Agnes Heller

Il concetto marxiano di bisogno[1]


Riassumendo le proprie scoperte economiche, rispetto all’economia politica classica, Marx elenca i seguenti punti:

1. Elaborazione della teoria secondo la quale il lavoratore vende al capitalista non il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro.

2. Elaborazione della categoria generale del plusvalore e sua dimostrazione (profitto, salario e rendita fondiaria sono soltanto forme fenomeniche del plusvalore).

3. Scoperta del significato del valore d’uso (Marx scrive che le categorie valore e valore di scambio non sono nuove, ma sono riprese dall’economia politica classica).

Se si analizzano le tre scoperte che Marx si attribuisce, non è difficile dimostrare che in qualche modo sono costruite tutte sul concetto di bisogno.

Esaminiamo dapprima il valore d’uso. Marx definisce la merce come valore d’uso nel modo seguente: “La merce è [...] una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo.”[2] È irrilevante a questo proposito se si tratti di bisogni dello stomaco o della fantasia. La soddisfazione del bisogno è la conditio sine qua non per qualunque merce. Non esiste alcun valore (valore di scambio) senza valore d’uso (soddisfazione di bisogni), ma possono ben esistere valori d’uso (beni) senza valore (valore di scambio), sebbene soddisfino bisogni (secondo la loro definizione). Sia fin d’ora chiaro che Marx è solito definire attraverso il concetto di bisogno, ma non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non descrive nemmeno cosa si debba intendere con tale termine.

Il valore d’uso è immediatamente definito dai bisogni e questo vale, indirettamente, ma con altrettanti riferimenti, anche per l’idea in base alla quale il lavoratore vende al capitalista la sua forza-lavoro: egli dà valore d’uso e, come contropartita, riceve valore di scambio. Ora, che cosa definisce il valore che egli riceve, cioè il valore della forza-lavoro? Come è noto, il valore dei mezzi di sussistenza necessari alla sua riproduzione. Considerando data la produttività, la corrispondente quantità di valore viene nuovamente fissata dai bisogni del lavoratore. La totalità dei bisogni per la mera sopravvivenza (compreso il sostentamento dei bambini) rappresenta il limite inferiore. Più di una volta, però, Marx ribadisce la storicità di questi bisogni, la loro dipendenza dalla tradizione, dal grado di cultura, ecc.; questo è un punto su cui torneremo.

Il lavoratore vende, dunque, al capitalista la sua forza- lavoro, cioè un valore d’uso. Come sappiamo, il valore d’uso soddisfa per definizione dei bisogni: i bisogni della produzione di plusvalore e quindi di valorizzazione del capitale. (Se la forza-lavoro non producesse plusvalore e il capitalista non comprasse forza-lavoro, il sistema capitalistico cesserebbe.) “La legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura esprime dunque in realtà il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata. Non può essere diversamente in un modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale per i bisogni di sviluppo dell’operaio.”[3]

Per ora teniamo presente che l’osservazione, secondo cui la ricchezza materiale dovrebbe servire ai bisogni di sviluppo del l’operaio, si basa totalmente su una valutazione extra:economica. Ma torniamo alla categoria del plusvalore. Abbiamo già visto che anche la produzione di plusvalore soddisfa un bi sogno (il “bisogno” di valorizzazione del capitale). Con i bisogni però Marx definisce anche la possibilità di produzione del plusvalore. Attraverso l’intera opera di Marx riaffiora costantemente il pensiero che la possibilità di produrre plusvalore si realizza quando una determinata società è capace di produrre più di quanto basta per la soddisfazione dei suoi “bisogni vitali.” Marx non afferma certamente che la produzione di plus valore avvenga in ogni caso del genere, ma solo che non è possibile senza questo surplus. Quando si realizzi la produzione di plusvalore e quando no, è volta per volta un problema particolare, funzione della interazione di innumerevoli fattori.

Considerata nella sua genesi storica, la produzione di plusvalore pone e riproduce la priorità privata e ciò che, almeno nella genesi, è identico ad essa: la divisione del lavoro. Lo sviluppo della divisione del lavoro e della produttività crea, con la ricchezza materiale, anche la ricchezza e la molteplicità dei bisogni; è però sempre in seguito alla divisione del lavoro che anche i bisogni si ripartiscono: il posto occupato all’interno della divisione del lavoro determina la struttura del bisogno o, almeno, i suoi limiti. Questa contraddizione raggiunge il suo culmine nel capitalismo, dove anzi diventa, come vedremo, la massima antinomia del sistema.

Dunque abbiamo visto che all’interno delle scoperte economiche che Marx indica come proprie il concetto di bisogno gioca uno dei moli principali, quando non addirittura il ruolo principale. Basta una sguardo alle categorie che egli ha consapevolmente tralasciato per riconoscere che il bisogno non vi gioca nessun ruolo. L’economia politica classica non attribuiva alcuna importanza al valore d’uso e al riguardo non si poneva quindi alcun problema. Se infatti il lavoratore vendesse al capitalista il suo lavoro, verrebbero a mancare entrambi i mo menti di questo atto riguardanti i bisogni. E se infine si parlasse di profitto, salario e rendita fondiaria, nemmeno qui apparirebbe alcun riferimento al bisogno.

Ciò non significa, però, che il concetto di”bisogno” prima di Marx sia stato ignorato; anzi nell’economia politica classica questo è un concetto perfino decisivo, ma in una prospettiva ed in un contesto completamente diversi da quelli di Marx. L’analisi e la critica del bisogno avvengono dal punto di vista del capitalismo. Questa analisi o questa critica è perciò puramente economica: il valore economico è l’unico valore, quello massimo, che non può essere trasceso da nessun altro punto di vista. I bisogni deI lavoratore appaiono come limiti della ricchezza e come tali vengono analizzati. Contemporaneamente però il bisogno che appare nella forma di domanda solvibile è una forza motrice e un mezzo dello sviluppo industriale. Già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx respinge energicamente la concezione puramente economica del bisogno, poiché essa consegue dalla posizione del capitalismo. Riguardo all’economia politica scrive: “Ogni cosa che va oltre al più astratto di tutti i bisogni - sia esso godimento passivo o manifestazione d’attività - gli [all’economista] appare come un lusso.[4]” E più avanti: “La società, quale appare all’economista, è la società civile, in cui ogni individuo è un insieme di bisogni, ed è per l’altro, cos come l’altro è per lui, soltanto nella misura in cui diventano reciprocamente mezzi l’uno dell’altro.[5]

