piccolo dizionario marxista

accumulazione


I l capitale
è la maggiore e più importante opera del filosofo ed economista tedesco Karl Marx.
È un'opera complessa e poderosa che affronta diversi temi e problemi, tutte parti, tuttavia, del suo oggetto d'indagine principale: il modo di produzione e distribuzione capitalistico.
L'opera è divisa in tre libri, di cui solo il primo però fu dato alle stampe, ad Amburgo nel 1867, dallo stesso Marx. I Libri II e III furono invece pubblicati postumi, sulla base dei manoscritti originali, da Engels, rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Appartiene al corpus del Capitale, in verità, anche tutto il materiale di storia e critica delle teorie del valore che, nelle intenzioni di Marx, avrebbe dovuto costituire il IV Libro del Capitale. Esso, tuttavia, pubblicato da Kautsky tra il 1905 e il 1910 in tre volumi sotto il titolo di Theorien über den Mehrwert (Teorie sul plusvalore) ha avuto una storia editoriale autonoma da quella del Capitale. Trascurando, perché non più adoperate, le edizioni ottocentesche del I Libro e quella del II edita da Corticelli a Milano nel 1946, del Capitale in Italia sono disponibili due edizioni: quella degli Editori Riuniti, comparsa per la prima volta tra il 1951 e il 1956, che si avvale delle traduzioni di Delio Cantimori per il I Libro, Raniero Panzieri per il II, e Maria Luisa Boggeri per il III, e quella della casa editrice Newton Compton, pubblicata nel 1969 per la cura e la traduzione di Eugenio Sbardella.
Riassumere il contenuto del Capitale è opera non facile e, per definizione, quasi irrealizzabile. Ciò che segue è solo l'esposizione, la più sintetica possibile, dei suoi capisaldi e delle sue strutture teoriche più generali. Estremamente ricco ed impegnativo si presenta il I Libro, "Il processo di produzione del capitale", in cui Marx ha inteso esporre le categorie basilari della struttura sociale capitalistica, quelle categorie che ne rappresentano il nòcciolo e il fondamento.
Preso atto che la forma elementare in cui si presenta la ricchezza nella società capitalistica è la singola merce, Marx ne analizza le determinazioni teoriche: la merce è unità di valore d'uso e valore, e cioè è, nello stesso tempo, oggetto delle specifiche qualità sensibili e cristallizzazione del dispendio di forza-lavoro umana indistinta, ossia risultato di erogazione di energia fisica ed intellettuale senza riguardo per la forma e le modalità con le quali questa erogazione avviene.
Il valore di una merce è costituito, per Marx, dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. Essendo il valore qualità comune a tutte le merci, diversamente dal valore d'uso che è proprio solo di ogni singola merce, esso permette alle merci di scambiarsi vicendevolmente in modo quantitativamente proporzionato alla spesa di energia lavorativa oggettivata in ciascuna di esse. Questa proprietà delle merci è ciò che, per Marx, sta alla base della genesi del denaro, particolarissima merce che è, nello stesso tempo, l'equivalente universale di tutto il restante mondo delle merci.
Il denaro svolge, secondo Marx, essenzialmente, tre funzioni: è misura dei valori, poiché fornisce alle merci il materiale attraverso il quale esse possono rappresentarsi come grandezze quantitativamente comparabili; è mezzo di circolazione, giacché permette l'acquisto e la vendita delle merci; è rappresentante materiale della ricchezza, in quanto unico modo di esistenza adeguato del valore in quanto tale.
Terminata l'analisi della merce e del denaro, Marx passa ad analizzare i diversi momenti dell'accumulazione capitalistica, che è una particolare e specificamente determinata forma di accumulazione di denaro. Quest'ultima non può realizzarsi, per Marx, attraverso lo scambio, mediato dal denaro, di una merce contro un'altra merce. Due merci si scambiano, infatti, osserva Marx, solo se hanno un valore eguale. Marx ipotizza, quindi, che l'accumulazione capitalistica si realizzi attraverso l'acquisto di una merce che vale di più di quanto venga pagata. Questa merce è la forza-lavoro degli operai salariati.
La differenza fra il valore prodotto dal lavoratore nel processo produttivo e il valore del salario ricevuto dallo stesso lavoratore è ciò che Marx chiama plusvalore, "incremento eccedente sul valore originario" della forza-lavoro espresso dal salario. Una volta acquisito il plusvalore, il capitalista lo reinveste nell'acquisto di nuovi mezzi di produzione e nell'assunzione di nuovi operai.
È questo il meccanismo di espansione del capitalismo che Marx chiama riproduzione allargata del capitale. Individuato il plusvalore come il principio motore del processo di accumulazione capitalistica, Marx passa ad esaminare le due forme in cui esso si manifesta: come plusvalore assoluto, attraverso l'allungamento della giornata lavorativa, e come plusvalore relativo, attraverso la riduzione, ottenuta con l'introduzione di tecnologie più sofisticate, del tempo necessario a produrre una merce; fermo restando, infatti, il tempo della giornata lavorativa di un operaio, se occorre meno tempo a produrre una merce, allora occorre meno tempo per produrre quelle merci di cui ha bisogno l'operaio per riprodursi. In questo modo l'operaio impiega meno tempo per guadagnare il salario necessario alla riproduzione della sua vita e, quindi, si libera un tempo supplementare per la produzione delle merci.
Marx àncora poi l'analisi del plusvalore assoluto e relativo all'analisi del passaggio della produzione capitalistica dalla sua fase manifatturiera al macchinismo e alla grande industria. Conclusa la parte dedicata allo studio del plusvalore assoluto e relativo, Marx passa ad analizzare la categoria e le varie formule del saggio del plusvalore, esprimente il tasso di sfruttamento esercitato sulla forza-lavoro.
La trattazione del salario apre la parte finale del I libro, il cui oggetto principale è la descrizione dell'insieme dei fenomeni legati al processo di accumulazione del capitale. Si va dalla disamina del problema dell'accumulazione originaria all'evidenziazione della contraddizione fra produzione e distribuzione, dalla rilevazione dei meccanismi di generazione della sovrappopolazione all'introduzione del problema delle crisi periodiche del capitalismo.
