettica nelle mani di Hegel soggiace a una mistificazione», inoltre ci parla del suo «lato mistificatore» e della sua «forma mistificata», e oppone precisamente a questa «forma mistificata» (mystifizirte Form) della dialettica hegeliana, la forma razionale (rationelle Gestalt) della propria dialettica. È difficile dire con maggiore chiarezza che il guscio mistico altro non è che la forma mistificata della dialettica stessa, ossia non un elemento relativamente esterno alla dialettica (come il «sistema»), bensì un elemento interno, consustanziale alla dialettica hegeliana. Non è quindi sufficiente liberarla dal primo involucro (il sistema), bisogna anche liberarla da questo secondo guscio che le aderisce addosso, che è, oserei dire, la sua stessa pelle, inseparabile da essa: un guscio anch'esso hegeliano fin nei fondamenti (Grundlage). Diciamo allora che non si tratta di un'operazione indolore e che questa apparente estrazione è in verità una demistificazione, ossia un'operazione che trasforma quello che estrae.
Ritengo dunque che, nella sua approssimazione, questa metafora del «rovesciamento» della dialettica ponga non tanto il problema della natura degli oggetti cui si tratterebbe di applicare un medesimo metodo (il mondo dell'Idea in Hegel - il mondo reale in Marx) bensì proprio il problema della natura della dialettica in sé, ossia il problema delle sue strutture specifiche. Non il problema del rovesciamento di «direzione» della dialettica, ma problema della trasformazione delle sue strutture. È superfluo spiegare che, nel primo caso, l'«esternità» della dialettica ai suoi possibili oggetti, ossia la questione dell'applicazione di un metodo, pone un problema predialettico, ossia un problema che, strettamente parlando, non può avere senso per Marx. Nel secondo caso si pone invece un problema reale, cui sarebbe estremamente improbabile che Marx e i suoi seguaci non avessero dato teoricamente e praticamente, teoricamente o praticamente, una risposta concreta.
Concludiamo quindi questa fin troppo lunga analisi dicendo che se la dialettica materialista è «nella sostanza» l'opposto della dialet­tica hegeliana, se è razionale e non mistico-mistificata-mistificante, questa differenza radicale deve manifestarsi nella sua essenza, ossia nelle determinazioni e strutture sue proprie. Per dirla chiaramente, questo implica che certe strutture basilari della dialettica hegeliana, quali la negazione, la negazione della negazione, l'identità dei contrari, il «superamento», la trasformazione della qualità in quantità, la contraddizione ecc., posseggano in Marx ( nella misura in cui anch'egli se ne serve, il che non sempre è il caso! ) una struttura diversa da quella che posseggono in Hegel. Questo implica anche la possibilità di individuare, descrivere, definire e pensare queste differenze di struttura. E, se è possibile, è dunque necessario, direi persino vitale per il marxismo. Non ci si può infatti accontentare di ripetere sempre le medesime approssimazioni quali la differenza tra sistema e metodo, il rovesciamento della filosofia o della dialettica, l'estrazione del «nocciolo razionale», ecc., se non lasciando a queste formule la cura di pensare al nostro posto, ossia di non pensare, e di confidare nella magia di qualche parola total­mente screditata per compiere l'opera di Marx. Dico vitale, giacché sono convinto che lo sviluppo filosofico del marxismo è attualmente sospeso a questo compito.
E poiché bisogna pagare di persona, vorrei, a mio rischio e pericolo, fermarmi un momento a riflettere sul concetto marxista di contraddizione, a proposito di un esempio preciso: il tema leninista dell'«anello più debole».
Lenin dava innanzi tutto un senso pratico a questa metafora. Una catena vale quanto vale il suo anello più debole. In generale chi vuole tenere sotto controllo una data situazione baderà che non ci sia alcun punto debole che renda vulnerabile l'insieme del sistema. Chi invece vuole attaccarla, anche se tutte le apparenze della forza sono contro di lui, basta che scopra l'unico fallo che rende precaria tutta questa forza. Nulla sin qui che suoni come rivelazione quando si è letto Machiavelli o Vauban i quali conoscono l'arte di difendere quanto di distruggere una roccaforte stimando, come dice un proverbio francese, che «toute cuirasse à son défaut».
Ma ecco dove viene l'interessante. Se la teoria dell'anello più debole guida evidentemente Lenin nello sviluppare la teoria del partito rivoluzionario (il quale dovrà essere come coscienza e come organizzazione un'unità senza falle per sfuggire alla presa avversaria e anzi passare al contrattacco) ispira anche le sue riflessioni sulla rivoluzione stessa. Perché la rivoluzione è stata possibile in Russia? Perché è risultata vittoriosa? È stata possibile in Russia per una questione che trascendeva la Russia: perché con lo scatenarsi della guerra imperialista, l'umanità era entrata in una situazione oggettivamente rivoluzionaria. L'imperialismo aveva sconquassato il volto «pacifico» del vecchio capitalismo. La concentrazione dei monopoli industriali, la dipendenza dei monopoli industriali dai monopoli finanziari, avevano aumentato lo sfruttamento operaio e coloniale. La concorrenza dei monopoli rendeva la guerra inevitabile. Ma questa medesima guerra che arruolava nelle sue interminabili sofferenze masse immense, compresi i popoli coloniali donde si traevano truppe, gettava tutta quella carne da macello non solo nei massacri ma anche nella storia. L'esperienza e l'orrore della guerra avrebbero servito in tutti i paesi da relè e da rivelatore della lunga protesta di tutto un secolo contro lo sfruttamento capitalistico, nonché da punto di cristallizzazione, dandogli infine l'evidenza folgorante e i mezzi effettivi dell'azione. Ma questa conclusione a cui furono trascinate la maggior parte delle masse popolari europee ( rivoluzioni in Germania e in Ungheria, rivolte e scioperi in Francia e in Italia, i soviet a Torino) non provocò il trionfo della rivoluzione altro che in Russia, proprio nel paese «più arretrato» d'Europa. Perché questa paradossale eccezione? Per la fondamentale ragione che la Russia rappresentava, nel «sistema degli Stati» imperialisti, il punto più debole. La grande guerra aveva si aggravato e fatto precipitare questa debolezza, non l'aveva però determinata da sola. La rivoluzione del 1905, pur nel suo stesso fallimento, aveva già dato la misura della debolezza della Russia zarista, le cui cause salienti stavano nell'accumulazione e nell'esasperazione di tutte le contraddizioni storiche allora possibili in un unico Stato. Contraddizioni di un regime di sfruttamento feudale che all'alba del XX secolo continuava a regnare attraverso l'impostura, dei popi, sopra un'enorme massa contadina «incolta», e tanto più ferocemente quanto più cresceva la minaccia - circostanza che valse singolarmente ad avvicinare la rivolta contadina alla rivoluzione operaia. Contraddizioni dello sfruttamento capitalista e imperialista, sviluppate su vasta scala nelle grandi città e sobborghi, nelle regioni minerarie, petrolifere, ecc. Contraddizioni dello sfruttamento e delle guerre coloniali, imposte a interi popoli. Contraddizione enorme tra il grado di sviluppo dei sistemi di produzione capitalista (particolarmente in rap­porto alla concentrazione operaia: la più grande fabbrica del mondo, la fabbrica Putilov, che raggruppava 40.000 tra operai e ausiliari si trovava allora a Pietrogrado) e lo stato medioevale delle campagne. Esasperazione della lotta di classe in tutto il paese, non solo tra sfruttatori e sfruttati, ma anche all'interno delle classi dominanti stesse (grandi proprietari feudali, legati allo zarismo autoritaristico, poliziesco e militarista; piccola nobiltà che continuamente fomentava congiure; grande borghesia e borghesia liberale in lotta contro lo zar; piccola borghesia oscillante tra il conformismo e l'«estremismo» anarchizzante). Cui vennero ad aggiungersi, nel corso degli eventi, altre circostanze «eccezionali» , inintelligibili fuori da questo «sviluppo» di contraddizioni interne ed esterne della Russia. Per esempio il carattere «evoluto» dell'elite rivoluzionaria russa, costretta in esilio dalla repressione zarista, ove si «coltivò» e raccolse tutta l'eredità dell'esperienza politica delle classi operaie dell'Europa occidentale (e prima di tutto: il marxismo), circostanza che non fu estranea alla formazione del partito bolscevico, il quale superava di gran lunga come coscienza e come organizzazione tutti i partiti «socialisti» occidentali; la «prova generale», della rivoluzione del 1905, che gettò una luce cruda sui rapporti di classe, li cristallizzò, come succede generalmente nei gravi periodi di crisi e permise cosi la «scoperta» di una nuova forma di organizzazione politica delle masse: i soviet; e infine - cosa non meno straordinaria - il «respiro» insperato che lo stato di spossatezza delle nazioni imperialiste lasciò ai bolscevichi per aprirsi anch'essi una «breccia» nella storia, e l'appoggio involontario ma efficace della borghesia franco-inglese, che, volendo sbarazzarsi dello zar, fece, al momento decisivo, il giuoco della rivoluzione. Insomma, persino in questi particolari di contorno, la situazione privilegiata della Russia di fronte alla possibile rivoluzione dipese da un accumularsi e da un esasperarsi di contraddizioni storiche tali che sarebbero riuscite inintelligibili in ogni altro paese che non fosse stato come la Russia, contemporaneamente in ritardo di almeno un secolo sul mondo dell'imperialismo e al vertice di esso.
Tutto questo Lenin lo dice in numerosissimi testi che Stalin ha riassunto in termini particolarmente chiari nelle conferenze tenute nell'aprile 1924. La disuguaglianza di sviluppo del capitalismo sfociò, attraverso la guerra del 1914, nella rivoluzione russa perché la Russia era, nel periodo rivoluzionario che si apriva davanti all'umanità, l'anello più debole della catena degli Stati imperialisti: perché in essa si accumulava il maggior numero di contraddizioni storiche allora possibile; perché era contemporaneamente la nazione più retrograda e più progredita, contraddizione immane che le classi dominanti, divise, tra loro, non potevano eludere anche se non potevano risolvere. In altre parole la Russia, alla vigilia di una rivoluzione proletaria, si trovava in ritardo di una rivoluzione borghese, gravida quindi di due rivoluzioni, incapace, anche differendo la prima, di contenere l'altra. Lenin aveva visto giusto distinguendo in questa situazione eccezionale e «senza uscita» (per le classi dirigenti) le condizioni oggettive di una rivoluzione in Russia, e creando sotto la forma di un partito comunista che non avesse anelli deboli le condizioni soggettive, il mezzo dell'ultimo assalto contro l'anello debole della catena imperialista.
Marx ed Engels si erano forse pronunciati diversamente dichiaran­do che la storia avanza sempre dal lato cattivo? Intendiamo con ciò il meno buono per coloro che la dominano. Intendiamo anche, senza forzare le parole, il lato meno buono per chi... aspetta la storia da un altro lato, per esempio i socialdemocratici tedeschi della fine del XIX secolo, i quali si credevano deputati a breve scadenza al trionfo socialista, per il solo privilegio di appartenere allo Stato capitalista più forte e in piena espansione economica, mentre loro stessi erano in piena espansione elettorale (si danno di queste coincidenze...). Essi credevano evidentemente che la Storia avanzasse dall'altro lato, quello «buono», il lato del maggiore sviluppo economico, della maggiore espansione, della contraddizione ridotta al suo più puro schema (quello del capitale e del lavoro), dimenticando che nella fattispecie tutto questo succedeva in una Germania armata di un potente apparato statale e bardata di una borghesia che aveva da un bel pezzo ringoiata la «sua» rivoluzione politica in cambio sia della protezione poliziesca, burocratica e militare di Bismarck (e di Guglielmo, poi), sia degli enormi profitti dello sfruttamento capitalista e colonialista, bardata inoltre di una piccola borghesia nazionalista e reazionaria; dimenticando che, nel caso specifico, questo schema cosi lineare di contraddizione era semplicemente astratto: la contraddizione reale faceva talmente corpo con queste «circostanze» che non era distinguibile, identificabile e governabile se non attraverso e dentro queste circostanze stesse.
Cerchiamo di cogliere il punto essenziale di questa esperienza pra­tica e delle riflessioni che ispira a Lenin. Incominciamo col dire che non fu solo questa esperienza ad illuminare Lenin. Prima del 1917 vi fu il 1905, prima del 1905 le grandi delusioni storiche dell'Inghilterra e della Germania, prima di esse la Comune, più lontano ancora lo scacco tedesco del '48-49. Tutte queste esperienze avevano costituito via via materia di riflessione (Engels: Rivoluzione e controrivoluzione in Germania; Marx: Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio, La guerra civile in Francia, Critica al programma di Gotha; Engels: Critica al programma di Erfurt, ecc.), direttamente o indirettamente, ed erano state messe in relazione con altre esperienze rivoluzionane anteriori: le rivoluzioni borghesi d'Inghilterra e di Francia. Come riassumere allora queste esperienze pratiche e il loro commentario teorico, se non dicendo che tutta l'esperienza rivoluzionaria marxista dimostra che, se la contraddizione in generale (ma essa è già specificata: contraddizione tra forze di produzione e rapporti di produzione, incarnata essenzialmente nella contraddizione tra due classi antagoniste) basta a definire una situazione in cui la rivoluzione è «all'ordine del giorno», non può, per sua semplice virtù diretta, provocare una «situazione rivoluzionaria» e, a maggior ragione, una situazione I di rottura rivoluzionaria e insieme il trionfo della rivoluzione. (Perché questa contraddizione divenga «attiva» in senso forte, principio di rottura, ci vuole tutto un accumularsi di «circostanze» e di «correnti» tale che, qualunque ne sia l'origine e il senso (e buon numero di esse sono necessariamente per origine e senso paradossalmente estranee se non addirittura «assolutamente opposte» alla rivoluzione) «si fondano» tutte in un'unità di rottura: quando raggiungono cioè il risultato di raggruppare l'immensa maggioranza delle masse popolari nell'assalto di un regime che le classi dirigenti sono impotenti a difendere. Questa situazione non solo suppone la «fusione» delle due condizioni fondamentali in una «crisi nazionale unica», ma ogni condizione, presa (astrattamente) a sé presuppone anch'essa la «fusione» di un «cumulo» di contraddizioni. Come sarebbe possibile altrimenti che le masse popolari, divise in classi (proletari, contadini, piccoli borghesi) possano, consapevolmente o confusamente, gettarsi insieme in un assalto generale contro il regime esistente? E come sarebbe possibile che le classi dominanti, che sanno per cosi lunga esperienza e cosi sicuro istinto suggellate tra loro, nonostante: le loro differenze di classe (latifondisti, grande borghesia, industriali, finanzieri, ecc.) l'unione sacra contro gli sfruttati, possano essere cosi ridotte all'impotenza, fiaccate nel momento supremo, senza soluzioni né dirigenti politici di ricambio, private del loro appoggio di classe all'estero, disarmate nella roccaforte stessa del loro apparato statale, e all'improvviso sommerse da questo popolo che, mediante lo sfruttamento, la violenza e l'impostura, tenevano così bene al guinzaglio? Quando in una situazione entrano in giuoco, nei medesimo giuoco, un enorme cumulo di «contraddizioni», di cui alcune radicalmente eterogenee, che comunque non hanno tutte la stessa origine né lo stesso significato né lo stesso livello e campo d'applicazione, e tuttavia «si fondono» in un'unità di rottura, non è più possibile parlare dell'unica virtù semplice della «contraddizione» in generale. Certamente la contraddizione di base che domina questo tempo (in cui la rivoluzione «è all'ordine del giorno») è attiva in tutte queste «contraddizioni» e persino nella loro «fusione». Ma non si può tuttavia sostenere, a stretto rigore, che tutte queste «contraddizioni» e il loro «fondersi» non siano altro che un mero fenomeno. Giacché le «circostanze» o le «correnti» che la realizzano sono qualcosa di più del puro e semplice fenomeno. Dipendono dai rapporti di produzione che sono si uno dei termini della contraddizione ma al contempo la sua condizione d'esistenza; dipendono dalle sovrastrutture, istanze derivate ma con consistenza ed efficacia proprie; dipendono dalla stessa congiuntura internazionale che interviene come una delle determinanti con una sua funzione specifica. Il che significa che le «differenze» che costituiscono le varie istanze, giuoco, (e che si manifestano in quell'«accumulazione» di cui parla Lenin), se si «fondono» in un'unità reale, non si «dissolvono» come puro fenomeno nell'unità interna di una contraddizione semplice. L'unità che esse costituiscono in questo «fondersi» della rottura rivoluzionaria, è un'unità fatta della loro essenza e della loro efficacia, un'unità che esse costituiscono partendo da ciò che sono e secondo le modalità specifiche della loro azione. Costituendo questa unità, ricostituiscono e realizzano l'unità fondamentale che le anima, ma nel far questo ne indicano anche la natura: la contraddizione è inseparabile dalla struttura sociale dell'intero corpo sociale in cui si esercita, inseparabile dalle sue condizioni formali di esistenza e dalle istanze stesse che governa; essa è quindi, nel suo intimo, modificata da queste condizioni, determinante ma anche al tempo stesso determinata, e determinata dai diversi livelli e dalle diverse istanze della formazione sociale che anima: potremmo chiamarla surdeterminata nel suo principio stesso.
Non tengo in particolar modo a questo termine surdeterminazione (preso a prestito da altre discipline), ma lo adopero, in mancanza di meglio, contemporaneamente come indice e come problema; inoltre esso permette abbastanza bene di vedere perché abbiamo qui a che fare con qualcosa di completamente diverso dalla contraddizione hegeliana.
La contraddizione hegeliana infatti, non è mai realmente surdeterminata benché spesso ne abbia tutte le apparenze. Nella Fenomenologia, per esempio, che descrive le «esperienze» della coscienza e la loro dialettica culminante nell'avvento del Sapere assoluto, la contraddizione non sembra semplice, bensì molto complessa. A rigore può essere detta semplice solo la prima contraddizione: quella tra la coscienza sensibile e il suo sapere. Ma più si procede nella dialettica della sua produzione, più la coscienza diventa ricca e la contraddizione complessa. Si potrebbe però dimostrare che questa complessità non è la complessità di una sur­determinazione effettiva, ma la complessità di una interiorizzazione cumulativa che ha solo le apparenze della surdeterminazione. Infatti, in ogni momento del suo divenire, la coscienza vive e sperimenta la propria essenza (che corrisponde al grado da essa raggiunto) attraverso tutti gli echi delle essenze anteriori che essa è stata, e attraverso la presenza allusiva delle forrne storiche corrispondenti. Con la qual cosa Hegel indica che ogni coscienza ha un passato soppresso-conservato (aufgehoben) nel suo presente stesso, e un mondo (il mondo di cui potrebbe essere la coscienza ma che nella Fenomenologia resta come ai margini, di una presenza potenziale e latente), e quindi che essa ha anche come passato i mondi delle sue essenze superate. Ma queste forme passate della coscienza e questi mondi latenti (corrispondenti a queste forme) non interessano mai la coscienza presente come effettive determinazioni ad essa esterne: queste forme e questi mondi non la concernono che come echi (ricordi, fantasmi della sua storicità) di ciò che è diventata, ossia come anticipazioni di sé o allusioni a sé. Appunto perché il passato non è mai altro che l'essenza interna (l'in sé) del futuro che racchiude, questa presenza del passato è la presenza a se stessa della coscienza e non una vera determinazione ad essa esterna. Cerchio di cerchi, la coscienza non ha che un unico centro e solo esso la determina: le ci vorrebbero altri cerchi, cerchi aventi un centro differente dal suo, cerchi eccentrici, per risentire veramente nel suo centro della loro efficacia: bisognerebbe insomma che fosse surdeterminata da essi nella sua essenza. Cosa che non è.
(Questa verità è ancora più chiara nella Filosofia della storia. Anche qui si ritrovano le apparenze della surdeterminazione: ogni società storica non è forse costituita da una infinità di determinazioni concrete, dalle leggi politiche alla religione, passando via via attraverso i costumi, le usanze, i regimi finanziari, commerciali, economici, il sistema educativo, le arti, la filosofia, ecc.? Eppure nessuna di queste determinazioni è, nella sostanza, esterna alle altre non solo perché tutte insieme costi­tuiscono una totalità organica originale, ma anche e soprattutto perché questa totalità si riflette in un principio interno unico, che è la verità di tutte queste determinazioni concrete. Così Roma: la sua colossale storia, e tutte le sue istituzioni, conquiste e crisi, altro non sono che la manifestazione indi la distruzione, nel tempo, del principio interno della personalità giuridica astratta. Questo principio interno contiene sì, in sé, come tanti echi, tutti i principi delle formazioni storiche superate, ma come echi di se stesso: ecco perché non possiede anch'esso che un solo centro, che è il centro di tutti i mondi passati conservati nel suo ricordo: ecco pecche è semplice. E all'interno di questa semplicità appare anche la sua stessa contraddizione: in Roma, la coscienza stoica, quale coscienza della contraddizione inerente al concetto di personalità giuridica astratta, una coscienza che mira sì al mondo concreto della soggettività, ma non lo coglie. È appunto questa la contraddizione che distruggerà Roma e farà sorgere il suo futuro: la figura della soggettività nel cristianesimo medioevale. Tutta la complessità di Roma non surdetermina quindi in nulla la contraddizione del principio semplice di Roma, che non è che l'essenza interna di questa infinita ricchezza storica.