Secondo Marx, la riduzione del concetto di bisogno al bisogno economico è una espressione dell’estraniazione (capitalistica) dei bisogni, in una società in cui il fine della produzione non è la soddisfazione di bisogni, ma la valorizzazione del capitale, in cui il sistema dei bisogni è fondato dalla divisione del lavoro e il bisogno compare soltanto sul mercato, nella forma di domanda solvibile. Riesamineremo in seguito la struttura dei bisogni della società dei “produttori associati,” che Marx ci presenta. Qui vogliamo rilevarne solo alcuni aspetti. La società dei “produttori associati” non si distinguerà dal capitalismo per il costante incremento della produttività. L’aumento della produzione è in correlazione solo con la quantità (e la qualità) del valore d’uso: innalza la “ricchezza materiale” della società, soddisfa e insieme produce bisogni. Non è invece in rapporto diretto con la produzione di valore (valore di scambio), perché questo è correlato con il tempo di lavoro necessario[6]. Attraverso la mediazione della legge del valore può però essere messo in relazione con i bisogni anche l’aumento della produttività; grazie ad esso infatti si ottiene una diminuzione del tempo di lavoro, con la conseguente possibilità, per il lavoratore, di soddisfare bisogni più elevati. Ma questo, secondo Marx, non può mai accadere nel capitalismo, in parte perché la valorizzazione del capitale pone dei limiti alla riduzione del tempo di lavoro, in parte - e vedremo che questo è il motivo determinante - perché ab ovo non può svilupparsi nella media degli uomini una struttura dei bisogni tale da rendere possibile l’impiego del tempo libero per la soddisfazione di ”bisogni superiori” Questa possibilità può essere realizzata solo nella società dei “produttori associati,” dove i bisogni non compaiono sul mercato. In questa società è di primaria importanza la valutazione dei bisogni e la conseguente ripartizione di forza-lavoro e di tempo di lavoro; in tal modo viene modificata tutta la struttura dei bisogni (anche il lavoro diventa un bisogno vitale): gli uomini partecipano dei beni conformemente ai loro bisogni, e sono primari non i bisogni riguardanti beni materiali, ma quelli diretti alle “attività superiori” e soprattutto quelli diretti agli altri uomini intesi non come mezzo, ma come fine.

Ora non dovrebbe più sembrare un “caso” che il concetto di bisogno giochi nascostamente il ruolo principale nelle categorie economiche marxiane, cosi come non è casuale che il concetto di bisogno non sia definito nelle critiche dell’economia politica (e del capitalismo). Le categorie marxiane di bisogno (vedremo che egli ne dà parecchie interpretazioni) non sono nella loro generalità categorie economiche. Nelle sue opere la tendenza .principale è di considerare i concetti di bisogno come categorie extra economiche e storico filosofiche cioè come categorie antropologiche di valore, già per questo non passibili di definizione entro il sistema economico. Per poter analizzare le categorie economiche del capitalismo come categorie dei bisogni estraniati (non sono forse fenomeni di estraniazione il bisogno di valorizzazione del capitale, il sistema di bisogni imposto dalla divisione del lavoro, il successivo apparire dei bisogni sul mercato, la limitazione dei bisogni deI lavoratore ai” mezzi necessari per la vita” o la manipolazione dei bisogni?) si deve creare la categoria positiva di valore deI “sistema dei bisogni non estraniati,” la cui completa espansione e realizzazione è da noi posta in un futuro, in cui anche l’economia sarà subordinata a questo sistema di bisogni “ umano.”

Prima di esaminare più da vicino la concezione filosofica del bisogno in Marx, osserviamo brevemente quali diverse interpretazioni di questo concetto egli usi. Marx non ci ha lasciato nessuna opera filosofica o economica degna di rilievo in cui non abbia ripetutamente tentato, spesso anche con differenti impostazioni, di classificare i tipi di bisogno. La classificazione è condotta ora dal punto di vista storico-filosofico-antropologico, ora in base alle oggettivazioni attuate dai bisogni e ad essi correlate, ora secondo l’aspetto economico (particolarmente nell’analisi della domanda e dell’offerta) oppure anche tramite l’applicazione, consapevolmente valutativa, della categoria di valore della “ricchezza umana.” Aggiungiamo che in quasi tutte queste specificazioni è contenuto il momento del giudizio di valore, anche quando non è immediatamente usata una categoria di valore come base della classificazione.

Questi diversi punti di vista portano, nella classificazione stessa, ad una certa eterogeneità. Ciò non comporterebbe al cuna difficoltà nella descrizione della posizione marxiana se le diverse prospettive fossero sempre esplicitamente distinte. Spesso però gli stessi “ punti di vista” non sono chiari ed inequivocabili. In particolare non lo sono, perché più di una volta la classificazione è fondata su di un atteggiamento valutativo non consapevole. Inoltre, nella classificazione dei bisogni in sede economica, prevalgono sovente concetti filosofici e, la last but not least, lo status quo della società capitalistica influenza più di una volta la classificazione storico-filosofico-antropologica. Quest’ultima circostanza - e non un mal superato feuerbachismo - è la causa del fatto che Marx non oltrepassa un concetto naturalistico di bisogno, anche se tenta molto spesso di farlo.

É fuori discussione la classificazione dei bisogni in base alle oggettivazioni, cioè in genere rispetto agli oggetti, e in senso lato riguardo alle attività, ai sentimenti e alle passioni. (Che l’oggetto del bisogno e il bisogno stesso siano per Marx sempre correlati, lo vedremo nel corso dell’analisi del concetto filosofico di bisogno). I tipi di bisogno si configurano secondo gli oggetti cui sono diretti, cioè oggetti concernenti attività. La ripartizione marxiana più generale considera in questo senso beni “materiali” e “spirituali,” però si parla anche del bisogno politico, dei bisogni della vita sociale, del bisogno del lavoro (dell’attività). In queste ripartizioni l’atteggiamento valutativo non ha alcuna posizione effettiva. La soddisfazione del bisogno materiale non è solo la condizione di vita basilare dell’uomo, l’affinamento di tali bisogni è piuttosto un segno dell”arricchimento” dell’uomo; si può oggettivare tuttavia anche un “bisogno spirituale”. La valutazione concerne la totalità della struttura del bisogno, e su questo torneremo ancora”[7]

La classificazione storico-filosofico-antropologica si basa su due categorie, quella di ”bisogni naturali” e quella di bisogni “socialmente determinati” (sinonimi dei primi sono talora i “bisogni fisici,” i bisogni” necessari”; ai secondi corrispondono i “bisogni sociali,” almeno in un senso traslato della parola). Ora, Marx come interpreta questi gruppi?