Il II Libro, "Il processo di circolazione del capitale", ha come suo oggetto principale le diverse forme assunte dal capitale nel suo ciclo di riproduzione. Il problema, i cui primi elementi sono già abbozzati nel I Libro, viene trattato in relazione alla distinzione fra capitale fisso e capitale circolante, cioè fra capitale che si consuma solo parzialmente, e cede quindi solo una parte del suo valore, nel processo di produzione (le macchine) e capitale che invece nel processo di produzione si consuma integralmente, e cede tutto il suo valore (materie prime e forza-lavoro).
Esaminata questa distinzione anche alla luce delle teorie economiche, quelle dei fisiocratici, di Smith e di Ricardo, che per prime l'avevano introdotta, Marx passa ad analizzare prima la circolazione e la riproduzione dei capitali individuali e poi le fasi di riproduzione e di circolazione del capitale sociale complessivo, di cui i capitali individuali sono nient'altro che le parti costitutive. La terza ed ultima sezione del Libro indaga le dinamiche della riproduzione semplice (la riproduzione del processo produttivo senza che il plusvalore ogni volta ottenuto venga reinvestito nella produzione) e quelle della riproduzione allargata (la riproduzione del processo produttivo su una base ampliata dal continuo reinvestimento di parti o di tutto il plusvalore), avvalendosi, tuttavia, delle categorie, già esposte nel I Libro e introdotte per la prima volta da Marx nel pensiero economico, di capitale costante (macchine, materie prime etc.) e di capitale variabile (salari).
Il capitale costante è quella parte del capitale che convertendosi in mezzi di produzione (macchine, materie prime etc.) non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione mentre il capitale variabile è quella parte del capitale che convertendosi in forza-lavoro (salari) cambia il proprio valore nel processo di produzione, ossia riproduce il valore dei salari e inoltre produce un'eccedenza, il plusvalore.
Il III Libro è più direttamente interessato degli altri due agli aspetti empirici e di superficie della società capitalistica. Esso tratta, in particolare, della categoria di profitto e dei suoi molteplici aspetti e forme. Il profitto è, secondo Marx, una forma mutata del plusvalore, il guadagno del capitalista visto in relazione però non solo alla forza-lavoro impiegata, ma al capitale totale impiegato, costituito sia dai mezzi di produzione che dalla forza-lavoro. La categoria di prezzo di costo riunisce la spesa complessiva che il capitalista ha dovuto compiere per dotarsi dei fattori oggettivi, mezzi di produzione, e soggettivi, forza-lavoro, necessari al processo produttivo. La categoria di saggio di profitto esprime invece il rapporto tra il plusvalore e il capitale totale impiegato; rapporto che varia tra impresa e impresa, poiché in ogni impresa è differente la proporzione che all'interno del capitale totale impiegato si stabilisce tra la spesa in mezzi di produzione e la spesa in forza-lavoro. La proporzione tra spesa in mezzi di produzione e spesa in forza-lavoro è ciò che Marx chiama composizione organica di capitale. Essendo dunque in ogni impresa diversa la composizione organica di capitale è diverso in ogni impresa anche il saggio di profitto. La categoria di profitto medio è il risultato, ottenuto in virtù dell'azione della concorrenza, della media fra i saggi di profitto di tutte le imprese. Il prezzo di produzione di una merce è dato dalla somma fra il suo prezzo di costo e il profitto medio. Le categorie di saggio di profitto e di profitto medio sono le premesse necessarie all'enunciazione della celebre legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, esprimente il fatto che l'aumento di produttività, che caratterizza il modo di produzione capitalistico, non può essere realizzato che con la sostituzione di forza-lavoro con tecnologia. Ma sostituendo forza-lavoro, si ricordino le premesse della teoria del valore, si riduce il plusvalore; riducendosi, però, il plusvalore si riduce anche il saggio di profitto. Per opporsi a questo movimento di riduzione del saggio di profitto è allora necessario, secondo l'analisi di Marx, aumentare il saggio del plusvalore, e cioè il grado di sfruttamento della forza-lavoro.
La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è, per Marx, alla radice delle ricorrenti crisi che funestano il modo di produzione capitalistico. Concluso l'esame di questa legge, Marx prosegue l'analisi delle diverse forme in cui si divide il profitto. Esso si spartisce innanzitutto in interesse e guadagno d'imprenditore, e cioè nella remunerazione dovuta a chi, in generale il banchiere, ha prestato all'industriale il capitale iniziale per avviare la sua impresa e nella remunerazione acquisita dall'industriale stesso.
Questo dà modo a Marx di porre la distinzione fra capitale monetario e capitale industriale - ossia fra capitale esistente sempre in forma di denaro, detenuto dalle banche, e capitale esistente in mezzi di produzione e forza-lavoro - e di esaminare, quindi, la loro rispettiva incidenza nel generale processo di accumulazione capitalistica. Da questa analisi consegue l'ulteriore suddivisione del profitto in profitto industriale, commerciale, bancario, di interesse e, infine, in rendita fondiaria, che Marx ritiene in ambito capitalistico sdoppiarsi in rendita assoluta e rendita differenziale, e cioè in rendita costituita dall'eccedenza sulla parte del plusvalore della merce agricola che è misurata dal profitto medio e in rendita ottenuta in proporzione alla quantità di investimenti terrieri effettuati e alla diversa fertilità dei diversi appezzamenti di terreno. Il profilo unitario degli argomenti trattati in tutti e tre i libri appare bene nell'ultima sezione, rimasta interrotta, del III Libro in cui l'analisi della formula trinitaria del processo di produzione capitalistico, capitale-profitto, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, permette a Marx di indicare negli operai salariati, nei capitalisti e nei proprietari fondiari le tre grandi classi fondamentali della società capitalistica moderna.