Se ora ci domandiamo perché mai i fenomeni di mutazione storica siano pensati da Hegel in questo concetto semplice di contraddizione, poniamo proprio la domanda essenziale. La semplicità della contraddizione hegeliana non è infatti possibile che per la semplicità del principio interno che costituisce l'essenza di ogni periodo storico. Appunto perché è possibile, di diritto, ridurre la totalità, l'infinita diversità di una data società storica (la Grecia, Roma, il Sacro Romano Impero, l'Inghilterra, ecc.) a un principio interno semplice, questa stessa semplicità, acquisita così di diritto alla contraddizione, può riflettervisi. Si deve essere ancora più netti? Questa stessa riduzione (di cui Hegel prese l'idea da Montesquieu), la riduzione di tutti gli elementi che fanno la vita concreta di un mondo storico (istituzioni economiche, sociali, politiche, giuridiche, costumi, morale, arte, religione, filosofia e persino gli eventi storici: guerre, battaglie, disfatte, ecc.) a un principio interno d'unità, questa riduzione non è anch'essa possibile se non all'assoluta condizione di considerare tutta la vita concreta di un popolo come l'esteriorizzazione-alienazione (Entàusserung-Entfremdung) di un principio spirituale interno, che altro non è in conclusione se non la forma più astratta della coscienza di sé di questo mondo: la sua coscienza religiosa o filosofica, ossia la sua stessa ideologia. Si vede bene, penso, in quale senso il «guscio mistico» impronta e contamina il «nocciolo»: giacché la semplicità della contraddizione hegeliana non è mai che il riflesso della semplicità di questo principio interno di un popolo, ossia non della sua realtà materiale, ma della sua ideologia più astratta. Ecco perché Hegel può rappresentarci come «dialettica», ossia mossa dal giuoco sem­plice di un principio di contraddizione semplice, la Storia universale, dal lontano Oriente fino ai nostri giorni. Ecco perché per lui non esiste in fondo mai una vera rottura, un'effettiva fine - e neppure un'inizio radicale - di una storia reale. Ecco perché anche la sua filosofia della storia è infarcita di mutazioni tutte uniformemente «dialettiche». Questa stupefacente concezione non si può difendere se non mantenendosi sulla sommità dello Spirito, ove poco importa che un popolo muoia quando ha incarnato quel determinato principio di un momento dell'Idea (che ne ha già altri pronti) e quando incarnandolo se n'è anche spogliato per lasciarlo in eredità a quella Memoria di Sé che è la Storia, e insieme a quell'altro popolo (anche se i rapporti storici con esso sono molto deboli!) che, riflettendolo nella sua sostanza, vi troverà la promessa del proprio principio interno, ossia, come per caso, il momento logicamente consecutivo dell'Idea, ecc. Bisogna capire una buona volta che tutti questi arbitri (anche se attraversati a sprazzi da vedute veramente geniali) non rimangono miracolosamente confinati alla sola «concezione del mondo», al puro «sistema» hegeliano, ma si riflettono, in realtà, sulla struttura, sulle strutture stesse della dialettica hegeliana e particolarmente in quella «contraddizione» che ha per compito di fare avanzare magicamente verso il Fine ideologico i contenuti concreti di questo mondo storico.
Per questo il «rovesciamento» marxista della dialettica hegeliana è tutt'altro che una pura e semplice estrazione. Se infatti si coglie chiaramente il rapporto di stretta intimità che la struttura della dialettica instaura in Hegel con la sua «concezione del mondo», ossia con la sua filosofia speculativa, è impossibile gettare davvero alle ortiche questa «concezione del mondo», senza essere obbligati a trasformare profondamente le strutture della dialettica stessa. Se no, che lo si voglia o no, ci si trascinerà ancora dietro, centocinquant'anni dopo la morte di Hegel e cent'anni dopo Marx, i brandelli del famoso «involucro mistico».