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 scrive: “... l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso.[8]” Il bisogno fisico corrisponde qui a quello biologico, cioè a quei bisogni che sono diretti alla conservazione delle mere condizioni vitali. In questo contesto Marx (nonostante l’apparenza terminologica) si è allontanato, come in numerose opere della maturità, dall’interpretazione naturalistica. Questo accade non tanto dove parla di un contenuto umano-sociale radicalmente nuovo dei bisogni strettamente biologici (contenuto che, prescindendo da alcune formulazioni, in Marx è, anche più tardi, molto chiaro), quanto dove considera la riduzione dei bisogni “umani” a bisogni con contenuto sociale - sia pure di “natura” bio-psicologica - come un prodotto della società capitalistica. È la società borghese che subordina i sensi umani ai” rozzi, pratici bisogni” e rende i bisogni “astratti,” riducendoli ai semplici bisogni della sopravvivenza. Proprio per questo i bisogni diretti alla sopravvivenza non possono formare gruppi autonomi di bisogni, che siano generali da un punto di vista storico-filosofico.

Da un punto di vista economico si rende in seguito necessaria una classificazione che - più o meno modificata, cioè con una differente interpretazione - si ritroverà anche nelle opere della maturità: la distinzione tra bisogni “naturali” e “socialmente determinati.” Come già accennato, il punto di vista economico è una spiegazione della genesi di pluslavoro e plusvalore e della possibilità della loro esistenza. Ciò è anche motivato sia dallo status quo esistente nella società capitalistica come punto d’avvio dell’analisi marxiana, sia dalla scoperta del fatto “sfruttamento” come motivo conduttore della critica al capitalismo.

Dobbiamo ora occuparci dei contesti in cui appaiono queste categorie (ed in ciò sottolineeremo i momenti più importanti). Nei Grundrisse Marx parla della “capacità di consumare” come fonte dei bisogni della società capitalistica e distingue i bisogni “prodotti dalla società” dai bisogni “naturali.[9]” Nella stessa opera riguardo al capitalismo dice: “Ma nella sua incessante tensione verso la forma generale della ricchezza il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo. Il lavoro di questa individualità perciò non si presenta nemmeno più come lavoro, ma come sviluppo integrale dell’attività stessa nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa, perché al bisogno naturale è subentrato un bisogno storicamente prodotto.[10]” E più avanti: “Lusso è l’opposto di naturalmente necessario. Bisogni necessari sono quelli dell’individuo ridotto esso stesso a soggetto naturale. Lo sviluppo dell’industria sopprime questa necessità naturale e al tempo stesso quel lusso - nella società borghese, naturalmente soltanto in maniera antitetica, in quanto essa stessa a sua volta non fa che porre un determinato parametro sociale come quello necessario rispetto al lusso.[11]” Nel Capitale la categoria dei “bisogni naturali” appare tramite la determinazione del valore della forza-lavoro: “I bisogni naturali come nutrimento, vestiario, riscaldamento, alloggio, ecc. sono differenti di volta in volta a seconda delle peculiarità climatiche e delle altre peculiarità naturali dei vari paesi. D’altra parte, il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un prodotto della storia, e dipende quindi in gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e fra l’altro anche, ed essenzialmente, dalle condizioni, e quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori. Dunque la determinazione del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale.[12]” Infine il valore della forza-lavoro è definito nel modo seguente: “Il valore della forza-lavoro è determinato dal valore dei mezzi di sussistenza che per consuetudine sono necessari all’operaio medio.[13]” La classificazione citata appare qui nuovamente. Sulla differenza del valore della forza-lavoro secondo i paesi scrive ancora Marx: “Quindi, paragonando i salari nazionali, bisogna considerare tutti gli elementi che determinano la variazione della grandezza di valore della forza-lavoro: prezzo e volume dei primi bisogni vitali naturali e storicamente sviluppati.[14]” Per quanto riguarda l’analisi della domanda vorrei riferirmi ancora all’affermazione marxiana, secondo cui la produzione materiale è sempre stata il regno della necessità e resterà tale anche nella società dei ”produttori associati.[15]” Con lo sviluppo delle forze produttive “... il regno delle necessità naturali si espande perché si espandono i suoi bisogni.[16]

Da tutto ciò risulta che la categoria dei “bisogni naturali” - almeno dai Grundrisse fino al terzo libro del Capitale - non ha cambiato significato, ma si è invece modificato il concetto di” bisogni necessari.” Analizziamo dapprima il gruppo dei” bisogni naturali.”

I “bisogni naturali” si riferiscono al mero sostentamento della vita umana (autoconservazione) e sono “naturalmente necessari” semplicemente perché, senza soddisfarli, l’uomo non può conservarsi come essere naturale. Questi bisogni non sono identici a quelli animali, perché l’uomo per la propria auto conservazione, necessita anche di certe condizioni (riscaldamento, vestiario) che per l’animale non rappresentano un “bisogno.” Anche i bisogni necessari per il sostentamento dell’uomo come essere naturale sono dunque sociali (è nota l’affermazione dei Grundrisse secondo la quale la fame che si soddisfa con coltello e forchetta è diversa da quella soddisfatta dalla carne cruda): i modi del soddisfacimento rendono sociale il bisogno stesso. Tuttavia l’enunciazione del concetto di ”bisogni naturali” come un “gruppo di bisogni” indipendente, a confronto con il concetto di “bisogni “sociali” o “socialmente prodotti,” è contraddittoria: o, per lo meno, non si può inquadrare coerentemente in questo contesto la teoria del bisogno di Marx. Esaminiamo ora i bisogni come struttura del bisogno (più avanti vedremo che lo fa Marx stesso). Se riteniamo di poter interpretare l’intera struttura dei bisogni solo nella sua correlazione con l’insieme dei rapporti sociali (e lo dimostrerà una citazione dalla Miseria della filosofia), allora dovranno esistere solo bisogni socialmente prodotti e dovranno avere questo carattere anche i “bisogni naturali” (in cui la modalità del soddisfacimento modifica il bisogno stesso).