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SULL'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

Nel cap. XXIV del I libro del Capitale, ad un certo punto si ha l'impressione di finire in un circolo vizioso, poiché da un lato appare chiaro che il plusvalore non può essere che il risultato di un processo di produzione precedente, dall'altro non è meno evidente che tale processo è possibile solo perché esiste un plusvalore suscettibile d'essere capitalizzato. Marx in pratica risolve la tautologia lasciando capire che il modo di produzione capitalistico s'è formato combinando degli elementi strutturali che prima giacevano separati.

Tuttavia questo non spiega affatto perché tale combinazione sia potuta avvenire proprio nel XVI sec. e non prima, visto e considerato che il capitale commerciale e quello usuraio sono sempre esistiti.

Se non si vanno a ricercare le ragioni della “combinazione” degli elementi nell'ambito della sovrastruttura, il marxismo sarà costretto ad affermare che il capitalismo è nato nel XVI sec., ovvero non è nato nei secoli precedenti, solo per un puro caso: il che contraddice nettamente la tesi di un passaggio “naturale”, inevitabile, da una formazione sociale all'altra.

Marx insomma pur avendo intuito il nesso tra ideologia religiosa ed economia borghese (sia nel senso che il protestantesimo riflette le esigenze del capitalismo, sia nel senso che il capitalismo contiene, in forma laicizzata, alcune leggi di tipo religioso: si veda ad es. il feticismo delle merci), non ha poi sviluppato con coerenza questa intuizione portandola alle sue estreme conseguenze, le quali appunto sono che è l'uomo a fare l'economia, in ultima istanza: l'uomo con i suoi rapporti sociali, con i suoi pensieri, con il suo rapporto con l'ambiente... Quando il marxismo dice che l'essere sociale è superiore alla coscienza non può restringere il campo ontologico a quello economico.