Ritorniamo dunque a Lenin e attraverso Lenin a Marx.
Se è vero, come dimostrano tanto l'esperienza quanto la riflessione leninista, che la situazione rivoluzionaria in Russia dipendeva precisamente dal carattere d'intensa surdeterminazione della contraddizione fondamentale di classe, bisogna forse domandarsi in che cosa consista l'eccezionalità di questa «situazione eccezionale» e se, come ogni eccezione, questa eccezione non illumini la regola, se non sia, all'insaputa della regola, la regola stessa. Giacché infatti, non siamo forse sempre nell'eccezione? Eccezione l'insuccesso tedesco del '49, eccezione l'insuccesso parigino del 71, eccezione l'insuccesso socialdemocratico tedesco agli inizi del XX secolo in attesa del tradimento sciovinista del '14, eccezione il successo, del '17... Eccezioni, ma in rapporto a che cosa... se non in rapporto a una certa idea astratta ma confortante, rassicurante, di uno schema «dialettico» depurato, che aveva, nella sua stessa semplicità, come serbato la memoria (o ritrovato l'andamento) del modello hegeliano e la fede nella «virtù» risolutiva della contraddizione tra capitale e lavoro. Non nego certamente che la «semplicità» di questo schema puro abbia potuto rispondere a certe verità soggettive della mobilitazione delle masse: sappiamo bene insomma, che le forme del socialismo utopistico hanno anch'esse avuta un'importanza storica e l'hanno avuta perché prendevano le masse tenendo conto dello stato della loro coscienza, dato che bisogna pur prenderle come sono anche e soprattutto quando le si vuole portare più avanti. Bisognerà davvero un giorno fare ciò che Marx ed Engels hanno fatto per il socialismo utopistico, ma questa volta per quelle forme ancora schematico-utopistiche della coscienza delle masse (persino di certi loro teorici) influenzate dal marxismo nella prima fase della sua storia: un vero studio storico delle condizioni e delle forme di questa coscienza. Ora si dà appunto il caso che tutti i più importanti testi politici e storici di Marx ed Engels di questo periodo ci diano materia per una prima riflessione a proposito di queste sedicenti «eccezioni». Ne viene fuori l'idea fondamentale che la contraddizione, capitale-lavoro non è mai semplice, ma sempre specificata dalle forme e dalle circostanze storiche concrete in cui si esercita. Specificata dalle forme della sovrastruttura (Stato, ideologia dominante, religione, movimenti politici organizzati, ecc.); specificata dalla situazione storica interna ed esterna che la determina in funzione da una parte del passato nazionale stesso (rivoluzione borghese compiuta o «rientrata», sfruttamento feudale eliminato, del tutto, in parte, o niente, «costumi» locali, tradizioni nazionali specifiche, anche uno «stile proprio» delle lotte o del comportamento politico, ecc.) e dall'altra del contesto mondiale esistente, (ciò che vi domina al momento: «capitalismo concorrenziale» o «internazionalismo imperialista», oppure competizione dentro l'imperialismo stesso, ecc.): buona parte di questi fenomeni potendo infatti dipendere dalla «legge della disuguaglianza di sviluppo» in senso leninista.
Che cosa sta a significare tutto ciò se non che la contraddizione in apparenza semplice è sempre surdeterminata? Qui l'eccezione si scopre regola, regola della regola, ed è allora a partire dalla nuova regola che bisogna pensare le vecchie «eccezioni», quali esempi metodologicamente semplici della regola. Posso allora per cercare di abbracciare, dal punto di vista di questa regola, tutto il complesso dei fenomeni, proporre che la «contraddizione surdeterminata» può essere surdeterminata sia nel senso di una inibizione storica, ossia di un vero e proprio «blocco» della contraddizione (per es. la Germania guglielmina), sia nel senso della rottura rivoluzionaria (la Russia del '17), ma che, in queste condizioni, mai si presenta allo stato «puro»? Sarebbe allora, lo ammetto, la «purezza» stessa a costituire eccezione, ma non vedo quale esempio se ne potrebbe citare.
Ma allora, se ogni contraddizione si presenta nella pratica storica, e in rapporto all'esperienza storica del marxismo, come una contraddizione surdeterminata, se è questa surdeterminazione a costituire, di fronte alla contraddizione hegeliana, la specificità della contraddizione marxista; se la «semplicità» della dialettica hegeliana rinvia a una «concezione del mondo» e in particolare alla concezione della storia che, vi si riflette, bisogna pur domandarsi qual è il contenuto, quale la ragion d'essere della surdeterminazione della contraddizione marxista, e porsi il problema di sapere in che modo la concezione marxista della società può riflettersi in questa surdeterminazione. È un problema capitale questo, giacché è evidente che se non si mostra il legame necessario che unisce la struttura propria della contraddizione in Marx alla sua concezione della società e della storia, se non si fonda questa surdeterminazione sui concetti della teoria marxista della storia, questa categoria resterà «campata in aria»: essa infatti, anche se esatta, anche se verificata dalla pratica politica, non è finora che descrittiva, e quindi contingente, e perciò, come ogni descrizione, alla mercé delle prime o delle ultime teorie filosofiche venute.

Ma qui finiamo ancora una volta col ritrovare il fantasma del modello hegeliano: non più il modello astratto della contraddizione, bensì il modello concreto della concezione della storia che si riflette in esso. Per dimostrare infatti che la struttura specifica della contraddizione marxista si basa sulla concezione marxista della storia, bisogna assicurarsi che questa concezione non sia il puro e semplice «capovolgimento» della concezione hegeliana. È vero che si potrebbe sostenere a prima vista che Marx abbia «rovesciato» la concezione hegeliana della storia. Vediamolo rapidamente. Tutta la concezione hegeliana è retta dalla dialettica dei princìpi interni a ogni società, ossia dalla dialettica dei momenti dell'idea. Come Marx ripete venti volte, Hegel spiega la vita materiale, la storia concreta dei popoli, attraverso la dialettica della coscienza (coscienza di sé di un popolo, la sua ideologia). Per Marx invece è la vita materiale degli uomini a spiegarne la storia, cosicché la loro coscienza e le loro ideologie non rappresentano altro che il fenomeno della loro vita materiale. Ci sono tutte le apparenze del «rovesciamento» riunite in questa opposizione. Spingiamo le cose all'estremo, quasi alla caricatura. Che cosa vediamo in Hegel? Una concezione della società che fa sue le acquisizioni della teoria politica e dell'economia politica del XVIII secolo, e che considera ogni società (moderna, si, ma i tempi moderni non fanno che far affiorare quello che prima era solo in germe) costituita da due società: la società dei bisogni, o società civile, e la società politica o Stato, e tutto ciò che si incarna nello Stato: religione, filosofia, ecc., insomma la coscienza di sé di un dato, tempo. In altre parole, detto schematicamente, la vita materiale da una parte e la vita spirituale dall'altra. Per Hegel la vita materiale (la società civile, ossia l'economia) non è che Astuzia della Ragione, ed è mòssa, sotto l'apparenza dell'autonomia, da una legge a lei estranea: il suo Fine che è al contempo la sua condizione di possibilità, lo Stato, e perciò la vita spirituale. Ebbene c'è un modo, anche qui, di capovolgere Hegel vantandosi di far sorgere Marx. Questo modo consiste appunto nel rovesciare il rapporto tra i termini hegeliani, ossia nel conservare questi stessi termini: la società civile e lo Stato, l'economia e la politica-ideologia, ma trasformando l'essenza in fenomeno e il fenomeno in essenza o, se si preferisce, facendo agire l'Astuzia della Ragione a rovescio. Mentre in Hegel è l'elemento politico-ideologico a costituire l'essenza del fatto economico, in Marx sarebbe invece il fattore economico a costituire tutta l'essenza dell'opera politico-ideologica. Politica e ideo­logia non sarebbero allora che il puro fenomeno dell'economia, la quale ne costituirebbe la «verità». Al principio «puro» della coscienza (di sé, di un dato tempo), principio interno semplice che, in Hegel, è principio di intelligibilità di tutte le determinazioni di un popolo storico, si sarebbe cosi sostituito un altro principio semplice, il suo contrario: la vita materiale, l'economia, principio semplice che diviene a sua volta l'unico principio d'intelligibilità universale di tutte le determinazioni di un popolo storico. Caricatura? In questa direzione vanno, se le si prende alla lettera, e avulse dal contesto, le famose frasi di Marx sul mulino a pale, il mulino ad acqua e la macchina a vapore. All'orizzonte di questa tentazione abbiamo il «pendant» esatto della dialettica hegeliana; con questa differenza, che non si tratta più di ingenerare i momenti successivi dell'Idea, bensì i momenti successivi dell'Economia, in virtù dello stesso principio della contraddizione interna. Questo tentativo finisce con la radicale riduzione della dialettica della storia alla dialettica generatrice dei successivi modi di produzione. Ossia, al limite, delle diverse tecniche di produzione. Queste tentazioni portano, nella storia del marxismo, nomi specifici: economismo, se non addirittura tecnologismo.
Ma è sufficiente citare questi due termini per risvegliare immediatamente il ricordo delle lotte teoriche e pratiche condotte da Marx e dai suoi seguaci, per combattere queste «deviazioni». E contro il sin troppo famoso testo sulla macchina a vapore, quanti testi perentori contro l'economismo! Facciamola dunque finita con questa caricatura, non per opporre all'economismo tutto il campionario delle condanne ufficiali, ma per esaminare quali principi autentici sono attivi in queste condanne e nel pensiero effettivo di Marx.
Diviene allora decisamente impossibile conservare, nel suo apparente rigore, la finzione del «rovesciamento». E invero Marx non ha conservato, neppur «capovolgendoli», i termini del modello hegeliano della società. Ne ha loro sostituiti altri che hanno con quelli solo lontani rapporti. Anzi ha sovvertito la relazione che regnava prima tra questi termini, cosicché sono tanto i termini quanto il loro rapporto a cambiare di natura e di senso.
I termini, intanto, non sono più gli stessi.
Certo Marx parla ancora di «società civile» (in particolare nell'ldeologia tedesca: termine che viene inesattamente tradotto con «società borghese») ma è per allusione al passato, per designare il luogo delle sue scoperte e non per riprenderne il concetto. Bisognerebbe studiare da vicino la formazione di questo concetto. Vi si vedrebbe allora delinearsi, sotto le forme astratte della filosofia politica e sotto le forme più concrete dell'economia politica del XVIII secolo, non una vera teoria della storia economica e neppure una vera teoria dell'economia, ma una descrizione dei comportamenti economici e della loro formazione, insomma una specie di Fenomenologia filosofico-economica. Ora quello che si può notare in tutto questo, tanto tra i filosofi (Locke, Helvétius, ecc.) quanto tra gli economisti (Smith, Turgot, ecc.) è che questa descrizione della società civile viene effettuata come se si trattasse della descrizione (e della fondazione) di ciò che Hegel, riassumendone perfettamente lo spirito, chiama «il mondo dei bisogni», ossia un mondo che si riferisce immediatamente, come alla propria essenza interna, ai rapporti tra gli individui definiti dalla loro volontà particolare e dal loro interesse personale, insomma dai loro «bisogni». Quando si sa che Marx ha basato tutta la sua concezione dell'economia politica sulla critica di questo presupposto (l'homo oeconomicus, e la sua astrazione giuridica o morale, l'uomo dei filosofi) si dubita molto che abbia po­tuto riprendere un concetto che ne era il derivato diretto. Ciò che importa a Marx non è infatti né questa descrizione (astratta) dei comportamenti economici, né la pretesa di fondarla sul mito dell'uomo economico, ma l'«anatomia» di questo mondo e la dialettica dei mutamenti di questa «anatomia». Ecco perché il concetto di «società civile» (mondo dei comportamenti economici singoli e loro origine ideologica) scompare in Marx. Ecco perché la realtà economica astratta (che Smith per esempio ritrova nelle leggi del mercato come risultato del suo sforzo di impostazione) è anch'essa pensata da Marx come l'effetto di una realtà più concreta e più profonda: come il modo di produzione di una determinata formazione sociale. Qui i comportamenti economici individuali (che servivano di pretesto a questa Fenomenologia economico-filosofica) sono per la prima volta messi a confronto con la loro condizione di esistenza. Grado di sviluppo dalle forze di produzione, stato dei rapporti di produzione: ecco quali sono ormai i concetti fondamentali di Marx. Se la «società civile» gli indicava il luogo (qui è il punto da approfondire...) bisogna confessare che essa non gliene forniva la materia. Ma dove si trova tutto ciò in Hegel?