Secondo Marx, come abbiamo visto, la produzione industriale genera la possibilità di risolvere, sia pure in modo contraddittorio, l’opposizione tra bisogni “naturali” e bisogni “ socialmente prodotti,” già nella società capitalistica, per quanto questo riproduca temporaneamente la contraddizione. Il superamento della contrapposizione tra bisogni “naturali” e “socialmente prodotti” è quindi una conseguenza dell’arretramento dei limiti naturali; l’arretramento dei limiti naturali oggettivi e di quelli soggettivi sono correlati: Marx non distingue tra natura interna ed esterna. Se però, in base a questo geniale pensiero, non è necessario fondare il gruppo indipendente dei “bisogni naturali,” allora anche la natura esterna esiste per l’uomo solo nell’azione reciproca con la società, nel processo della socializzazione, nel ricambio organico tra uomo e natura.

Anche se il gruppo dei “bisogni naturali” non è interpretabile nella complessiva filosofia marxiana, il pensiero che Marx voleva esprimere con la creazione di questo gruppo è comunque plausibile: è con la produzione industriale, con lo sviluppo in senso capitalistico della produttività, che il mantenimento della mera esistenza fisica può cessare, secondo Marx, irrevocabilmente, di essere per l’uomo un problema e un fine a se stante cui conformare l’attività quotidiana; gli uomini non lavorano più solo per riempire il proprio stomaco e quello dei loro figli e per proteggere se stessi e la propria famiglia dalla morte per assideramento.

Lo sviluppo della produzione industriale non offre solo l’occasione di soddisfare ampiamente i ” bisogni naturali,” ma, se possibile, liquida il problema una volta per tutte. Stando ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, è in fondo la società capitalistica che persegue la riduzione a “bisogni fisici,” in altre parole che costituisce il gruppo autonomo dei “bisogni naturali”; invece nelle opere posteriori questo appare come la riproduzione capitalistica dell’opposizione. Non vi è dubbio che in tale spostamento di accento si esprima un rapporto (giudizio) di valore più positivo verso il modo di produzione capitalistico.

Certo, l’istituire un gruppo separato di ”bisogni naturali,” a nostro avviso, non si inserisce in modo organico nella teoria filosofica generale dei bisogni di Marx, né oggi manterremmo in una teoria marxista dei bisogni un tale “gruppo,” che comunque sarebbe in essa pur sempre interpretabile. A nostro avviso i “bisogni naturali” non sono un gruppo di bisogni, ma un concetto limite: limite - differenziabile a seconda delle società - superato il quale la vita umana non è più riproducibile come tale, in altre parole, il limite della semplice esistenza (la morte di fame in massa come in India e in Pakistan esprime proprio questo superamento). Sarebbe puro aristocraticismo - almeno nel nostro mondo - eliminare questo concetto limite dalla discussione sui bisogni. Perciò non parlerei tanto di “bisogni naturali,” quanto di limite esistenziale alla soddisfazione dei bisogni.

È stato già detto che il concetto di “bisogni necessari” si va modificando dai Grundrisse fino al Capitale. Mentre nei Grundrisse esso corrisponde perfettamente a quello di bisogni naturali, nel Capitale viene sottolineata la differenza. I bisogni “necessari” sono i bisogni sorti storicamente e non diretti alla mera sopravvivenza, nei quali l’elemento culturale, quello morale e il costume sono decisivi e il cui soddisfacimento è parte costitutiva della vita “normale” degli uomini appartenenti a una determinata classe di una data società. Chiamiamo “mezzo necessario alla sopravvivenza” in un dato tempo o per una data classe, quanto serve al soddisfacimento dei bisogni (vitali) e dei “bisogni necessari.”

In questa interpretazione il concetto di” bisogni necessari” è oltremodo importante, sebbene sia un concetto descrittivo. Se indaghiamo empiricamente quali bisogni devono essere soddisfatti, affinché i membri di una data società o classe abbiano la sensazione o la convinzione che la loro vita sia “normale” - rispetto a un certo piano della divisione del lavoro - giungiamo al concetto di” bisogni necessari.” La dimensione e il contenuto dei bisogni necessari possono quindi essere diversi secondo le epoche e le classi. Per un lavoratore degli USA valgono oggi “bisogni necessari” diversi da quelli di un lavoratore inglese del tempo di Marx o da quelli di un lavoratore indiano contemporaneo. Anche Marx si pronuncia sui bisogni in questo senso nella Miseria della filosofia, quando registra una contraddizione tra i bisogni e le possibilità del lavoratore. Ciò significa che i bisogni necessari dei lavoratori non possono essere soddisfatti, perché non sono coperti dalla loro domanda solvibile.

Abbiamo già detto che consideriamo la categoria dei “bisogni necessari” come un concetto descrittivo straordinariamente importante, per così dire sociologicamente rilevante. Però il suo contenuto filosofico si dissolve proprio per il carattere descrittivo del concetto. Quando Marx parla dei bisogni necessari” degli operai inglesi del suo tempo, egli intende con ciò non solo i bisogni materiali, ma anche quelli di carattere non materiale, interpretabili con il concetto di ”media.” Figurano tra queste categorie anche l’insegnamento, i libri e l’appartenenza a un sindacato. Ma siccome la soddisfazione di questi bisogni (in un dato tempo e in date circostanze) dipende da mezzi materiali ed è “acquistabile” con denaro (nel caso dell’appartenenza a un sindacato Marx richiede che vi sia un contributo sindacale), essi sono da intendere come “necessari” e la quantità di valore impiegata per la loro soddisfazione include il valore della forza-lavoro. Comunque non appartengono a questa categoria i bisogni individuali, di cui non si può fare una “media,” e particolarmente quelli la cui soddisfazione non è “acquistabile”. Così bisogni omogenei rientrano in categorie diverse (come vedremo, la carne nei bisogni necessari, i carciofi in quelli di lusso), invece bisogni eterogenei nella stessa (il consumo di grappa e il contributo sindacale nei bisogni necessari).