Benché l'uomo nasca in una formazione sociale che lo precede, ad un certo punto deve decidere se accettare le fondamenta di tale formazione o se lottare per distruggerle. Questa possibilità è a disposizione di ogni essere umano della storia. I fatti, in tal senso, hanno dimostrato che l'uomo di religione protestante, situato nell'Europa occidentale, ha deciso che le fondamenta della società feudale andavano distrutte o comunque ha deciso che l'ideologia religiosa del cattolicesimo-romano andava profondamente modificata - il che portava ad accettare meglio l'opera di distruzione del feudalesimo.

A questo punto iniziano due storie separate: quella delle intenzioni e quella dei fatti. Nel distruggere il feudalesimo l'intenzione del protestante europeo probabilmente non era quella di creare il capitalismo (altrimenti esso sarebbe nato anzitutto nella Germania di Lutero), o comunque non era quella di creare un capitalismo con tutte le sue terribili contraddizioni antagonistiche, ma nei fatti (cioè indipendentemente dalla sua volontà) è avvenuto proprio così (anche la Germania, in questo senso, ha dovuto adeguarsi e l'averlo fatto per ultima le comporterà dei problemi eccezionali, per la soluzione dei quali sarà costretta a far scoppiare due guerre mondiali).

Se dunque esiste un momento in cui il soggetto non può essere considerato negativamente responsabile, durante il periodo dell'accumulazione originaria, questo momento non va individuato allorché il soggetto si staccò dal feudalesimo o dalla religione cattolica in crisi, ma quando, nel tentativo di costruire un'alternativa, tale soggetto non cercò delle soluzioni convincenti (valide per tutta la collettività) ma delle soluzioni parziali (valide solo per poche categorie di persone). Sia il capitalismo che il protestantesimo sono infatti il frutto di una scelta a favore del singolo individuo, contro gli interessi dell'intera società.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che se ci fu una qualche responsabilità, essa va ricollegata solo al momento genetico del capitalismo, poiché di fronte alle sue contraddizioni l'uomo deve sempre decidere se accettarle o contrastarle. E non è neppure il caso di dire che quanto più il capitalismo diventa maturo tanto meno è possibile combatterlo, poiché ad ogni azione o trasformazione del capitale corrisponde, in genere, una reazione positiva del mondo del lavoro.

Come noto, il marxismo cadde nell'errore opposto, quello secondo cui più il capitalismo è maturo e più è facile superarlo. La svista dipese sempre dal fatto che s'interpretava il concetto di transizione come un processo naturale e inevitabile. Anche in questo caso però non si fa alcun affidamento al concetto di responsabilità personale.

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In Miseria della filosofia Marx dice: "Una delle condizioni più indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era l'accumulazione dei capitali, facilitata dalla scoperta dell'America e dall'introduzione dei suoi metalli preziosi... e dall'aumento delle merci messe in circolazione dal momento in cui il commercio penetrò nelle Indie orientali per la via del Capo di Buona Speranza, dal regime coloniale, dallo sviluppo del commercio marittimo... dal licenziamento dei numerosi seguiti dei signori feudali, i cui membri subalterni divennero dei vagabondi prima di entrare nell'officina... molti contadini, cacciati di continuo dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in praterie o in seguito al fatto che i lavori agricoli richiedevano meno braccia per la coltivazione della terra, affluirono nelle città per secoli interi".

Poi riassume dicendo: "L'allargamento del mercato, l'accumulazione dei capitali, i mutamenti intervenuti nella posizione delle classi sociali...".

Dunque si noti:

  1. per Marx il capitalismo nasce in forza dell'espansione dei commerci, resa possibile dalla conquista dell'America, delle Indie ecc.;
  2. Marx non fa un'analisi culturale che spieghi l'origine del capitalismo;
  3. egli non ripone le cause della nascita del capitalismo all'interno della nazione capitalistica, ma le fa dipendere soprattutto dalla conquista militare di paesi non europei.
Viceversa, nel Capitale Marx dirà che il capitalismo nasce tutto all'interno della nazione mercantile; il rapporto con le colonie è marginale rispetto al ruolo che ha avuto il commercio interno, che, raggiunto un certo livello, ha appunto generato il capitalismo. In pratica il ragionamento del Marx maturo è di tipo hegeliano: da una serie di determinazioni quantitative ad un certo punto sorge una nuova qualità.

Il giovane Marx era invece convinto che il commercio interno si fosse sviluppato grazie soprattutto al commercio estero, che, a sua volta, dipendeva dal colonialismo.