Quanto allo Stato, è fin troppo facile dimostrare che non ha più in Marx lo stesso contenuto che in Hegel. Non soltanto, certo, perché lo Stato non può più essere la «realtà dell'Idea» ma anche e soprat­tutto perché lo Stato è pensato sistematicamente come uno strumento di coercizione al servizio della classe dominante degli sfruttatori. Anche in questo caso, sotto la «descrizione» e la sublimazione degli attributi dello Stato, Marx scopre un nuovo concetto, presentito prima di lui fin dal XVIII secolo (Longuet, Rousseau, ecc.), ripreso anche da Hegel nella Filosofia del diritto (che ne fece un «fenomeno» dell'Astuzia della Ragione di cui lo Stato è il trionfo: l'opposizione tra povertà e ricchezza) e largamente utilizzato dagli storici del 1830: il concetto di classe sociale direttamente connesso con i rapporti di produzione. Questo intervento di un nuovo concetto, il rapporto in cui viene messo con un concetto base della struttura economica, ecco qualcosa che rivoluziona da capo a fondo l'essenza dello Stato, il quale ormai non è più sopra i raggruppamenti ma al servizio della classe dominante; il quale non ha più come missione di adempiersi nell'arte, nella religione, e nella filosofia, ma di mettere queste al servizio degli interessi della classe dominante, di costringerle anzi, a costituirsi in funzione delle idee e dei temi che esso rende dominanti; il quale cessa quindi di essere la «verità» della «società civile», per diventare, non la «verità di» qualcos'altro, neppure dell'economia, ma lo strumento d'azione e di dominazione di una classe sociale, ecc.
E non sono soltanto i termini che cambiano: cambiano anche i loro rapporti.
Non si deve credere che si tratti di una nuova distribuzione tecnica delle parti imposta dal moltiplicarsi dei nuovi termini. In che modo si raggruppano infatti questi nuovi termini? Da una parte la struttura (base economica: forze di produzione e rapporti di produzione); dall'altra la sovrastruttura (lo Stato e tutte le forme giuridiche, politiche e ideologiche). Si è visto tuttavia che si poteva tentare di mantenere tra questi due gruppi di categorie lo stesso rapporto hegeliano (imposto da Hegel alle relazioni tra società civile e Stato): un rapporto da essenza a fenomeno sublimato nel concetto di «verità di...». Così in Hegel lo Stato è la «verità» della società civile, la quale non è, grazie al giuoco dell'Astuzia della Ragione, che il suo fenomeno, adempiuto in esso. Ora in un Marx che verrebbe cosi ridotto alla statura di un Hobbes o di un Locke, la società civile potrebbe anche non essere altro che la «verità» dello Stato, suo fenomeno che un'Astuzia della Ragione Economica metterebbe allora al servizio di una classe: la classe dominante. Sfortunatamente per questo schema troppo puro, non è cosi. In Marx la tacita identità (fenomeno-essenza-verità di...) di economia e politica scompare a beneficio di una nuova concezione dei rapporti tra le istanze determinanti nel complesso struttura-sovrastruttura che costituisce l'essenza di ogni formazione sociale. Che questi rapporti specifici tra struttura e sovrastruttura meritino ancora di essere teoricamente elaborati e indagati, non c'è dubbio. Tuttavia Marx ce ne dà in mano «gli estremi» e ci dice che è in mezzo ad essi che dobbiamo cercare: da una parte, la determinazione in ultima istanza ad opera del modo di produzione (l'economia), dall'altra la relativa autonomia delle sovrastrutture e la loro efficacia specifica. Con questo Marx rompe chiaramente con il principio hegeliano della spiegazione attraverso la coscienza di sé (l'Ideologia) ma anche col tema hegeliano fenomeno-essenza-verità di... Abbiamo veramente a che fare con un rapporto nuovo tra termini nuovi.
Ascoltiamo il tardo Engels rimettere, nel '90, le cose a punto contro i giovani «economisti» che invece non hanno capito che si trat­tava d'un nuovo rapporto. La produzione è il fattore determinante, ma solo «in ultima istanza». «Né Marx né io abbiamo affermato di più». Chi «forzerà questa frase» per farle dire che solo il fattore economico è quello determinante «la trasformerà in una frase vuota, astratta, assurda». E spiegare ancora:
    «La situazione economica è la base, però i diversi elementi della sovrastruttura, le forme politiche della lotta di classe e i suoi risultati, le costituzioni promulgate, una volta vinta la battaglia, dalla classe vittoriosa, ecc., le forme giuridiche e persino il riflesso di tutte queste lotte reali nel cervello dei partecipanti, teorie politiche, giuridiche, filosofiche, concezioni religiose e loro ulteriore evoluzione in sistemi dogmatici, esercitano anch'esse la loro azione nelle lotte storiche e, in molti casi, ne determinano in modo preponderante la forma...». Bisogna prendere questa parola «forma» in senso forte e farle designare qualcosa di completamente diverso dal formale. Ascoltiamo ancora Engels: «Lo Stato prussiano sorse e si sviluppò per l'azione di cause storiche e, in ultima istanza, economiche. Difficilmente però si potrà affermare senza pedanteria che, tra i numerosi staterelli della Germania settentrionale, proprio il Brandeburgo fosse destinato per necessità economiche e non anche per altri fattori (innanzi tutto per il fatto che, grazie al possesso della Prussia, aveva a che fare con i problemi polac­chi e quindi era implicato in relazioni internazionali, decisive del resto nella formazione del potere della Casa d'Austria) a diventare la grande potenza in cui si è incarnata la differenza economica, linguistica e anche, dopo la Riforma, religiosa tra Nord e Sud...»

Eccoci davanti ai due estremi: l'economia determina, ma in ultima istanza (alla lunga, come dice spesso Engels), il corso della storiai Questo corso però, si «afferma» attraverso il mondo delle forme mul| tiple della sovrastruttura, delle tradizioni locali e delle circostanze internazionali. Non mi soffermo qui sulla soluzione teorica proposta da Engels al problema dei rapporti tra il fattore economico determinante in ultima istanza, e le determinazioni proprie imposte dalle sovrastrutture, dalle tradizioni nazionali, e dagli eventi internazionali. A me preme solo porre l'accento su tutto questo accumularsi di determinazioni efficaci (derivate dalle sovrastrutture e dalle circostanze particolari, nazionali e internazionali) sul fattore determinante in ultima istanza, il fattore economico. Qui, mi sembra, può chiarirsi l'espressione di con­traddizione surdeterminata che proponevo, qui, perché allora non abbiamo più il fatto puro e semplice dell'esistenza della surdeterminazione, ma l'abbiamo riportata, almeno nell'essenziale e anche se il nostro procedere è ancora indicativo, ai suoi fondamenti. Questa surdeterminazione diventa inevitabile e pensabile non appena si riconosce l'esistenza reale, in gran parte specifica e autonoma, irriducibile quindi a puro fe­nomeno, delle forme della sovrastruttura e della congiuntura nazionale e internazionale. Bisogna allora andare fino in fondo e dire che questa surdeterminazione non dipende da situazioni apparentemente straordinarie o aberranti della storia (per esempio la Germania) ma è universale; che mai la dialettica economica opera allo stato puro, che mai nella storia si vedono quelle istanze che sono le sovrastrutture ecc., farsi ri­spettosamente da parte, quando hanno fatto la loro opera o dissolversi come puro fenomeno per lasciare che avanzi sulla strada regale della dialettica sua maestà l'Economia perché i Tempi sarebbero venuti. L'ora solitaria dell'«ultima istanza» non suona mai, né al primo momento né all'ultimo.
Insomma l'idea di una contraddizione «pura e semplice», e non surdeterminata è, come dice Engels a proposito della «frase» economista, «una frase vuota, astratta e assurda». Che possa servire da modello pedagogico o piuttosto che abbia potuto, a un certo momento preciso della storia, servire da mezzo polemico e pedagogico, non fissa per sempre il suo destino. Alla fin fine i sistemi pedagogici cambiano, eccome, nella storia. Sarebbe ora di fare uno sforzo per elevare la pedagogia all'altezza delle circostanze, ossia dei bisogni storici. Ma chi non vede che questo sforzo pedagogico ne suppone un altro schiettamente teorico? Se infatti è vero che Marx ci dà principi generali ed esempi concreti (Il 18 brumaio, La guerra civile in Francia, ecc.), se è vero che tutta la pratica politica della storia del movimento socialista e comu­nista costituisce una sconfinata riserva di «protocolli di esperienze» concrete, bisogna pur dire che la teoria dell'efficacia specifica delle sovrastrutture e delle altre «circostanze» resta in gran parte da elaborare e, prima della teoria della loro efficacia, o contemporaneamente (giacché attraverso l'indagine sulla loro efficacia si può cogliere la loro essenza), la teoria dell'essenza propria degli elementi specifici della sovrastruttura. Questa teoria resta, come la carta dell'Africa prima delle grandi esplorazioni, una terra conosciuta nei suoi contorni, nei grandi rilievi e corsi d'acqua, ma il più delle volte, salvo qualche regione ben disegnata, sconosciuta nei particolari.