Quando però Marx definisce le caratteristiche dei “bisogni necessari” non empiricamente, ma filosoficamente, giunge dal punto di vista del contenuto a risultati del tutto diversi. Il regno della produzione materiale è - e resta anche nella società dei “produttori associati” - il regno della necessità. In questo senso i “bisogni necessari” sono i bisogni sempre crescenti generatisi nella produzione materiale. Nella società dei” produttori associati” si devono misurare i bisogni materiali (di consumo e di produzione) e distribuire corrispondentemente la forza-lavoro come pure il tempo di lavoro. In questo contesto e in questa interpretazione i bisogni spirituali e morali e quelli diretti alla collettività sono contrapposti ai bisogni necessari. Questi ultimi non saranno fissati - almeno in futuro - dal posto occupato nella divisione del lavoro, perché sono individuali, non si possono esprimere con nessuna media e perché la loro soddisfazione non è acquistabile (tanto più perché non rende denaro). Questi sarebbero quindi i cosiddetti bisogni “liberi,” caratteristica proprio del “regno della libertà.”

Torniamo però brevemente ancora una volta al problema della determinazione naturalistica dei bisogni naturali.” Siccome il bisogno per Marx, come vedremo ancora, è una sorta di correlazione soggetto-oggetto, è ovvio che il problema si ripresenti anche dal punto di vista dell’oggetto (l’oggetto dei bisogni) - cioè dal punto di vista del valore d’uso. L’interpretazione naturalistica dei bisogni presuppone l’interpretazione naturalistica del valore d’uso, altrettanto come il superamento dei primi pone il superamento di quest’ultimo.

Riguardo a questo problema possiamo unicamente indicare una tendenza: accade che Marx entro una stessa opera dia interpretazioni differenti. Nel Capitale il valore d’uso è definito come la “forma naturale” della merce, che esprime la relazione tra il singolo e la natura. (Una definizione analoga si trova già nei manoscritti economici del 1857-58.) Anche nelle Teorie sul plusvalore si incontra una concezione naturalistica simile o ancor più radicale: “Il valore d’uso esprime la relazione naturale fra le cose e gli uomini, l’esistenza delle cose per gli uomini. Il valore di scambio è [.....] l’esistenza sociale della cosa.[17]” Però nello stesso volume si legge quanto segue: “La forma materiale autonoma della ricchezza sparisce, e non appare più che come manifestazione dell’uomo. Tutto ciò che non rappresenta il risultato di un’attività umana, di un lavoro, è natura e come tale non è ricchezza sociale. Il fantasma del mondo delle merci si dilegua, e non appare più che come oggettivazione sempre effimera e rinascente del lavoro umano.[18]

Se ora indaghiamo il modo in cui Marx ha raggruppato i bisogni dal punto di vista economico (secondo le categorie della domanda e dell’offerta) ci allontaniamo, sia pure momentaneamente, dalle concezioni discusse in precedenza. I gruppi di bisogni rispettivamente “necessari” e “di lusso” oppure “veri” e “di lusso” oppure “veri” e “immaginari” non hanno in Marx sempre e incondizionatamente un significato economico.[19] La divisione è però interpretabile univocamente solo mediante categorie economiche anche se per lo più contiene elementi storico-filosofici e mantiene molto spesso accentuazioni valutative. Si pone il problema della possibilità di associare i bisogni o gli oggetti cui sono diretti, in base al loro contenuto e alla loro qualità, con le categorie di necessità o di lusso, oppure se è unicamente - o in primo luogo - la domanda solvibile a decidere se un bisogno e il relativo oggetto sono “di lusso.”

Nella Miseria della filosofia le due soluzioni non sono adeguatamente differenziate. In ogni caso Marx propende per l’interpretazione puramente economica. In polemica con la concezione di Proudhon, secondo la quale gli oggetti più usati sono insieme i più utili e conseguentemente si dovrebbe ad esempio porre la grappa tra i beni di consumo più utili), Marx ritiene che sia la produzione a decidere sul contenuto concreto dei bisogni necessari: quanto maggiore è la forza-lavoro impiegata nella fabbricazione di un articolo, tanto più esso si avvicina al gruppo dei prodotti di lusso. Nella stessa opera compare anche una definizione non-economica che contraddice questa interpretazione. Così scrive Marx: “…..gli oggetti più indispensabili quali il grano, la carne, ecc. aumentano di prezzo mentre il cotone, il caffè, Io zucchero, ecc. diminuiscono di continuo in misura sorprendente. E, anche tra i commestibili propriamente detti, i prodotti di lusso, come i carciofi, gli asparagi, ecc. si trovano oggi a un prezzo relativamente migliore dei commestibili di prima necessità. Ai nostri tempi è più facile produrre il superfluo che il necessario.[20]” Però in questa interpretazione “prodotto di lusso” o “bisogno di lusso” non sono più una categoria economica, ma appaiono come riscontro del concetto sociologico descrittivo di “bisogni necessari” e nella loro definizione giocano un molo determinante gli elementi “morali” e “storici,” la consuetudine ecc. Perciò è bisogno di ‘lusso tutto ciò che per consuetudine non appartiene al sistema dei bisogni della classe operaia. L’interpretazione economica invece considera articolo di lusso quello il cui oggetto (possesso, consumo dell’oggetto) sta fuori dalla capacità di acquisto della classe operaia. In questo ultimo senso non si può quindi dire che i prodotti di lusso subiscano una diminuzione di prezzo, tale da poter essere considerati a buon mercato, ma solo che il prodotto meno caro di altri di simile destinazione (ad es. i commestibili) non è più un prodotto di lusso. (Si può mostrare con esempi che questo è avvenuto de facto: oggi zucchero e carciofi non sono assolutamente beni di lusso).

Problemi simili si pongono in relazione alla stessa classificazione nel secondo libro del Capitale, dove i beni di consumo vengono suddivisi nel modo seguente: 1) “... mezzi di consumo necessari, dove è del tutto indifferente se un prodotto, come ad es. il tabacco, dal punto di vista fisiologico sia o no un mezzo necessario di consumo; è sufficiente che lo sia per consuetudine”; e 2) “mezzi di consumo di lusso, che entrano solo nel consumo della classe capitalistica, e possono quindi essere scambiati soltanto contro l’esborso di plusvalore, che non tocca mai all’operaio.[21]“ Io credo che questa sia l’unica interpretazione di rilievo ai fini della determinazione dei prodotti e dei bisogni di lusso, di volta in volta applicata concretamente in situazioni specifiche.