Le domande rimaste senza risposta nel periodo giovanile portarono il Marx della maturità a formulare delle tesi fataliste.

In realtà il marxismo non ha mai spiegato perché il colonialismo sia una caratteristica tipica dell'Europa occidentale e soprattutto perché la nascita del capitalismo abbia favorito in maniera decisiva soltanto in Europa occidentale (specie nei paesi protestanti) la nascita del capitalismo.

L'Italia comunale, con le sue città marinare, era già un paese colonialista nei confronti del Medio Oriente (sin dai tempi delle crociate), e tuttavia non diventò un paese capitalista industriale, ma si fermò allo stadio commerciale; anzi, con la controriforma regredì a livelli para-feudali. Anche la Polonia, tra i paesi cattolici nord-europei, reagì al progredire del capitalismo delle nazioni vicine, accentuando il peso del servaggio.

Spagna e Portogallo, che pur erano già delle nazioni, ebbero bisogno di diventare prima di tutto paesi colonialisti, al fine di poter fronteggiare la concorrenza dei nuovi paesi manifatturieri del Nord Europa: eppure gli imperi coloniali che riuscirono a creare non servirono loro per diventare potenze industriali.

Questo significa che se il colonialismo appartiene come eredità culturale all'Europa occidentale pre-industriale (anzi, addirittura pre-borghese), il capitalismo invece ha bisogno di un terreno culturale specifico, quale solo la religione protestante poteva offrire.

Come mai allora la Germania, che pur ai tempi di Lutero era prevalentemente protestante, benché territorialmente divisa, dovette aspettare alcuni secoli prima di diventare una grande potenza industriale e capitalistica?

Il motivo è che in Germania la riforma protestante fu una rivoluzione tradita dallo stesso fondatore, che invece di allearsi con la classe borghese si alleò con quella latifondista contro le masse contadine in rivolta. Lutero si accontentò di due cose: 1) aver spezzato l'egemonia politica del cattolicesimo-romano; 2) aver posto le basi culturali per un rinnovamento del pensiero teologico.

Il vero artefice della rivoluzione culturale borghese, colui che decisamente unì il protestantesimo all'attività economica borghese fu Calvino, che non a caso riuscì a trovare ampi consensi in Svizzera, Olanda, Francia, Inghilterra e soprattutto Stati Uniti.

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Che Marx sia voluto partire dalla fenomenologia del capitalismo (l'analisi economica della merce) e non dall'ontologia (il nesso culturale tra religione ed economia), pare sia stata una scelta dettata dal lato "deterministico" del suo pensiero, che tende a privilegiare, della realtà sociale, l'aspetto economico.

Tuttavia, nel cap. XXIV del I libro del Capitale Marx si rende conto che senza un'analisi storica dell'accumulazione originaria si rischiava di finire in un "circolo vizioso": la fenomenologia, infatti, non è la scienza migliore per spiegare la genesi del capitale.

Sin dalle prime pagine del Capitale Marx aveva dato per scontata l'accumulazione originaria, anche perché ne aveva parlato nelle opere precedenti. Ora però egli si rende conto di doverla esplicitare attraverso un'indagine storica del fenomeno economico.

Qui in un certo senso si compie il dramma del Capitale, attraverso il quale Marx ha saputo sviscerare le contraddizioni economiche più recondite del capitalismo, senza tuttavia afferrarne la loro origine culturale.

Più volte (anche nell'esordio dello stesso cap. XXIV) egli ha equiparato la dinamica di taluni fenomeni capitalistici con quanto avviene nella religione (cristiana), ma la constatazione di questa analogia o è rimasta ferma a livello d'intuizione, oppure è stata usata come mera esemplificazione (non senza una certa dose d'ironia).

Resta comunque singolare che solo alla fine del I libro Marx abbia voluto affrontare in un apposito capitolo il problema del circolo vizioso, già individuato in altri passi del Capitale.

Marx non si è reso conto che la soluzione di tale arcano avrebbe inevitabilmente comportato la riscrittura di alcune parti del Capitale, specie quelle che trattano dei rapporti tra capitalismo e pre-capitalismo, nonché quelle che considerano il capitalismo come una "necessità storica" o quelle che vedono il macchinismo come un grande progresso di civiltà.

L'analisi storica del cap. XXIV, essendo stata trattata per ultima, non incide minimamente sull'impianto generale dell'opera. In realtà era proprio da essa che si sarebbe dovuti partire per comprendere la natura "culturale" della merce, cioè la sua origine "religiosa". In Marx vi sono dei limiti ermeneutici dovuti esclusivamente ai suoi pregiudizi in materia di religione.