Chi, dopo Marx e Lenin, ne ha davvero tentata e continuata l'esplorazione? Non conosco che Gramsci.
Eppure questo lavoro è indispensabile per arrivare se non altro a formulare qualche proposizione più precisa che non questa approssimazione sul carattere, basato innanzi tutto sull'esistenza e sulla natura delle sovrastrutture, della surdeterminazione della contraddizione marxista. Mi si consenta di fare ancora un'ultima riflessione. La pratica politica marxista urta continuamente contro quella realtà che viene chiamata le «sopravvivenze». Nessun dubbio: esse esistono davvero, se no non sarebbero cosi dure a morire... Lenin le combatteva entro il partito russo anche prima della rivoluzione. Inutile ricordare che dopo la rivoluzione, fino ancora ad oggi, hanno dato materia a una quantità di difficoltà, battaglie e interpretazioni. Orbene che cosa è una «sopravvivenza»? È di essenza «psicologica» o sociale? Si riduce alla sopravvivenza di certe strutture economiche che la rivoluzione non ha potuto distruggere colle sue prime leggi: per esempio la piccola produzione (contadina principalmente, in Russia), che preoccupava tanto Lenin? O mette in causa anche altre strutture, politiche, ideologiche, ecc., costu­mi, abitudini, «tradizioni» magari, come la «tradizione nazionale», con i suoi tratti specifici? «Sopravvivenza»: ecco un termine cui si fa continuamente ricorso e che è ancora alla ricerca, non dirò del suo nome (ne ha uno), ma del suo concetto. Ebbene, sostengo che per dargli il concetto che merita (e che ha ben meritato!) non ci si può accontentare di un vago hegelianismo del «superamento» e della «conservazione-di-ciò-che-è-negato-nella-negazione-stessa» (ossia della negazione della negazione)... Infatti, se ritorniamo ancora un momento a Hegel, costatia­mo che la sopravvivenza del passato come «superato» (aufgehoben) si riduce semplicemente alla modalità del ricordo che non è d'altronde che l'inverso dell'anticipazione, ossia la stessa cosa. Come infatti fin dall'alba della Storia umana, nei primi balbettamenti dello Spirito orientale, gioiosamente prigioniero delle gigantesche figure del cielo, del mare e del deserto, e più tardi del suo bestiario di pietra, si tradiva già il presentimento inconscio delle future realizzazioni dello Spirito assoluto, cosi in ogni istante del Tempo, il passato sopravvive a se stesso nella forma del ricordo di ciò che fu, ossia della promessa sussurrata del suo presente. Ecco perché il passato non è mai opaco e neppure è un ostacolo. È sempre digeribile, perché digerito in anticipo. Roma può ben regnare su un mondo impregnato di Grecia: la Grecia «superata» sopravvive in quelle memorie oggettive che sono i templi riprodotti, la religione assimilata, la filosofia ripensata. Essendo già Roma senza saperlo quando si ostinava a morire per dischiudere il suo avvenire romano, non è mai d'intralcio a Roma in Roma. Ecco perché il presente può nutrirsi delle ombre del proprio passato, proiettarle persino davanti a sé, come quelle grandi effigie della Virtù Romana che aprirono ai giacobini la strada della Rivoluzione e del Terrore. Gli è che il passato non è mai altro che il presente stesso cui esso non fa che ricordare quella legge d'interiorità che è il destino di ogni Divenire Umano.
Ma questo basta, penso, a fare capire che il «superamento» marxiano, per quel tanto di senso che questo termine può ancora avere (e, a dire il vero, non ha nessun senso rigoroso) non ha niente a che vedere con questa dialettica del confort storico; che il passato è tutt'altro che un'ombra, anche «oggettiva»: è invece una realtà strutturata terribilmente positiva e attiva come lo sono, per il miserabile operaio di cui parla Marx, il freddo, la fame e la notte. Ma allora come pensare queste sopravvivenze} Come, se non partendo da un certo numero di realtà che in Marx sono appunto realtà, sia che si tratti di sovrastrutture, di ideologie, di «tradizioni nazionali», e persino di costumi, di «spirito» di un popolo, ecc.? Come, se non partendo da questa surdeterminazione di ogni contraddizione e di ogni elemento costitutivi di una società? Essa fa si, primo, che una rivoluzione nella struttura non modifica ipso facto, in un battibaleno (eppure dovrebbe farlo se la determinazione da parte del fattore economico fosse l'unica determinazione) le sovrastrutture esistenti e in special modo le ideologie, giacché queste hanno, in quanto tali, una consistenza sufficiente per sopravvivere a se stesse fuori del contesto immediato della loro vita e persino per ricreare, «secernere» per un certo tempo, condizioni d'esistenza di sostituzione; secondo, che la nuova società, uscita dalla rivoluzione, può, o per le forme peculiari della sua nuova sovrastruttura o per «circostanze» specifiche (nazionali, internazionali) provocare essa stessa la sopravvivenza ossia la riattivazione degli elementi antichi. Questa riattivazione sarebbe propriamente inconcepibile in una dialettica priva di surdeterminazione. Per esempio, per non eludere la questione più scottante, mi sembra che quando ci si domanda come abbia potuto il popolo russo, cosi generoso e fiero, sopportare su cosi vasta scala i crimini della repressione stalinista, come abbia potuto addirittura il partito bolscevico tollerarli, senza parlare poi dell'ultimo interrogativo: come ha potuto un dirigente comunista ordinarli?, bisogna rinunciare a ogni logica in chiave di «superamento» oppure rinunciare anche a iniziare il discorso. Ma è chiaro che anche qui, dal punto di vista della teoria, resta molto da fare. Non parlo soltanto dei lavori storici che sono la base di tutto: ma poiché sono la base di tutto parlo di ciò che costituisce la base anche dei lavori storici che si vogliono marxisti, il rigore: una concezione rigorosa dei concetti marxisti, delle loro implicazioni e del loro sviluppo; una ricerca e una concezione rigorose di ciò che è esclusivamente loro, ossia di ciò che li distingue per sempre dai loro fantasmi.

È più che mai importante, oggi, rendersi conto che uno dei primi fantasmi è proprio l'ombra di Hegel. Bisogna gettare un po' più di luce su Marx perché questo fantasma ritorni nella notte o, il che fa tutt'uno, un po' più di luce marxista su Hegel stesso. Solo cosi sfuggiremo al «rovesciamento», ai suoi equivoci e alle sue confusioni.


Giugno-luglio 1962

grazie a: Archivio Internet dei Marxisti

Costanzo Preve

L'eredità intellettuale di Louis Althusser


1. L'insegnamento di Louis Althusser è stato un fenomeno culturale molto importante negli anni Sessanta e Settanta. Oggi è quasi dimenticato, insieme con l'impressionante decadenza del dibattito teorico marxista. Sopravvive in modo clandestino un althusserismo universitario, nascosto in qualche sottoscala di alcune facoltà di filosofia. Eppure, l'althusserismo è stato forse l'ultimo "ismo" veramente rilevante del dibattito marxista novecentesco. Nulla di simile, o di paragonabile, per Della Volpe o Colletti, Sartre o Lukács, Bloch o Geymonat. Tutto questo non è avvenuto per caso. Non si è trattato assolutamente di una moda parigina. L'althusserismo è stata una cosa molto seria. L'ambizione di questo breve testo è far capire il perché di questo fenomeno in un momento storico in cui il dibattito teorico sembra essersi esaurito negli anatemi contro Berlusconi, nelle lamentele su come Bin Laden abbia sciaguratamente sostituito il ben più serio e moderno movimento operaio, ed infine nelle invocazioni a creare un altro mondo possibile contro quello vincente della globalizzazione neoliberista.

2. Permettendomi qui un breve riferimento personale (ma ormai ho l'età per poterlo fare senza che questo suoni troppo osceno), credo di potermi occupare criticamente di Althusser, perché il suo insegnamento ha contato molto nella mia vita di studioso di marxismo. L'althusserismo è stata la prima corrente filosofica coerente e sistematica cui ho aderito in gioventù, dopo una prima fase puramente emozionale e ribellistica di adesione generica al comunismo ed al marxismo. In un secondo momento, ma ci è voluta molta fatica, ho riscoperto il valore della filosofia classica e particolarmente di Hegel (che prima liquidavo con indegna ignoranza come "borghese", e quindi per principio inaffidabile - ma purtroppo ognuno di noi ha dovuto sacrificare agli estremismi della propria generazione), e quindi mi sono accostato con vera gratitudine all'ontologia dell'essere sociale dell'ultimo Lukács, che ho studiato nel modo più approfondito possibile negli anni Ottanta, ritenendola sostanzialmente la proposta risolutiva per la crisi della filosofia marxista. Solo oggi, in un terzo momento, sono giunto alla conclusione che Lukács si era bensì mosso sulla strada giusta, che era appunto quella dell'ontologia dell'essere sociale (distinto cioè dalle cosiddette leggi unificate della natura e della storia del materialismo dialettico di Engels e di Stalin), ma si era per così dire fermato a metà strada, perché il riconoscimento del carattere ontologico della realtà non era ancora sufficiente, se non si arriva anche al principio dell'unità dialettica di logica e di ontologia, cioè di struttura veritativa logico-ontologica della realtà. È questa la via di gran parte della tradizione filosofica classica, da Platone ad Aristotele, da Spinoza ad Hegel. Ma Lukács non poteva giungere a tanto, ed allora da un lato approvò l'ontologia, dall'altro criticò il cosiddetto "logicismo", che poi non era altro che la corretta unità di logica e di ontologia. Ma una ontologia senza logica non è una vera ontologia, ma una forma di storicismo ragionevole, battezzato "materialismo" per pure ragioni di correttezza terminologica marxista. Ho fatto questa breve "deviazione" personale perché ritengo che il filosofo debba sempre mettere in tavola le proprie carte, e chiarire al lettore i propri presupposti. Possiamo ora passare a parlare direttamente di Louis Althusser a dell'althusserismo di ieri e di oggi.

3. Per chiarezza dividerò la mia esposizione in tre parti. In primo luogo, cercherò di "ambientare" storicamente il fenomeno, sulla base di un ritorno al clima ideologico e filosofico della congiuntura storica 1956-1968. Senza questa "ambientazione" la genesi del successo di Althusser è semplicemente incomprensibile. In secondo luogo, esporrò quelli che a mio avviso sono stati i tre distinti momenti successivi del paradigma teorico di Althusser (la filosofia come epistemologia, la filosofia come ideologia, ed infine la filosofia come materialismo aleatorio). In terzo luogo, parlerò dell'eredità di Althusser in questi inizi di XXI secolo, ovviamente dandone la mia valutazione di tipo critico.

4. Prima di definire i caratteri specifici del periodo storico che si apre dopo il 1956 (destalinizzazione e XX congresso del PCUS), almeno per quanto riguarda la filosofia marxista, ricordo brevemente la periodizzazione (analizzata più dettagliatamente in altra sede) che propongo per situare le congiunture dei dibattiti. In estrema sintesi, ritengo che il dibattito filosofico marxista possa essere analizzato in cinque fasi storiche distinte. Siamo oggi, dopo il 1991, in una sua quinta fase, assolutamente nuova e con caratteri del tutto inediti, in cui la discontinuità più radicale è diventata una necessità. Il pensiero di Marx non fa parte della storia del marxismo, ma ne è un presupposto, perché Marx non sistematizzò e concretizzò le sue teorie, mentre il marxismo è appunto una sistematizzazione ed una coerentizzazione. La prima fase della storia del marxismo va dal 1875 al 1914. Si tratta della sua fase costitutiva, caratterizzata dal modello di Engels ulteriormente semplificato da Kautsky. Una seconda fase si apre dal 1917 in poi, e termina nel 1931. In questa seconda fase la nuova corrente comunista cerca di elaborare una sua filosofia di riferimento, ed opta poi per una vera e propria ideologia, il materialismo dialettico. Il materialismo dialettico si impone, all'interno dell'URSS, contro le correnti rivali del cosiddetto materialismo volgare e del cosiddetto idealismo di Deborin, ed all'esterno dell'URSS contro il cosiddetto marxismo occidentale (Lukács, Korsch, eccetera). Una terza fase va dal 1931 al 1956, e vede la predominanza schiacciante del solo materialismo dialettico codificato da Stalin, mentre tutte le altre posizioni si manifestano solo in modo sotterraneo. Una quarta fase (ed è appunto quella che ci interessa, in cui Althusser gioca un ruolo essenziale) va dal 1956 al 1991, e vede l'ultimo ampio dibattito storico fra filosofi marxisti (oggi per il momento del tutto congelato).