Nessun prodotto o bisogno concreto possiede la proprietà di essere un prodotto o un bisogno di lusso. Ciò è determinato unicamente dal fatto che l’oggetto è posseduto o usato (e quindi è soddisfatto il corrispondente bisogno) dalla maggioranza della popolazione oppure solo da quella minoranza che rappresenta un livello più alto di potere d’acquisto, e ciò in seguito alla di visione sociale del lavoro. In seguito alla crescente produttività, come anche in seguito ai cambiamenti della struttura sociale, bisogni originariamente di lusso diventano bisogni necessari, senza alcuna modifica del loro aspetto qualitativo. (Può egualmente accadere il contrario. Già Marx ha notato che all’inizio del processo di riproduzione capitalistica in Inghilterra alcuni bisogni divennero bisogni di lusso.) Perciò io accetto questa concezione marxiana e penso si possa interpretare la categoria dei “bisogni di lusso” solo in senso economico.

A questo problema non viene fatto riferimento qui, ma in esposizioni più tarde. Sulla fase di prosperity del capitalismo, Marx scrive quanto segue: “... la classe operaia […] partecipa anche momentaneamente al consumo di articoli di lusso, che in generale le sono inaccessibili [22]“ Tuttavia non appena la classe operaia presenta la domanda solvibile, questa non soddisfa “bisogni di lusso”: in accordo con quanto detto, tali bisogni cessano di essere di lusso. Questa ambivalenza del concetto di “prodotto di lusso” e di “bisogno di lusso” non è in contrasto con la concezione generale di Marx, secondo la quale l’intera popolazione può usufruire di tali” bisogni di lusso” solo in periodi eccezionali e brevi. Alla prosperità segue la crisi: gli stessi articoli (e la soddisfazione dei relativi bisogni) sono nuovamente irraggiungibili. Sulla scorta delle esperienze dello sviluppo capitalistico si potrebbe piuttosto dire (cosa che del resto Marx ha sempre sostenuto) che ogni società fondata sulla divisione sociale del lavoro riproduce questi specifici gruppi economici di bisogni (i bisogni necessari e di lusso). Solo la società dei “produttori associati” può superare questa opposizione, non solo perché i cosiddetti “bisogni di lusso” cessano di esistere, ma anche perché si cambia il sistema dei “bisogni necessari,” dando il via al dispiegarsi dei “liberi bisogni” individuali. Noi contestiamo unicamente che i “bisogni di lusso” siano definibili secondo il loro contenuto e la loro qualità, e che i bisogni in generale possano essere suddivisi in “bisogni necessari” e di “lusso” in base alla loro qualità o quantità concreta.

Determinate categorie con carattere specificamente valutativo appaiono anche nei gruppi trattati prima. Per quanto Marx abbia scritto anche sui valori d’uso “reali” e “immaginari,[23]la tendenza principale è comunque l’eliminazione delle categorie valutative. Tuttavia base e metro di qualunque raggruppamento o classificazione è il bisogno come categoria di valore.

Per Marx in questo caso, come pure in altre occasioni, la categoria di valore più importante è la ricchezza; ciò costituisce anche una critica dell’uso che l’economia politica classica faceva della categoria “ricchezza,” identificandola con la ricchezza materiale. Per Marx il presupposto della ricchezza “umana” è solo la base per il libero sfogo di tutte le capacità e i sensi umani, cioè per l’esplicazione della libera e molteplice attività di ogni individuo. Il bisogno come categoria di valore non è altro che il bisogno di questa ricchezza. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 scrive: “Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l’economia politica, subentri l’uomo ricco e la ricchezza di bisogni umani. L’uomo ricco è ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane …”[24] E più avanti: “... la proprietà privata non sa fare del bisogno grossolano un bisogno umano….”[25] Marx respinge la società della proprietà, privata e capitalistica, partendo dal valore del “bisogno umano ricco.” Essa è incapace di trasformare i “rozzi bisogni” in “bisogni umani ricchi,” nonostante la quantità di ricchezza materiale che produce.

L’elaborazione della categoria di valore “bisogno” è opera del giovane Marx. Nella maturità questa categoria è già data come nozione primitiva, tanto che egli non ritiene necessario analizzarla nuovamente, pur ricorrendovi spesso in modo specifico. Ci rifacciamo alla citazione in cui Marx contrappone i bisogni di valorizzazione del capitale ai “bisogni di sviluppo” dell’operaio, oppure, in modo ancor più determinante, al concetto di bisogni radicali che funge anche da categoria di valore (torneremo più tardi sui ruolo chiave che questo concetto gioca nella teoria marxiana).

Ma questi concetti di valore “puri” si ritrovano spesso anche come conclusione della critica del capitalismo. “Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo conveniente ed umano la massa della popolazione.[26]

È però superfluo riprendere gli esempi delle categorie di valore pure per dimostrare che ogni giudizio riguardante i bisogni è misurato sulla base del valore positivo dei “bisogni umani ricchi.” Che cos’altro serviva a Marx come fondamento per respingere la divisione in bisogni di lusso e bisogni “necessari?” Come altrimenti poteva rifiutare una società che da un lato crea ricchezza, dall’altro povertà? In base a quale altro criterio si potrebbe condannare una struttura economica, se non perché la sua dinamica è motivata dai bisogni di valorizzazione del capitale e non dai bisogni di sviluppo dell’operaio? Da quale altro punto Marx potrebbe partire per contrapporre al regno della produzione materiale, come regno della necessità, un altro regno, quello della libera manifestazione di sé, della libertà? Come altrimenti potrebbe tenere in tanta considerazione, in un modello positivo del futuro, l’assurgere del lavoro a bisogno vitale e il tempo libero destinato ad attività multiformi, commisurandolo con la ricchezza reale della società? Come altrimenti potrebbe affermare la positività della proprietà individuale che si concreta col dileguare della proprietà privata, e la ripartizione dei beni secondo bisogni individuali? Con sguardo acuto Bernstein si avvide dell’atteggiamento “valutativo” di Marx e cercò di separarlo dall’analisi economica della società capitalistica - quando invece i due aspetti sono inscindibili. Senza premesse di valore Marx sarebbe un critico immanente del capitalismo e senza un’indagine immanente del capitalismo sarebbe un anticapitalista romantico.