Per Marx la "necessità storica" del capitalismo è dipesa dal fatto che nel modo di produzione feudale esisteva unicamente la proprietà privata dei mezzi produttivi, mentre quella collettiva era di scarsissimo rilievo.

"Questo modo di produzione presuppone una minuta ripartizione del suolo e degli altri mezzi di riproduzione [per Marx questo significa "dispersione, ristrettezza, egoismo sociale, povertà di mezzi..."], ed esclude, oltre alla concentrazione dei mezzi di produzione [il modello di produzione è quello delle moderne aziende capitalistiche!], anche la cooperazione [per Marx non esiste alcuna forma di "cooperazione" nell'ambito della famiglia patriarcale o tra famiglie patriarcali nell'affronto dei problemi comuni], la divisione del lavoro in seno agli stessi processi produttivi [ma la divisione del lavoro non trova forse la sua vera ragion d'essere in una solida cooperazione tra produttori?], il soggiogamento e la regolarizzazione della natura da parte della società [oggi un socialismo che dicesse questo non avrebbe nulla di democratico], il libero sviluppo delle forze produttive sociali [che però sotto il capitalismo non è mai esistito, in quanto il "sociale" è stato sostituito dal "privato" o, come nel socialismo reale, dallo "statale"]. Esso non si sviluppa che entro un ambito ristretto e assolutamente spontaneo della produzione [da notare l'equiparazione che Marx pone tra "spontaneismo" e "sviluppo secondo ritmi naturali"] e della società"(p. 1014, ed. Newton Compton).

La concezione della storia di Marx, per quanto concerne l'idea della "necessità storica", è tutta di derivazione hegeliana: vi è stata solo una sostituzione di categorie, che da filosofiche son divenute economiche.

Marx plaude al superamento della formazione feudale in nome del fatto che è preferibile una produzione sociale, di operai collettivizzati, in mano a singoli capitalisti, piuttosto che una produzione individuale (il servaggio viene considerato tale) in mano a singoli contadini tra loro separati e dipendenti da un signore analfabeta sul piano economico, e quando critica che tale transizione sia avvenuta con "metodi violenti", in ultima istanza la giustifica in nome della "necessità storica". Questo perché dolori e sofferenze inenarrabili saranno redenti dalla stessa storia, che si preoccuperà di espropriare i capitalisti, dando origine, per la prima volta nella storia del genere umano, a una produzione davvero sociale e consapevole, scientificamente organizzata.

Tutti i protagonisti delle vicende storico-sociali, non essendo consapevoli delle cause di fondo che generano i mutamenti dei processi storici, non sono considerati in alcun modo "responsabili"; o meglio, si può esser consapevoli delle dinamiche di un processo ma non responsabili della sua nascita, in quanto le generazioni ereditano sempre delle condizioni già date.

"Questa tremenda e spaventosa espropriazione delle masse della popolazione forma la preistoria del capitale"(p. 1014).

Paradossalmente per Marx la transizione dal capitalismo al socialismo potrà avvenire solo dopo che tutta la formazione sociale pre-capitalistica sarà stata distrutta dal capitale, solo dopo che si sarà verificata la più grande centralizzazione di capitali a livello internazionale.

A quel punto infatti diminuiranno i capitalisti medi e piccoli (espropriati dai più grandi) e aumenteranno a dismisura gli sfruttati, rendendo così evidente al mondo intero il contrasto tra "bene" e "male". La contraddizione tra rapporti e forze produttive diverrà insostenibile.

Come per incanto sorgerà allora l'istanza di liberazione, poiché alla stragrande maggioranza delle popolazioni apparirà un controsenso continuare a sviluppare il capitalismo in mezzo a una crescente miseria.

Il passaggio dal capitalismo al socialismo sarà molto meno doloroso di quello dal feudalesimo al capitalismo, poiché ieri si dovettero espropriare milioni di lavoratori, domani invece basterà espropriare pochi capitalisti.

Oggi dovremmo però aggiungere che questi "pochi capitalisti" detengono un potere enorme, in grado di distruggere decine di volte l'intero pianeta, un potere che è aumentato a dismisura proprio perché, invece di reagire subito, si è preferito assumere, nei loro confronti, posizioni attendiste e concilianti o comunque non sufficientemente risolute.