5. Il XX Congresso del PCUS vede la delegittimazione di Stalin non da parte dei suoi oppositori storici (menscevichi, populisti, liberali, socialdemocratici, trotzkisti, eccetera), ma da parte dei suoi sacerdoti. Essi detronizzano simbolicamente il tiranno che li aveva innalzati al potere proprio per poter stabilizzare meglio il dominio collettivo della loro classe, quella dei burocrati comunisti di partito. Una simile detronizzazione non poteva però liquidare le basi ideologiche di questo potere (che dovevano ovviamente rimanere le stesse), ma deve limitarsi ad una demonologia personalizzata, la teoria tautologica del cosiddetto "culto della personalità". È allora normale che in assenza del gatto i topi comincino a ballare, e si apra il vaso di Pandora del cosiddetto "dibattito marxista". Si tratta appunto del quarto periodo di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Se non si fa chiarezza sui parametri storici ed ideologici fondamentali di questo quarto periodo diventa del tutto impossibile la stessa valutazione di Althusser e dell'althusserismo, come pure di Sartre, Bloch, Lukács, la riscoperta del marxismo occidentale degli anni Venti, eccetera. È allora bene cominciare dal cosiddetto "umanesimo marxista".

6. A proposito del cosiddetto "umanesimo marxista", e del se ed in che misura il marxismo sia un umanesimo o un anti-umanesimo (teorico), vi sono tante e tali confusioni da costringere ad un chiarimento preliminare. Bisogna infatti distinguere fra l'umanesimo filosofico, l'umanesimo ideologico ed infine l'umanesimo epistemologico (o teorico). Si tratta di tre questioni in via di principio distinte. Da un punto di vista filosofico generale, quello di Marx e del marxismo è indubbiamente un umanesimo, e più esattamente un umanesimo storicistico. E questo per il semplice fatto che avendo Marx ed i suoi successori rifiutato la concezione della filosofia come sorgente di conoscenza specifica del mondo (distinta cioè dalla quotidianità, dalla scienza e dall'arte), e dunque la via maestra della struttura logico-ontologica della realtà, ne consegue necessariamente e per esclusione che non resta come fondamento altro che l'agire umano costruttore e creatore dentro il tempo storico. Si tratta di una conseguenza del tutto ovvia. Da un punto di vista ideologico congiunturale, e cioè nel quarto periodo di cui parliamo apertosi dopo il 1956, l'umanesimo marxista è un'ideologia anti-staliniana e post-staliniana la quale, in coppia con la parola d'ordine economicistica della cosiddetta rivoluzione tecnico-scientifica, reagisce all'operaismo ed alla proletarizzazione esasperata del periodo precedente 1945-1956. Si tratta dell'ideologia di vecchi e nuovi ceti medi, insofferenti della retorica proletaria, della politicizzazione esasperata di tutti gli ambiti di vita attuata dalle burocrazie comuniste della stato-partito, ed anche più terra terra della penalizzazione salariale subita da tecnici, insegnanti, professionisti ed impiegati rispetto agli operai di fabbrica. Nei paesi dell'Est il principale esponente di questa tendenza è il polacco Adam Schaff. Ad Ovest, ed in Francia soprattutto, esponente di questa tendenza è stato Roger Garaudy. In Italia, data la ghettizzazione degli intellettuali comunisti in uno zoo-parco togliattiano protetto, il dibattito fu meno acceso, e fra gli esponenti dell'umanesimo marxista possiamo annoverare soprattutto esponenti del dialogo con i cattolici, come Lucio Lombardo Radice. Da un punto di vista epistemologico (e cioè teorico), Althusser ha ovviamente assolutamente ragione a dire che il marxismo non è un umanesimo, in quanto la categoria teorica fondamentale per comprendere la struttura e la dinamica del modo di produzione non è certamente un inesistente Uomo (nella Storia), ma è il complesso dei rapporti sociali classisti di produzione. Questo è assolutamente sacrosanto. Per capire meglio questo punto essenziale, è bene fare una breve serie di osservazioni

7. In primo luogo, la polemica di Althusser contro l'umanesimo marxista non avrebbe trovato un apparato argomentativo sufficientemente sviluppato, se non avesse "incontrato" e non avesse utilizzato una autonoma corrente detta anti-umanistica che nelle figure di Lacan, Foucault e Lévi-Strauss stava per conto suo (e con sovrana e totale indifferenza verso il problema della riforma filosofica del marxismo) effettuando una triplice riforma strutturale della psicoanalisi, della storiografia e della antropologia. A mio avviso, questi tre grandi intellettuali percepivano, ciascuno a modo loro, che si stava passando da uno stadio di capitalismo borghese, e perciò in qualche modo "umanistico", ad uno stadio di capitalismo post-borghese, e perciò strutturalistico, cioè impersonale. Verso le stesse conclusioni stava arrivando per conto proprio anche la scuola detta situazionistica di Guy Debord. Althusser non fece altro che usare genialmente le conclusioni di questa corrente contro l'ideologia umanistica di Schaff e di Garaudy.

8. In secondo luogo, bisogna chiarire cha la questione della cosiddetta "rottura epistemologica" del giovane Marx nel 1845, per cui Marx sarebbe passato da un precedente pensiero idealistico, hegeliano-feuerbachiano, ad un pensiero autonomo e maturo anti-umanistico, resta per molti aspetti un mito althusseriano del tutto privo di consistenza filologica. Nei Grundrisse del 1858 Marx propone un'antropologia della "libera individualità", che è certamente umanistica, perché gli unici individui non-umani sono quelli che sogna Negri in Impero, ontologicamente eguali agli animali ed agli organismi cibernetici. Come si è già ripetutamente detto, Marx rifiuta di dichiarare di avere una filosofia esplicita, e dunque implicitamente non può che avere una filosofia umanistico-storicistica, perché nella modernità chi vuole rinunciare alla religione, cioè a Dio, ed alla via filosofica di Spinoza e di Hegel, cioè alla struttura logico-ontologica della verità, non può che avere come fondamento la Prassi dell'Uomo nella Storia. E cioè appunto umanesimo e storicismo.

9. In terzo luogo, l'aspetto più importante della critica di Althusser all'umanesimo (teorico-epistemologico) fu però la sua "ricaduta a cascata" sui due aspetti successivi dell'economicismo e dello storicismo. Di per sé, la critica al solo umanesimo scopre solo l'acqua calda, perché bastano cinque minuti per capire che nella teoria dei modi di produzione Marx non mette al centro un fantomatico Uomo in Generale, angosciato e/o prometeico a seconda dei suoi stati d'animo e soprattutto della sua cartella clinica, ma i rapporti sociali di produzione fra le classi. Ma la critica all'umanesimo fa solo da antipasto al vero piatto forte teorico, che è la critica all'economicismo ed allo storicismo. Critica all'economicismo, perché è agevole mostrare che Marx non mette al centro lo sviluppo neutrale dello sviluppo delle forze produttive, cioè della produttività dell'uomo e delle macchine (questo è invece Adam Smith o se vogliamo il marxismo di tipo smithiano), ma la lotta di classe nei rapporti sociali di produzione. Critica allo storicismo, perché l'oggetto teorico chiamato modo di produzione è titolare di una sua temporalità specifica, e non è inserito, in forma ad un tempo stadiale e teleologica, in una sorta di continuum temporale omogeneo chiamato "storia" di cui non sarebbe altro che l'anello di una catena dotata di un'Origine e di una Fine. Questa critica di Althusser allo storicismo, in un ben altro contesto storico, sarebbe poi stata utilizzata da Lyotard per criticare le cosiddette "grandi narrazioni" e per fondare genialmente la filosofia post-moderna.

10. In quarto luogo, la triplice critica di Althusser all'umanesimo, all'economicismo ed allo storicismo sarebbe servita per edificare la struttura teorica fondamentale di quello che definirei "maoismo occidentale". Maoismo occidentale per distinguerlo da quello cinese vero e proprio, ed il cui svolgimento accompagna gli ultimi venti anni della vita di Mao (1956-1976). Sul piano teorico, sistematizzato da Chang Chun Chiao (il più dotato della cosiddetta "banda dei quattro"), anche il maoismo cinese si basava sulla critica all'umanesimo (cioè a Confucio) ed all'economicismo (cioè alla cosiddetta teoria "reazionaria" delle forze produttive). Non ci poteva essere ovviamente la critica allo storicismo, perché nessuna burocrazia al potere, sia pure di "estrema sinistra", può rinunciare alla rassicurante e religiosa certezza di un lieto fine della grande narrazione storica. Il maoismo occidentale può essere ulteriormente diviso in maoismo militante, ideologia identitaria di organizzazione delle piccole formazioni politiche marxiste-leniniste, ed in maoismo universitario, cioè in marxismo althusseriano sofisticato. In Francia, i suoi esponenti più importanti furono Charles Bettelheim e Bernard Chavance. In Italia, il suo esponente di gran lunga più importante è stato Gianfranco La Grassa. Nei paesi anglosassoni, sulla scorta delle ottime traduzioni di Grahame Lock, esso si fuse con la critica decostruzionistica di Derrida, diventando così un'altra cosa. In Grecia, unico paese occidentale in cui per ragioni storiche aveva sempre dominato un marxismo di tipo sovietico, l'althusserismo diventò addirittura l'ideologia dominante fra gli studiosi marxisti, e di fatto spesso una via politica non verso il maoismo occidentale ma verso l'eurocomunismo (e cito qui solo Nikos Poulantzas, Anghelos Elefantis, Jannis Milios). In America Latina, attraverso il lavoro di mediazione di Marta Harnecker, l'althusserismo diventò la forma di marxismo dominante nei gruppi intellettuali marxisti degli anni Settanta (poi in buona parte sterminati da generali fascisti locali, Kissinger e preti compiacenti e silenziosi). E si potrebbe continuare a lungo. Solo nei paesi dell'Est ed in URSS l'althusserismo non attecchì, perché lì dopo il 1968 i gruppi intellettuali erano passati all'anticomunismo radicale ed alla smania di distruggere l'intero baraccone, mentre i pochi marxisti rimasti (ad esempio Evald Ilienkov) erano maggiormente tentati da Hegel e dalla tradizione filosofica.

11. In quinto luogo, e per finire su questo punto, la rivoluzione althusseriana finì con l'essere l'evento teorico più importante della quarta fase di cui abbiamo parlato di storia della filosofia marxista (1956-1991). È possibile fare un'affermazione tanto impegnativa con una certa sicurezza storiografica. Galvano Della Volpe in Italia e Manuel Sacristan in Spagna non possono assolutamente essere messi a confronto. La rivitalizzazione del marxismo occidentale degli anni Venti fu un fenomeno effimero, già esaurito verso la metà degli anni Settanta. L'ontologia dell'essere sociale di Lukács, concepita con grandi ambizioni, non trovò nessun destinatario sociale. L'althusserismo, invece, presentava aspetti di rigore sistematico, di coerenza teorica, di trasmissibilità facile e chiara, eccetera, che lo fecero darwinianamente emergere in modo irresistibile nel panorama delle tendenze teoriche di quegli anni.