NOTE

[1] Estratto da “La teoria dei bisogni” di Ágnes Heller
[2] MARX, Il capitale, 7 ed., Editori Riuniti, 1972, libro I (1), p. 47.
[3] Ivi, libro I (3), p. 69.
[4] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 1970, p. 130.
[5] Ivi, p. 142. La valutazione negativa è inequivocabile: si riferisce all’imperativo kantiano secondo il quale l’uomo non deve essere, per l’uomo, semplicemente un meno.
[6] Cfr Il capitale, cit., libro I (1), p. 59.
[7] In singoli passi di Marx si scorge naturalmente un’accentuazione in una o nell’altra direzione, ma questa è pur sempre funzionale all’esame del problema e non permette di trarre conseguenze rispetto alla totalità della sua concezione.
[8] MARX. Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 78.
[9] MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1 ed., La Nuova Italia, 1968, vol. 1, p. 18.
[10] Ivi, vol. I, pp. 317-318.
[11] Ivi, vol, l, pp. 165-166.
[12] MARX, Il Capitale, cit., libro I (1), p. 188.
[13] Ivi, libro I (2), p. 233.
[14] Ivi , libro I (2), p. 279.
[15] Cfr. Ivi., libro III (3), pp. 230-231.
[16] Ivi, libro III (3), p. 232.
[17] MARX, Storia delle teorie economiche, Einaudi, 1954, voI. III p. 321.
[18] Ivi, vol. III p. 446.
[19] La coppia “bisogni naturali-bisogni di lusso” appare solo nei Grundrisse, dove Marx non distingue ancora i primi dai “bisogni necessari”
[20] MARX, Miseria della filosofia, 3 ed., Editori Riuniti, 1971, p. 55.
[21] MARX, Il capitale cit., libro II(2), p. 69.
[22] Ivi, libro II (2), p. 69.
[23] Cfr. MARX, Teorie sul plusvalore, tr. it di G. Giorgetti, 2 ed., Editori Riuniti, 1971, p. 279.
[24] MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 123
[25] Ivi, p. 128.
[26] MARX, Il capitale, cit. libro 1 (1), pp. 314 - 315.

qui un'intervista a heller

Agnes Heller

Hanno ucciso la mia paura

Quando arriva all'intervista, alla Fondazione Arturo Paoli a Lucca, poco prima della presentazione del suo ultimo libro I miei occhi hanno visto (15 euro, edito da Il Margine e scritto insieme a Luca Bizzarri e Francesco Comina), Ágnes Heller, 83 anni, ha l'incedere di una forza della natura. Non a caso, quando non insegna filosofia alla New School di New York, la potete trovare a passeggio nei boschi ungheresi o a nuotare nel lago Balaton, finché l'acqua non scende sotto i 18 gradi.
Questa è Ágnes Heller, esponente di spicco di quel gruppo di filosofi ungheresi di stampo socialista ma anti sovietici che nel secondo dopoguerra faceva capo a Lukács e che fu soprannominato Scuola di Budapest. Ágnes oggi è libertà allo stato puro. Imprigionata a 15 anni nel ghetto ebraico di Budapest, perso il padre ad Auschwitz, conobbe la persecuzione anche sotto il regime sovietico: cimici in casa, auto che la seguivano ovunque andasse, divieto di pubblicare e di lavorare, Ágnes, 2 matrimoni e 2 figli, non morì di fame solo grazie alla generosità di intellettuali dell'Europa occidentale. Poi la cattedra a Melbourne, nel '73, e una nuova vita, che la portò fino a New York, dove è ancora oggi una degli insegnanti più prestigiosi alla New School. L'intervista parte con una buona dose di disagio:

Lei scrive che i filosofi non sono abituati a comunicare con le interviste e che Heidegger ne rilasciò una sola, pubblicata postuma per sua volontà.
È un nuovo fenomeno. Ho il sospetto che i discorsi tramite intervista si diffonderanno perché è più facile per un giornalista fare un'intervista piuttosto che scrivere un saggio su qualcosa. Così mi sto abituando a fare le interviste.

Dichiara anche che non possiamo essere sicuri che il capitalismo non venga superato. Secondo lei c'entrano l'emergenza ambientale e la ricerca di un nuovo stile di vita?
Non abbiamo alcuna idea se il capitalismo sarà superato. Potrebbe venire abbandonato in seguito a una totale catastrofe del mondo. Niente dura per sempre, neppure noi del resto. Ma dopo di noi, se qualsiasi cosa venisse dopo di noi, non ne avremmo idea.

È esilarante l'episodio che racconta nel suo ultimo libro sull'invito ricevuto da Inge Feltrinelli negli anni '70.
Quella è storia. E l'ho trovata estremamente divertente. Stavamo seduti intorno alla piscina e il cameriere andava di persona in persona ad offrire cold drinks: Campari, Gin Tonic, Soda. E nel frattempo madame Feltrinelli in piscina discuteva della possibilità di una rivoluzione comunista mondiale. L'ho trovato estremamente comico. Era davvero una specie di commedia.

Un anno fa al Parlamento europeo ha denunciato la minaccia di libertà nel suo Paese, l'Ungheria. Disse: “Nei Paesi democratici i media controllano il governo, mentre in Ungheria il governo ha approvato una legge che gli permette di controllare i media”. In Italia accade lo stesso con la tv pubblica, per non parlare dei canali privati. L'Italia non è un Paese democratico secondo lei?
Non posso parlare dell'Italia. Penso che sia una cattiva abitudine parlare di un Paese che visiti una volta all'anno. Non pretendo di sapere tutto meglio delle persone che ci vivono.

CORAGGIO E LIBERTÀ

Invecchiare l'ha resa più coraggiosa?
Guarda, la domanda è: chi è coraggioso? Coraggiosa può essere una persona che sente la paura, che fa qualcosa nonostante ne abbia paura. Quello è coraggio. Sotto questo aspetto io non sono coraggiosa. Perché quando avevo 15 anni durante l'olocausto hanno ucciso la mia paura. Non potevo più provare paura. E se non hai paura, non controlli te stesso, semplicemente perché non hai paura. Quindi io non sono coraggiosa. Le persone credono che lo sia, ma so di non esserlo.

Lo stesso giorno che i tedeschi entrarono a Budapest lei voleva andare a un concerto di Stravinskij e, contro il parere di sua madre, suo padre la mandò. Quella fu la sua più grande lezione di libertà?
Lui credeva davvero che quella per me potesse essere l'ultima occasione per andare a un concerto perché quando arrivarono i tedeschi per me c'era la pena capitale. La domanda non era: “Sarò uccisa?”, ma “Quando sarò uccisa? Quanti mesi vivrò?”. Quindi fu una fortuna se ero viva, era un'eccezione. A quel tempo rimanere vivi era un caso. Sono rimasta viva per sbaglio.