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Ecco un'affermazione di Marx che bene evidenzia il bisogno, quando risulta ostica la spiegazione del motivo culturale che genera il passaggio da una forma più primitiva di capitalismo a una più evoluta, di appellarsi alla categoria della "necessità storica": "il denaro viene trasformato in merci la cui unione costituisce la forma naturale del capitale produttivo, la quale quindi già racchiude in sé latente, in potenza, il risultato del processo di produzione capitalistico" (II libro, p. 42).

Il passaggio dal capitalismo commerciale a quello industriale viene considerato da Marx inevitabile, salvo imprevisti esterni che ne impediscono forzatamente la realizzazione. E qui calza a pennello -dice nella nota 189 di p. 951- l'esempio dell'Italia, la cui improvvisa involuzione storica viene fatta risalire alla scoperta dell'America, che impose il primato dell'Atlantico sul Mediterraneo.

Tuttavia è davvero strano che la prima potenza europea sul piano del capitalismo commerciale si fosse lasciata superare in così poco tempo da nazioni economicamente molto più arretrate. Gramsci addebitò l'involuzione alla mancata realizzazione dell'unità nazionale. Ma questa causa fu in realtà una conseguenza della mancata trasformazione del capitalismo da commerciale a industriale.

Il vero motivo che impedì all'Italia di trasformarsi nella prima nazione industriale d'Europa o comunque in una nazione capitalistica non meno importante dell'Inghilterra, fu la Controriforma.

Nel momento in cui la borghesia italiana accettò, seppur malvolentieri, la Controriforma (e fu un'accettazione più politica che culturale), tolse a se stessa la possibilità di diventare "capitana d'industria" e impedì al popolo italiano di realizzare l'unificazione nazionale e di costituire uno Stato indipendente dalla chiesa.

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Interessante l'osservazione secondo cui il capitalismo nasce nel XVI con la nascita della manifattura - fenomeno che appunto in Italia, rimasta ferma al livello dei commerci, non è avvenuto e che avverrà in particolar modo laddove s'imporrà una qualche riforma protestante, cioè una forma di emancipazione dal dominio o culturale o politico della chiesa romana.

Senza manifattura non è neppure il caso di parlare di espropriazione dei contadini. La prima industrializzazione della vita sociale è costituita dalla manifattura ed è con questa che la borghesia distrugge l'artigianato e subordina l'agricoltura.

Cosa ha impedito alla borghesia italiana di compiere questo passaggio? È stata appunto la religione cattolica, che, nonostante tutti i suoi palesi abusi, costituiva allora un'idealità più alta della religione protestante.

La borghesia italiana, nel complesso, non era ancora sufficientemente cinica e individualista.

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Più che di una contraddizione macroscopica (quella sottolineata da molti economisti borghesi), tra il I° e il II° libro del Capitale (contraddizione che in realtà è più apparente che reale), si deve piuttosto parlare di un'accentuazione del fatto che, in ultima istanza, è il processo di circolazione del capitale che determina quello produttivo.

Marx deve essersi chiesto ripetutamente il motivo per cui il capitalismo non sia nato là dove era forte il capitale commerciale: nel I° libro la risposta non era stata data in maniera precisa. Il capitalismo -si era detto- nasce là dove esistono sia un certo volume di capitali circolanti, sia la presenza sul mercato di una certa disponibilità di forza-lavoro, separata dai mezzi produttivi.

Ora, nel II° volume Marx sembra aver accentuato il fatto che, per la formazione del capitalismo, la determinante in ultima istanza è una forte e massiccia presenza di capitale monetario. Laddove esiste ciò è impossibile che ad un certo punto non nasca il capitalismo.

Col che Marx continua a dibattersi in un problema che non trova soddisfacente soluzione. La differenza principale tra capitalismo commerciale e quella industriale può essere di tipo meramente "quantitativo", come p. es. il volume delle merci o del capitale monetario circolante?

In realtà il capitalismo non ha bisogno solo di capitali circolanti e di manodopera salariata, ma anche, prima di tutto, della presenza culturale di un'ideologia di vita, che ne legittimi la nascita o che comunque ponga le basi, anche senza volerlo, per la sua gestazione.

Il capitalismo non può nascere come "figlio legittimo o naturale" di un sistema pre-capitalistico in decomposizione; o meglio, perché nasca con una patente di legittimità o di naturalità, occorre che venga elaborata un'ideologia specifica che s'incarichi di far sembrare bianco il nero e viceversa.

Occorre un'ideologia che s'insinui nei punti più deboli delle strutture dominanti, politicamente ancora forti, ma largamente sofferenti di una certa incoerenza tra valori, affermati in sede teorica, e realtà concreta.