12. Tentiamo una prima sintesi concisa. Il primo Althusser accetta la distinzione (affermatasi nella terza fase staliniana 1931-1956 della storia della filosofia marxista) fra materialismo storico, o scienza marxista della storia dei modi di produzione sociali, e materialismo dialettico, o spazio della filosofia marxista. Per quanto riguarda il materialismo storico, la sua triplice critica all'umanesimo, all'economicismo ed allo storicismo effettivamente "ripulisce" e restaura un metodo marxista liberato dalle incrostazioni metafisiche precedenti. Per quanto riguarda il materialismo dialettico, ne propone un integrale cambiamento di significato, per cui non è più (come nella terza fase prima ricordata) un racconto materialistico e cosmologico della lunga evoluzione umana dal protozoo primitivo all'ultimo meraviglioso piano quinquennale di proletari festanti, ma diventa una sorta di "teoria della teoria", di teoria degli insiemi teorici, e dunque una epistemologia dei concetti del materialismo storico. Lo spazio autonomo della conoscenza filosofica è così completamente cancellato. Si tratta di una scelta già fatta molte volte nella precedente storia della filosofia occidentale e dello stesso marxismo. Gli empiristi inglesi, e Locke in testa a tutti, lo avevano già fatto, ma allora questo aveva un senso di classe ben preciso, perché si trattava di sostituire la "sostanza" stabile (metafora filosofica della fissità e del conservatorismo delle società signorili, feudali ed assolutistiche) con una nuova sostanza flessibilizzata adatta alla variabilità del mondo del capitale e delle merci. Il positivista Comte lo aveva già fatto, riducendo lo spazio filosofico a riflessione di secondo grado sull'evoluzione dei concetti scientifici. Engels, il fondatore di quello che abbiamo definito il primo stadio storico del marxismo filosofico, aveva pienamente recepito la concezione di Comte (nel frattempo resa più sofisticata dai positivisti di lingua tedesca), limitando la filosofia a studio delle leggi della conoscenza umana, il cui studio avrebbe dovuto portare ad una concezione scientifica e materialistica del mondo. Come si vede, Althusser è un innovatore nel campo dell'uso dei concetti del materialismo storico, mentre è un conservatore totale sia rispetto ad Engels sia rispetto all'anti-filosofia del marxismo tradizionale. Lo spazio filosofico, infatti, non si riduce a spazio gnoseologico o epistemologico. Qui sta la semplice soluzione del problema.

13. Questo primo Althusser provocò grandi entusiasmi e grandi scandali. Degli entusiasmi abbiamo già detto, e ricordiamo ora gli scandali. Gruppi di confusionari cominciarono a scandalizzarsi per il suo "anti-umanesimo", come se Althusser avesse proposto il cannibalismo e la saponificazione degli organismi viventi, e come se l'anti-umanesimo teorico non fosse perfettamente conciliabile con un forte umanesimo pratico (cosa che invece capirono benissimo molti teologi althusseriani della liberazione sudamericani). Lo storico inglese E. P. Thompson accusò Althusser di stalinismo, laddove invece era ovvio che Althusser remava in senso contrario. Ma è noto il fatto che spesso gli storici, anche i migliori, non capiscono nulla di teoria filosofica, e se ne vantano pure come se fosse un merito. Un allievo di Althusser, Rancière, cominciò ad accusare il maestro di essere troppo teorico, ed allora si buttò nello studio "materiale" alla Braudel della classe operaia francese dell'Ottocento. Mille gelosie si accesero. Soprattutto, si alzò l'accusa di "teoricismo". Apro una parentesi. Per me accusare un teorico di teoricismo è come accusare un radiologo di radiologismo. Da un radiologo, ovviamente, vogliamo che usi ed interpreti sempre meglio le lastre, le ecografie, le TAC e le risonanze magnetiche, non vogliamo che si immedesimi emozionalmente con le angosce dei suoi malati. Se poi riesce a fare anche questo, tanto meglio, purché non interferisca nelle sue capacità radiologiche. Solo un cretino non capirebbe questo. Ma tutto ciò non è alla portata del militante medio, del burocrate comunista novecentesco e soprattutto dell'intellettuale roso dai complessi di colpa, l'equivalente ateo della "superbia" del credente. Fare teoria in modo spregiudicato (giusta o sbagliata che sia, ovviamente) è assimilato ad un peccato di superbia piccolo-borghese. Questo meccanismo di colpevolizzazione, ovviamente, è funzionale al rapporto di "complicità" fra dirigenti di vertice e militanti di base. I dirigenti di vertice non vogliono far sapere, mentre i militanti non vogliono sapere. In mezzo, i teorici innovatori vengono stritolati e triturati. Ovviamente, questo fu anche il caso di Althusser, che era già ampiamente nevrotico per conto suo, come la sua autobiografia e la biografia di Yann Moulier Boutang testimoniano ampiamente. Ed allora il povero Althusser fece la sua brava autocritica, e si discolpò del suo peccato di "teoricismo". Si discolpò, ovviamente, di avere realizzato una delle più geniali riforme della teoria marxista del Novecento.

14. Il secondo Althusser (intorno al 1972) passò dunque da una concezione della filosofia come epistemologia ad una concezione della filosofia come ideologia. Dalla padella alla brace. Un inutile peggioramento evidente. La sua definizione dello spazio filosofico come spazio della "lotta di classe" nella teoria propone infatti un'equazione fra spazio filosofico e spazio ideologico. Si tratta, a mio avviso, di una vecchia posizione sbagliata, già sostenuta da Lenin, e che rappresenta il punto debole a mio avviso dell'eredità leninista. Nel contesto storico 1969-1976, caratterizzato dalle lotte di classe in Cina e dal periodo più acuto delle lotte operaie e studentesche in Europa, lo sbandamento di Althusser è pienamente comprensibile. È difficile resistere alle fortissime pressioni dell'ambiente esterno, e questo vale sia per i girotondi anticraxiani ed antiberlusconiani sia per il rarefatto mondo della teoria. Ma questo è un errore, per almeno due ragioni di fondo che ora qui ricorderò.

15. In primo luogo, e questo è il punto di fondo, lo spazio filosofico non coincide assolutamente con lo spazio ideologico. Lo spazio filosofico è lo spazio di un particolare tipo di conoscenza, diversa e distinta da quella quotidiana, scientifica ed artistica. Lo spazio ideologico, invece, non è mai uno spazio veramente conoscitivo, ma è lo spazio di quella "concezione del mondo" che razionalizza parzialmente ed imperfettamente le domande di senso che scaturiscono dal rispecchiamento quotidiano dell'esperienza prefilosofica e prescientifica. Marx, che su questo punto a mio avviso ha ragione, identifica lo spazio ideologico con la falsa coscienza, che a sua volta può essere spontanea o organizzata. Lenin utilizza invece una nozione positiva di ideologia come concezione organica e coerente del mondo (l'ideologia proletaria sistematizzata dal partito), ma in questo modo non risolve il problema posto da Marx, ma semplicemente lo esorcizza, come documenta ampiamente la storia del marxismo del Novecento. Lo spazio ideologico non può essere costruito, perché si costruisce da solo sulla base di proiezioni religiose imperfettamente laicizzate e secolarizzate, ma può essere solo decostruito, per dare luogo geneticamente allo spazio filosofico e scientifico. Del resto, la filosofia antica nacque decostruendo il patrimonio mitico, e la filosofia moderna si origina decostruendo l'eredità ideologica, che è la forma impoverita del mito stesso. Ma è sempre la stessa storia. Althusser riesce a fare critica dell'ideologia criticando gli apparati ideologici borghesi di stato, anche se non capisce assolutamente che lo stesso capitalismo intende liquidare lui stesso sia la famiglia che la scuola, e dunque non c'è nessun bisogno di dargli anche una mano, ma non riesce a criticare l'ideologia di sé stesso, cioè di un pensiero che si ferma a mezza strada.

16. In secondo luogo, e questo è il punto più importante, la concezione ideologica della filosofia come lotta di classe nella teoria pone immediatamente il problema di quali siano i soggetti antagonistici fondamentali di questa lotta di classe. La risposta di Althusser è ovviamente quella tradizionale e classica del marxismo: i soggetti antagonistici fondamentali sono la Borghesia ed il Proletariato. Ma è veramente così? Personalmente, non lo credo affatto. Il modo di produzione capitalistico è nato storicamente, cioè genealogicamente, con la costituzione progressiva di un soggetto sociale "borghese", l'imprenditoria prima commerciale e poi industriale, che a sua volta con il processo dell'accumulazione primitiva costituì il "proletariato", l'insieme di coloro che dovevano vendere la loro forza-lavoro per sopravvivere. Tutto ciò è innegabile, ma il punto sta altrove. La borghesia ed il proletariato non sono soggetti permanenti, ma solo soggetti provvisori ed iniziali del modo di produzione capitalistico. Ovviamente, restano soggetti permanenti e strutturali di questo modo di produzione i soggetti collettivi attivi e passivi della produzione capitalistica, che deve sempre riprodurre queste due polarità. Ma il termine marxiano "agenti attivi e passivi della produzione capitalistica" non coincide affatto con i due termini di Borghesia e Proletariato, che non sono semplici portatori di ruoli economici (alcuni estorcono, e ad altri viene estorto il plusvalore sotto l'apparenza dello scambio economico fra eguali), ma sono complesse soggettività non solo economiche, ma anche politiche, religiose, culturali, artistiche, eccetera. Ridotta a riproduzione dei ruoli economici, la dicotomia Borghesia/Proletariato è puro economicismo. E questo economicismo, lo si ricordi sempre bene, non si limita alla vecchia enfatizzazione dello sviluppo delle forze produttive e della cosiddetta rivoluzione tecnico-scientifica, ma si nutre con la centralità della teoria del valore rispetto alla ben più importante centralità del modo di produzione. E questo l'althusseriano italiano La Grassa lo ha capito da tempo nell'indifferenza generale dei "marxisti".

17. Il 1976 è un vero anno di svolta. Muore Mao Tse Tung, ed appena un mese dopo la sua morte un colpo di stato abbatte la cosiddetta "banda dei quattro", che era poi quanto restava della dirigenza maoista della rivoluzione culturale cinese. Nel 1975 erano diventati "comunisti" il Vietnam, la Cambogia ed il Laos, cioè l'intera Indocina, realizzando così l'unica vera sconfitta militare strategica degli USA nel Novecento. Nello stesso anno erano diventati di fatto "comunisti" anche gli stati africani dell'Angola e del Mozambico, e la rivoluzione comunista in Etiopia era in pieno svolgimento. In Portogallo per alcuni mesi sembrò addirittura che un regime comunista fosse possibile. In Spagna ed in Grecia caddero i precedenti regimi fascisti o quasi-fascisti. In Italia premeva il "compromesso storico" di Enrico Berlinguer, e più in generale in Europa il cosiddetto "eurocomunismo" sembrava una prospettiva storica realistica. Si trattò di un'illusione storica. Ciò che sembrò l'inizio di un processo di svolta a sinistra su scala mondiale si rivelò essere solo l'ultimo colpo di coda del vecchio ciclo storico. Iniziava invece la controffensiva capitalistica strategica. Non si tratta soltanto di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, cioè della cosiddetta controffensiva liberista. Questa non è che la sovrastruttura politico-ideologica. Si trattava di una vera e propria terza rivoluzione industriale capitalistica, dopo quelle di fine Settecento e di fine Ottocento. Non si tratta solo di un nuovo ciclo merceologico di innovazioni di prodotto, perché se così fosse potremmo affermare che i computer non sono così importanti come i prodotti tessili, i treni o l'automobile. Si tratta di una "grande trasformazione" (prendo a prestito il termine da Polanyi) non solo nelle innovazioni tecnologiche di processo e di prodotto, ma anche nella più generale riproduzione finanziaria e soprattutto culturale. Solo questa terza rivoluzione industriale, tuttora in corso, dà veramente luogo ad un capitalismo globale e totalitario, al di là delle precedenti fasi della protoborghesia e del protoproletariato. Nel 1976 comincia in Argentina lo sterminio fisico degli oppositori, i cosiddetti desaparecidos. Un segnale importante, storicamente sempre sottovalutato. Nel 1977 vengono lanciati in Europa i cosiddetti "nuovi filosofi" francesi, che per la prima volta fanno dell'anticomunismo una vera e propria piattaforma filosofica esplicita. I "nuovi filosofi" sono vecchi sessantottini pentiti, parlano ad una generazione sbandata e senza prospettive con il suo linguaggio, e così il "pentitismo", prima di diventare una modalità di sconfitta della lotta armata italiana, diventa una categoria filosofica. I "nuovi filosofi" vengono anche lanciati con una campagna pubblicitaria promozionale in cui i media si impegnano in modo coordinato, e questa interessante novità non viene percepita in modo adeguato. Dalla vecchia sottomissione "formale" si passa ad una nuova sottomissione "reale" del dibattito filosofico al ceto giornalistico di servizio. Nel 1980 si ha anche una forte sconfitta sindacale e sociale della classe operaia FIAT di Torino. Un avvenimento su scala mondiale del tutto secondario, ma comunque significativo e simbolico, per chi aveva disinvoltamente caricato la povera classe operaia di fabbrica di un ruolo messianico.