E il fatto che suo padre le disse di andare al concerto fu una lezione di libertà per lei?
Cosa intendi per libertà?

Libertà umana: finché sei vivo, devi condurre un'esistenza normale.
È bellissimo quello che hai detto ma non mi sono mai sentita libera a quel tempo. Mi sentivo sotto pressione. Sotto pressione puoi ancora trovare piccole possibilità di libertà ma quella non è la libertà con la L maiuscola.

Lei ha scritto un libro per elogiare la bontà (La bellezza della persona buona, 2009, ed. Diabasis, 10 euro). Pensa che le persone cattive siano un po' più stupide delle persone buone?
No, non penso. La stupidità è un concetto molto generale. Le persone possono essere chiuse di mente, possono essere lente nel pensiero, lente nella comprensione, perché non la esercitano. E poi abbiamo persone che hanno un QI più basso non perché hanno avuto una cattiva istruzione ma in quanto hanno questo tipo di formazione genetica. Non penso però che abbia a che vedere con la bontà o la cattiveria, per niente.

Esiste l'amicizia totale o gli amici sono a compartimenti stagni, cioè hanno limiti di dedizione nei nostri confronti?
Ci sono diversi tipi di amicizie. Io distinguo tra amici e amici stretti. L'amicizia stretta è sempre un impegno: non puoi avere un amico stretto se tu sei amico di qualcuno e quello non è amico tuo. Se hai un amico stretto hai fiducia incondizionata nell'altro e viceversa e questo tipo di amicizia si accompagna all'amore, a quel tipo di amore che può forse avere anche una dimensione erotica, sebbene non una dimensione sessuale. L'amicizia che non è amicizia stretta è qualcosa di diverso. Siamo amici perché siamo coinvolti nelle stesse cose, abbiamo interessi comuni, ci sentiamo molto vicini l'un l'altro ma non è lo stesso tipo di impegno assoluto che esiste nell'amicizia stretta.

Lei parla di relazioni diseguali da superare per soddisfare i bisogni radicali. Quali sono queste relazioni da superare?
Relazioni asimmetriche, di subordinazione, che devono sempre essere superate: è la relazione padrone-schiavo, quando il padrone non può rivolgersi allo schiavo nello stesso modo in cui lo schiavo può rivolgersi al padrone e viceversa. In certi casi l'uomo non può relazionarsi alla donna nello stesso modo in cui ella si rivolge a lui. Ci sono rapporti asimmetrici che non possono interamente essere superati, come quello tra il genitore e il bambino piccolo. Ma devi provare e dopo un po' trasformare la relazione asimmetrica in un rapporto simmetrico.

DONNE E POTERE

Scrive che la rappresentanza delle donne a livello politico è qualcosa di rivoluzionario e che non è compiuto, ma deve ancora mostrare il suo potere e il suo impatto. Quale sarà l'impatto culturale e politico?
Lo sviluppo della rappresentanza delle donne nella società è forse la più grande rivoluzione degli ultimi 2000 anni, dopo la cristianità e forse l'Illuminismo... ma in effetti appartiene all'illuminismo. Grazie a questa rivoluzione, decade per decade e secolo per secolo, siamo entrati di un passo in un nuovo territorio. All'inizio ci fu la lotta per l'emancipazione, per essere davvero parte della cittadinanza, il diritto a votare: se ciò fosse stato fatto, avrebbe seguito l'uguaglianza economica. Questo non è stato ottenuto interamente, ma alcuni lo hanno accettato. Poi c'è stata la liberazione sessuale e la liberazione per ottenere la stessa istruzione rispetto agli uomini. Ci sono ancora cose da fare, specialmente nella dipendenza dagli uomini: c'è ancora moltissima dipendenza sessuale. Ti faccio un esempio: quando chiedi alle donne chi vogliono sposare, loro credono ancora che l'uomo che sposano debba essere un po' avanti a loro, sopra di loro: devono guardare in alto all'uomo. Fin tanto che devi guardare in alto verso l'uomo non sei libera. Perché dobbiamo essere uguali, dobbiamo essere la destra e la sinistra, non il sopra e il sotto: è un'assurdità che l'amore sia legato al guardare in alto verso qualcosa! Fin tanto che questo esiste, c'è un importantissimo passo per la liberazione da fare. Anche il fatto che l'uomo deve essere un po' più vecchio della donna: anche quello è stupido! L'uomo può avere anche 20 anni in meno di noi: se una donna può essere più giovane di un uomo, allora può valere anche l'opposto. Sono tutte abitudini sessuali, tradizioni sessuali che dobbiamo superare. Ma ho detto molte volte che gli uomini nel nostro mondo sono in uno stato di crisi perché non sanno quale sia la loro posizione nella società, non sanno chi sono e un sacco di temi politici derivano da questa incertezza degli uomini nell'identità. Hai visto la campagna elettorale delle presidenziali americane del partito repubblicano. Non intendo Romney, ma tutti gli altri contendenti. I loro argomenti erano l'antifemminismo, quello era il tema principale, perché volevano strizzare l'occhio agli uomini: “Redimi la tua posizione, sii quello che porta il pane a casa, il capofamiglia, così poi sai chi sei. Adesso non sai più chi sei”. Ci vorrà molto tempo prima che riusciamo a portare a compimento lo sviluppo di questi temi.

Cosa intende quando si definisce una ottimista pratica?
È una buona domanda ma difficile. Un ottimista è un tipo di persona che pensa che il mondo andrà sempre meglio. Io non sono così. Ma se sono coinvolta e impegnata a fare qualcosa allora ho la convinzione che fintanto che sono coinvolta posso riuscirci. Pensa se combatti una battaglia: devi credere nella possibilità di vincerla. Non puoi cominciare una battaglia con la convinzione che la perderai. Questo è ottimismo pratico.

Questo è quello che intende quando dice che dobbiamo muoverci un passo verso l'utopia?
Questa è un'altra questione. Ci sono diversi tipi di utopia, positiva e negativa, come l'apocalisse e la fine del mondo. L'utopia positiva è un concetto che spesso viene legato alla pace eterna: questa è un tipo di immagine che è poesia, non è un'utopia politica. È un'utopia poetica. Fin tanto che ci saranno utopie politiche nell'agenda politica, potrai fare qualcosa politicamente.

a cura di Ilaria Lonigro, la Repubblica, 18.09.2012