Questa ideologia alternativa può cercare il compromesso con le istituzioni dominanti, ma deve comunque essere disposta, in caso di necessità, a trasformare i propri ideali in una lotta politica vera e propria.

Altrimenti si rischia che un'analisi approfondita delle contraddizioni del capitalismo finisca col fare gli interessi del capitale, che può servirsene per meglio riprodursi.

IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE (SEZ. VII)


È curioso vedere come in Marx l'origine del capitalismo venga fatta risalire al momento della "circolazione" del capitale e non al momento della "separazione" dell'individuo dalla comunità, contestualmente alla rivoluzione tecnico-scientifica (anche nel servaggio e infinitamente di più nello schiavismo c'è "separazione", ma non si può certo parlare di "rivoluzione" tecnologica, poiché questa presuppone una rielaborazione culturale anticristiana).

Dice Marx: "La trasformazione di una somma di denaro in mezzi di produzione e in forza lavorativa è il primo movimento effettuato dalla quantità di valore che deve fungere da capitale. Esso si verifica sul mercato, nella sfera della circolazione" (p. 742 Ed. Newton Compton, 1976, I).

Cioè l'esigenza o la necessità o l'inevitabilità di tale trasformazione non viene spiegata ma accettata come un dato di fatto. Il capitalismo, in un certo senso, si pone come un evento del destino: il tempo e il luogo, poste quelle premesse relative alla circolazione dei capitali, possono essere considerati casuali o comunque molto relativi.

Di fronte a sé Marx ha l'immagine di un individuo singolo, dedito al commercio di qualche bene di scambio che, ad un certo punto, decide di investire il proprio denaro nell'acquisto della forza-lavoro da impiegare in un'attività produttiva finalizzata all'accumulo di capitali.

A differenza degli economisti borghesi Marx capì perfettamente che la nascita del plusvalore (il cuore dello sfruttamento capitalistico) è strettamente connessa all'impiego di manodopera salariata, ma non riuscì a spiegare le ragioni culturali (storiche, se riferite a una classe sociale; esistenziali, se riferite a un individuo) che ad un certo punto portarono il mercante a trasformarsi in capitalista.

Infatti, finché si parla di "mercante" bisogna dare per scontato il primato dell'agricoltura (il commercio è solo un addentellato di un sistema di vita rurale); quando invece si parla di "capitalista" bisogna pensare al primato dell'industria (manifattura ecc.). Qui però è bene subito precisare che non può essere l'industria che di per sé spiega la trasformazione del mercante in capitalista, poiché la presenza stessa di una manifattura implica già una rivoluzione culturale, il protagonista della quale non necessariamente è stato lo stesso mercante o la classe cui egli appartiene.

L'origine del capitalismo va cercata, come motivazione e quindi come elaborazione culturale, nei testi degli intellettuali (filosofi e soprattutto teologi) i quali, a loro volta, non potevano prevedere con chiarezza tutte le possibili conseguenze che avrebbero potuto determinare le loro teorie. Generalmente un intellettuale elabora delle idee allo scopo di migliorare la situazione sociale, culturale ecc. del periodo in cui vive, e ovviamente spera che le generazioni future vogliano continuare a utilizzare, con gli inevitabili correttivi, quelle stesse teorie. Ma nessun intellettuale è mai in grado di prevedere, sino in fondo, che determinate sue idee potranno essere soggette ad un uso opposto o non voluto rispetto a quello immaginato.

La nascita del capitalismo, tanto per fare un esempio, non può essere culturalmente fatta risalire, stricto sensu, alla riscoperta medievale dell'aristotelismo, eppure in quel periodo vennero poste le basi, senza volerlo e senza neppure saperlo, per il superamento del cattolicesimo romano (che avverrà 500 anni dopo con la riforma protestante) e anche per l'affermazione del Cogito cartesiano, che rappresenta la quintessenza della primordiale concezione di vita borghese.

Ponendosi sulla scia del progressivo distacco del mondo latino da quello greco-ortodosso, i teologi cattolici hanno contribuito, senza volerlo e senza neppure esserne consapevoli, al superamento della loro stessa ideologia. È stato il progressivo imporsi dell'arbitrio del singolo sul collettivo (che per quanto riguarda la chiesa romana si estrinsecò nel primato che si volle concedere al papato rispetto alle esigenze conciliari) che ad un certo punto (per progressive determinazioni quantitative) si arrivò a trasferire questo processo dalla sfera politica (la gerarchia cattolica insieme alla nobiltà feudale) a quella sociale vera e propria, in cui la nuova figura del borghese imprenditore risulterà decisiva per la diffusione mondiale del capitalismo.

grazie a: Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/