18. Cambia il vento, inizia il "piano inclinato" che porterà al 1991, ed il sismografo filosofico di Althusser lo registra. Dal 1976 alla morte gli restano quattordici anni, con in mezzo l'assassinio della moglie in un accesso della sua malattia nervosa. Non verrà messo in prigione, verrà riconosciuto incapace di intendere e di volere, e verrà sequestrato in casa. Gli resta un filo diretto con alcuni amici, e soprattutto con alcuni filosofi che continuano a sollecitarlo ed ad intervistarlo. È questo il terzo periodo di Althusser. Dopo le due riduzioni dello spazio filosofico marxista prima ad epistemologia e poi ad ideologia giunge finalmente la prima vera e propria formulazione filosofica di Althusser, il cosiddetto "materialismo aleatorio", che merita certamente una riflessione apposita.

19. Per l'ultimo Althusser il materialismo aleatorio rappresenta la vera corrente marxista in filosofia. Si tratta di rintracciare una linea genealogica di posizioni, da Epicuro a Marx attraverso Machiavelli, in cui vengono espresse nel modo migliore delle posizioni (e per Althusser la filosofia è sempre un insieme di "posizioni") opposte a quelle idealistiche. Come si vede, siamo sempre alla vecchia dicotomia fra materialismo ed idealismo proposta da Engels negli anni Ottanta dell'Ottocento. La dicotomia però non è più di tipo gnoseologico (sostenitori del rispecchiamento dell'essere materiale nel pensiero contro sostenitori dell'identità logica fra essere e pensiero), e neppure di tipo per così dire metafisico (sostenitori dell'unicità della materia contro sostenitori della dualità di materia e di spirito). Questa volta il criterio è l'insistenza sul tema della casualità, dell'aleatorietà e della pura possibilità dell'Origine e comunque di ogni Evento, storico e/o naturale. Si ha chiaramente una radicalizzazione ma anche una opportuna sistematizzazione della vecchia critica althusseriana al triplice mito dell'Origine, del Soggetto e del Fine. Apparentemente, niente di veramente nuovo. Eppure il nuovo c'è, e sta proprio nella esplicita dichiarazione della Aleatorietà come nuovo Fondamento Metafisico del Marxismo. Tutto questo richiede un insieme di riflessioni, per poterne cogliere realmente la portata.

20. Non bisogna ovviamente che ci sfugga l'aspetto principale della questione. Ed esso sta in ciò, che ponendo l'aleatorietà (cioè la casualità assoluta) come nuovo fondamento metafisico della filosofia marxista Althusser non fa che registrare nel mondo rarefatto dei concetti teorici la fine dell'idea della "necessità" storica del passaggio dal capitalismo al comunismo. Questa idea non era già più credibile da molto tempo, e continuava ad essere agitata in perfetta malafede dagli apparati ideologici e scolastici degli stati socialisti, e ad essere creduta in perfetta buonafede da militanti desiderosi di farsi raccontare delle storie per fortificare la propria fede. Il terzo Althusser semplicemente la registra, e la trasforma in metafisica dell'aleatorietà. Non c'è a mio avviso rottura con il primo Althusser, ma unicamente radicalizzazione e coerentizzazione della propria proposta teorica. Credo infatti che se si portano veramente alle estreme conseguenze le tre critiche all'umanesimo, all'economicismo ed allo storicismo non ne può che risultare alla fine una quarta conseguenza, e cioè l'assoluta aleatorietà del passaggio fra il capitalismo ed il comunismo.

21. Il principio della aleatorietà, ovviamente, ha soprattutto un carattere storico retroattivo, che riguarda sia le scienze naturali che le scienze sociali ed il marxismo. Per quanto riguarda le scienze naturali, esso ribadisce il carattere completamente casuale ed aleatorio della nascita della vita sulla terra, contro ogni tipo di Principio Antropico difeso con l'uso di statistiche, per cui le probabilità di origine casuale della vita sarebbero minime, se non inesistenti, dato l'intreccio di condizioni che la rendono possibile, con l'implicita conseguenza della rilegittimazione di un demiurgo creatore. Il Principio Antropico, al di là dell'uso sofisticato delle ultime frontiere della fisica contemporanea, è in realtà una riproposizione sofisticata delle tesi del Timeo di Platone. Con questo non intendo certo dire che bisogna condannarle senza esaminarle. E tuttavia, una volta esaminate, mi sembrano più convincenti le tesi aleatorie di quelle antropiche, che sono in realtà antropocentriche. Per quanto riguarda le scienze sociali ed il marxismo, il materialismo aleatorio di Althusser è confermato dalle recenti tesi di Robert Brenner sul carattere completamente casuale ed aleatorio della nascita del capitalismo in Inghilterra. Il capitalismo avrebbe anche potuto tranquillamente non nascere, e non era assolutamente lo sbocco inevitabile di uno sviluppo irresistibile delle forze produttive e della tecnologia. Chi crede in questo sviluppo inevitabile, e pensa di essere allievo di Marx, lo è piuttosto di Adam Smith. Del resto, sarebbe stato perfettamente possibile che popoli di nomadi avessero precocemente distrutto le prime civiltà idrauliche del Nilo e della Mesopotamia, ed allora non saremmo neppure qui a giocare con il computer. Annibale avrebbe potuto entrare a Roma e distruggerla, ed allora l'Europa sarebbe oggi un mosaico di celti, germani, etruschi e baschi, non avremmo avuto probabilmente nessun cristianesimo ma altre forme imprevedibili di politeismo e di monoteismo, eccetera. In America non si parlerebbe inglese e spagnolo, ma maya, quechua, aymarà ed irochese. Infine, nessuno sarebbe ancora andato a rompere le scatole agli aborigeni australiani. Quanto dico può sembrare solo una parentesi scherzosa. Non lo è affatto.
I marxisti hanno infatti sempre secolarizzato la teoria della provvidenza di Agostino di Ippona, per cui i greci ed i romani erano certamente cattivi, perché pagani ed idolatri, ma erano stati provvidenziali nel fare il loro impero pagano, perché poi quest'ultimo era diventato l'involucro geografico, politico e linguistico della nuova città di Dio cristiana. L'ultimo esempio di questa secolarizzazione imperiale provvidenziale è il libro Impero di Hardt e Negri, pubblicato in lingua italiana nel 2002. Contro ogni tipo di provvidenzialismo, e contro ogni grande narrazione storicistica, il materialismo aleatorio dell'ultimo Althusser non è poi così cattivo. Esso vorrebbe essere l'antidoto definitivo verso ogni possibile filosofia della storia. In realtà si tratta della filosofia della storia di chi non crede nella filosofia della storia, neppure in quelle varianti assolutamente non teleologiche e non necessitate a cui a suo tempo Kant, Hegel e Marx hanno prudentemente aderito. E questo è il punto su cui portare la nostra attenzione.

22. Il principio della aleatorietà sembra inaugurare una nuova stagione del marxismo della possibilità contrapposta alla vecchia stagione del marxismo della necessità. Il vecchio marxismo della necessità aveva saputo fondere insieme in modo catastrofico il determinismo e la teleologia, riuscendo nell'impresa di unire due difetti diversi. Del resto, già Antonio Gramsci aveva perfettamente capito che il determinismo economico è la religione delle classi subalterne. Ma personalmente ho forti dubbi sul fatto che il terzo Althusser sia la risposta migliore possibile a questa nuova stagione del marxismo della possibilità. Lo studioso francese Michel Vadée, in quello che resta forse il migliore studio recente sul rapporto fra Marx e la possibilità, ricorda che nel vecchio significato di Aristotele il "possibile" prendeva le due varianti distinte del katà to dynatòn, ciò che è semplicemente possibile nel senso appunto di contingente, non necessario, aleatorio, e del dynamei o n, ciò che è essente-in-possibilità, e porta dentro di sé la potenzialità di sviluppo ontologicamente accertata. Si tratta di principi filosofici diversi. Althusser sceglie semplicemente il katà to dynatòn, in un significato di piena contingenza, e questo a mio avviso dà luogo ad una possibile metafisica dogmatica della casualità.

23. L'aspetto principale della questione, tuttavia, sta nel fatto che Althusser ha ragione nell'essenziale contro i deterministi ed i sacerdoti di una inesistente necessità. Si riprende così la tradizione di Epicuro, e non quella degli stoici antichi. Il comunismo può così essere pensato come "libera deviazione" (clinamen, parekklisis) della riproduzione capitalistica, e non più come "necessità" (ananke) di questa stessa riproduzione. La possibilità torna ad essere una "occasione" (tyche), e questo spiega l'apologia sistematica che fa Althusser di Machiavelli. Questo tipo di impostazione va nella stessa direzione della valorizzazione delle cosiddette "categorie modali" (ad esempio la possibilità) fatta dall'ultimo Lukács nell'ontologia dell'essere sociale. La convergenza fra Althusser e Lukács, ovviamente negata dai dogmatici e dai "tifosi" di entrambi gli schieramenti, è palese al di là del loro rapporto con Hegel e con la dialettica. Ma qui ciò che conta non è la propria genealogia filosofica di riferimento, unico interesse di coloro che definirei esperti di "araldica filosofica", ma il fatto di dover rispondere razionalmente agli stessi problemi, in questo caso la crisi irreversibile del vecchio modello di marxismo.

24. Possiamo ora chiudere questo breve saggio con alcune riflessioni sul presente e sul prossimo futuro dell'althusserismo. La massima cautela è ovviamente necessaria, perché ogni previsione resta per forza di cose incerta e discutibile. In primo luogo, il marxismo che si ispira ad Althusser resta tuttora un prodotto teorico per molti aspetti superiore a quanto offre il mercato delle idee. Pensiamo solo alla genericità disarmante della cultura del movimento anti-globalizzazione, che considera il motto "un altro mondo è possibile" come il sostituto di un'analisi marxista seria del capitalismo contemporaneo. Pensiamo ancora alla recente sintesi di Hardt e Negri intitolata Impero, in cui il problema della rivoluzione è virtualmente risolto con l'evocazione di moltitudini biopolitiche disobbedienti in cui non vi è più nessuna differenza di principio fra umani, animali ed organismi cibernetici. Il modello interpretativo proposto da Althusser, nonostante l'eccessivo ruolo dato alla politica ed all'ideologia, è comunque pur sempre mille volte superiore rispetto a queste genericità. In secondo luogo, voglio qui ripetere quanto già ampiamente ricordato nei paragrafi precedenti (e svolto più dettagliatamente in altra sede), per cui il modello teorico di Althusser, insieme con l'ontologia dell'essere sociale di Lukács, resta il punto più alto della teoria di ispirazione marxista prodotta nel quarto periodo della storia della filosofia marxista (1956-1991). Ma questo punto più alto nel frattempo è stato sorpassato da una nuova fase storica apertasi dopo il 1991.
In questa fase storica occorre a mio avviso essere molto più radicali di prima, anche perché ormai non esiste più nessun collegio di cardinali marxisti sostenuto e legittimato (e dotato del braccio secolare di una inquisizione poliziesca armata) da gruppi di burocrati. Questa quinta fase assomiglia per molti aspetti alla prima (1875-1914), nel senso di essere costitutiva di un paradigma completamente nuovo. Non parlo qui della politica e dell'economia. Ma per quanto riguarda la filosofia sono convinto che non ci si possa più fermare a mezza strada in compromessi e mezze misure. Occorre credere nella filosofia, tornare alla grande impostazione filosofica classica, e non vergognarsi più di parlare di fondamento logico-ontologico della verità e della realtà. Ma Althusser non credeva in questo, non voleva questo, e per quanto ha potuto si era sempre opposto a simili sviluppi.
Questo è oggi, in breve, il problema.

grazie : Kelebek